martedì 19 febbraio 2013
Era Giovanni Gentile il vero capo dell'antifascismo italiano. I comunisti vendevano gli ebrei ai nazisti per pagarsi le terme
Paolo Simoncelli: Non credo neanch'io alla razza. Gentile e i colleghi ebrei, Le Lettere
Gentile criticò in pubblico l'antisemitismo del regime
Aiutò gli ebrei più di quanto fecero molti antifascisti
di Paolo Mieli Corriere 19.2.13
Che
Giovanni Gentile ai tempi delle leggi razziali del 1938 si sia
prodigato per aiutare non pochi colleghi ebrei è un dato
incontrovertibile già ben documentato nel libro di Rossella Faraone
Giovanni Gentile e la «questione ebraica» (Rubbettino). Il filosofo, che
nel 1944 fu poi ucciso dai Gap per la sua adesione alla Repubblica
sociale italiana, si era mosso alla fine degli anni Trenta a favore di
Paul Oskar Kristeller, per salvare il quale si era rivolto addirittura a
Benito Mussolini. Si era poi dato da fare anche per Rodolfo Mondolfo,
Giorgio Levi Della Vida, Arnaldo Momigliano, Richard Walzer, Isacco
Sciaky, Gino Arias, Alberto Pincherle, Gina Gabrielli, moglie di un
ebreo. Ma un saggio di Giovanni Rota, Il filosofo Gentile e le leggi
razziali (uscito sulla «Rivista di storia della filosofia» edita da
Franco Angeli) — che pure ha messo in evidenza la diversità tra
l'atteggiamento risoluto del filosofo a favore degli israeliti e quello
più equivoco di un Delio Cantimori e di moltissimi altri —, ha eccepito
che gli interventi gentiliani furono limitati all'«oasi pisana» e come
tali rischiano di metterci nelle condizioni di «far scivolare nell'ombra
la produzione pubblica del personaggio, ciò che disse apertamente (e
anche ciò su cui fu reticente)», inducendoci a perdere di vista «il
Gentile che di mestiere scriveva libri e articoli, l'educatore che
pronunciava discorsi, teneva conferenze e lezioni all'Università». Va
messo in chiaro, scrive ancora Rota, che «la mancanza di pronunciamenti
pubblici dopo il 1938 era stata preceduta da un analogo mutismo (in
materia di ebrei, ndr) prima di questa data». Lo stesso attivismo a
favore di Kristeller, secondo Rota, non può essere configurato come una
forma di «protesta nei confronti della legislazione razziale». Talché,
se va detto che «la persona Giovanni Gentile non era razzista» e che «il
filosofo Gentile non si cimentò certo in una teoria della razza», non
per questo si può presentare il «personaggio pubblico Gentile» come una
persona che trovò il modo di pronunciarsi in pubblico contro le leggi
antisemite.
Adesso un nuovo libro di Paolo Simoncelli, «Non credo
neanch'io alla razza». Gentile e i colleghi ebrei, di imminente
pubblicazione per Le Lettere, prova a rispondere a Giovanni Rota. Tanto
per cominciare mettendo in evidenza le parole di cui al titolo del libro
(«Non credo neanch'io alla razza»), scritte da Giovanni Gentile in una
lettera a Girolamo Palazzina, che sono seguite da «e l'ho detto ben
forte a chi di ragione», laddove s'intende che quel «chi di ragione»
altri non è se non Benito Mussolini. D'altra parte, quando si parla di
Gentile, secondo Simoncelli, è un fatto che non ci siano tracce di
«compromesso» con il razzismo nelle sue attività come docente
all'Università di Roma o alla Normale di Pisa. E neanche in quelle di
direttore dell'Enciclopedia italiana o del «Giornale critico della
filosofia italiana». Anzi.
Nella prolusione alla seduta inaugurale
(dunque «pubblica») dell'Istituto per il Medio ed Estremo Oriente,
tenutasi a Roma al teatro Brancaccio il 21 dicembre del 1933 (quando,
cioè, Adolf Hitler era al potere da quasi un anno), Gentile disse: «Roma
non ebbe mai un'idea che fosse esclusiva e negatrice… Essa accolse
sempre, e fuse nel suo seno, idee e forze, costumi e popoli. Così poté
attuare il suo programma di fare dell'urbe, l'orbe. La prima e la
seconda volta, la Roma antica e la Roma cristiana: volgendosi con
accogliente simpatia e pronta e conciliatrice intelligenza a ogni
nazione, a ogni forma di vivere civile, niente ritenendo alieno da sé
che fosse umano. Sono i popoli piccoli e di scarse riserve quelli che si
chiudono gelosamente in sé stessi, in un nazionalismo schivo e
sterile». Parole che, scrive Simoncelli, stanno a testimoniare «la
condanna di un nazionalismo gretto, incapace di aprirsi ad apporti
culturali diversi». Condanna «espressa in pubblico e poi consegnata alle
stampe, nel pieno montare delle persecuzioni antiebraiche nella
Germania nazista». Poi, il 21 giugno del 1940, pochi giorni dopo
l'entrata in guerra dell'Italia a fianco della Germania, in un articolo
per la rivista «Civiltà», Gentile proponeva, nel nome della tradizione
dell'antica Roma, «un processo di unificazioni di stirpi e religioni»
che certo, insiste Simoncelli, era in contrasto con le tesi sulla
purezza della razza. E quell'articolo era pubblico. Temi su cui tornava
con un nuovo articolo, sempre su «Civiltà», il 6 gennaio del 1942, a
ridosso dell'aggressione giapponese di Pearl Harbour, per perorare la
causa di un nuovo ordine internazionale che riconoscesse «il vantaggio
della mutua intelligenza e della collaborazione fraterna delle razze
diverse, nessuna delle quali è nata a servire». Pubblico anche questo.
Pochi giorni dopo, il 15 gennaio, scrive ancora Simoncelli, «in una
circostanza pubblica e di particolare solennità», una conferenza al
teatro Brancaccio di Roma di monsignor Celso Costantini, segretario
della Congregazione di Propaganda Fide, il filosofo si spingeva a
prevedere una «nuova collaborazione a cui tutte le razze saranno
chiamate alla fine del presente conflitto».
Il 28 maggio del 1943, in
occasione dell'affollata commemorazione alla Normale di Michele Barbi
(un personaggio che incontreremo più avanti), aveva reso omaggio al
comune maestro Alessandro D'Ancona: «Noi che avemmo la fortuna di essere
stati alla scuola del D'Ancona, lo ricordiamo maestro di scienza e di
vita, quello che più di tutti ci fece sentire ed amare nella perennità
della storia e del calore della fede vivente la Patria immortale; e
abbandonarlo oggi all'oblio ci parrebbe empietà vile, poiché anche nella
furia della lotta più aspra si può e si deve serbare la misura e
osservare la giustizia». Parole che non mancarono di trovare ampia eco
negli ambienti antifascisti, dal momento che D'Ancona era ebreo. A
questo punto è doveroso porci una domanda: quale altra personalità del
regime ebbe il coraggio di dire in pubblico cose del genere? Nessuno.
Anche chi avrebbe avuto obiezioni da muovere, se ne restò in silenzio. E
il silenzio non fu solo quello degli uomini di Mussolini…
Nel bel
libro Passaggi (Einaudi), Vittorio Foa, parlando di suoi amici «illustri
antifascisti», ha messo il dito sulla piaga: a parte Croce e pochissimi
altri, «nessuno aveva detto una sola parola contro la cacciata degli
ebrei dalle scuole, dalle università, dal lavoro, contro quella che è
stata un'immonda violenza… I nomi che mi vengono subito in mente sono
quelli della mia parte politica, taciturni come tutti gli altri».
Per
approfondire di cosa stava parlando Vittorio Foa, è interessante
osservare quel che accadde verso la fine degli anni Trenta alla Sansoni,
la casa editrice di Giovanni Gentile, guidata da suo figlio Federico.
Se ne occupò già Gianfranco Pedullà in un libro, Il mercato delle idee.
Giovanni Gentile e la casa editrice Sansoni (Il Mulino), che però non
dava conto di alcuni scambi epistolari portati adesso alla luce da
Simoncelli. Va detto subito che per la Sansoni lavoravano a vario titolo
molti israeliti: Walzer, Mondolfo, Eugenio Colorni, Sciaky, Roberto
Almagià, Pincherle, Paolo D'Ancona, Giorgio Falco. E soprattutto un
giovane critico messosi in luce con una scintillante monografia su
Vittorio Alfieri: Mario Fubini, all'epoca trentottenne, ma già in
cattedra a Palermo. Nel 1938 troviamo Fubini al lavoro per curare un
volume sui «settecentisti» nella collana dei Classici italiani diretta
da Luigi Russo e un altro su Foscolo. A metà luglio il «Giornale
d'Italia» pubblica il Manifesto della razza e il mondo gentiliano entra
in fibrillazione. Da San Vigilio di Marebbe (dove è in vacanza) Luigi
Russo scrive a Federico Gentile a informarlo che il suo «scolaro» Ettore
Levi, onde evitare grane al maestro, si è detto disposto a rinunziare
al volume su Francesco Petrarca e a «cedere» i risultati delle sue
fatiche a un altro normalista, Antonio D'Andrea. Ma, aggiunge Russo,
sarà meno facile trattare con Fubini, «il quale si abbatterà moltissimo…
e rinunzierà malvolentieri alla nominalità del suo lavoro». Un tono
«secco», osserva Simoncelli, «sorprendente perché privo di reazioni
sdegnate» contro la legislazione sulla razza, «diretto a risolvere
subito l'aspetto pratico del problema» nel sostituire gli studiosi ebrei
con altri non ebrei, come se tutto fosse «ineluttabilmente normale». In
effetti Fubini si mostra subito assai meno remissivo di Levi. Fubini è
in vacanza a Cogne e di lì scrive a Federico Gentile: «Sono molto
turbato e rattristato, per le notizie di questi giorni; Ella può pensare
quel che significhino per me! Mi sarà dato ancora lavorare come
vorrei?». Non tutti, in ogni caso, sono, come Luigi Russo, poco
sensibili ai temi etici sollevati dalle leggi razziali. In merito alla
«marea antisemita», il vicedirettore della Normale, Gaetano Chiavacci,
scrive negli stessi giorni a Federico Gentile una lettera che gli fa
onore: «Dovremo assistervi passivi? O è lecito in qualche modo mostrare
le grossolane inesattezze di quelle sedicenti conclusioni
scientifiche?».
Passa qualche giorno e Federico Gentile comunica a
Russo di aver scritto a Fubini «con molta delicatezza e amicizia,
esortandolo a continuare il lavoro che io in ogni modo pubblicherò».
Anche se poi afferma di rendersi conto delle difficoltà. Difficoltà che
sono ben presenti a Isacco Sciaky, in vacanza ad Alleghe, che scrive a
Giovanni Gentile, da poco trasferitosi in Versilia, preannunciandogli
una visita a Forte dei Marmi: «Porterò la pioggia? Responsabilità più,
responsabilità meno…». Poco dopo Sciaky si trasferirà a Tel Aviv e
all'estero ripareranno nel giro di qualche anno quasi tutti gli studiosi
israeliti. Fubini invece resterà in Italia fino al 1943.
Torniamo,
adesso, al 1938. A metà agosto, dopo una circolare ai provveditorati che
vieta l'adozione di testi firmati da autori ebrei, Russo, in una
lettera a Federico Gentile, torna sul caso Fubini: «Non trovo delicato
che io o lei si scriva a Fubini; è Fubini che deve dirci da sé, come ha
fatto Levi, che rinunzia al suo lavoro, o almeno alla nominalità del suo
lavoro». In una seconda missiva Russo proponeva di sostituire Fubini
con Emilio Bigi, «un altro normalista», ma, aggiungeva, bisogna
preoccuparsi di trattare molto delicatamente il Fubini, «il quale è
assai suscettibile e ombroso… La dissimulazione del nome l'offenderebbe e
d'altra parte la sospensione della pubblicazione ne deprimerebbe l'amor
proprio». Certo, si poteva tenere il suo nome in copertina rinunciando
alla diffusione del libro nei licei e Russo si dice disposto in tal caso
a «sacrificare, senza essere un eroe, quel po' di guadagno che mi può
venire da tutta l'antologia». Gentile gli risponde che scriverà a Fubini
«nel senso da lei indicatomi», cioè per indurlo a farsi da parte, ma lo
farà «molto a malincuore e quasi con vergogna».
Luigi Russo, però,
insiste. Ha saputo che l'editore Principato è costretto a ritirare dalle
scuole un libro dell'ebreo Attilio Momigliano (La Letteratura italiana)
e vorrebbe potergli subentrare con la sua antologia, anche se si sente
in dovere di aggiungere: «È doloroso che bisogna approfittare delle
disgrazie altrui per i nostri interessi». Ma l'occasione è ghiotta. Il
ministero sta predisponendo un albo dei libri «contaminati» da autori
ebrei, libri che per questa ragione non possono essere ammessi al
mercato scolastico. Secondo Russo è «il momento giusto per uscire» e
«sarebbe veramente un bel guaio se la nostra Antologia per colpa,
diciamo così, del povero Fubini, dovesse venire inclusa in
quell'elenco». Ma Fubini non risponde. Russo, preoccupato per quel
silenzio, torna a scrivere al giovane Gentile: «Io ho apprezzato sempre
molto l'ingegno del Fubini, ma non l'animo troppo rimesso. Anche quando
le cose gli andavan bene, egli aveva l'abitudine di lamentarsi».
Successivamente propone di compensarlo ugualmente e di sostituirlo con
Francesco Flora: «Fubini dovrebbe essere contento perché gli si salva il
reddito». Passano pochi giorni e il tutto sembra avviarsi a soluzione.
Federico Gentile informa Russo di aver ricevuto un'«affettuosa lettera»
di Fubini che gli chiede di trovare «la soluzione migliore». «Gli
rispondo immediatamente», scrive Gentile, «che cercheremo un nome da
sostituire al suo, lasciando a lui tutti i diritti d'autore».
Russo
ha fretta. Proprio in quei giorni si lamenta con Benedetto Croce del
fatto che, pur essendo il volume in questione «pronto in tipografia da
un pezzo» e «nonostante le assicurazioni ufficiali che la raccolta va
bene anche coi nuovi programmi», l'editore non si decida «a metterlo
fuori». Parole scritte, osserva Simoncelli, «senza alcun cenno alla
sostituzione, per la vigente ignominia razziale, del nome del Fubini».
Giovanni Gentile, invece, si rende conto del problema e dice che
vorrebbe far uscire il libro senza il nome di un curatore che non fosse
quello vero: Fubini, appunto. Ma questi si rassegna: «Il mio amico
professor Luigi Vigliani, insegnante di italiano e latino al Liceo
D'Azeglio», scrive a Federico Gentile, «mi dice di essere disposto ad
assumere l'incarico di cui abbiamo parlato. Io preferirei la soluzione
accennata da suo padre: ma se non fosse possibile, la cosa si potrebbe
accomodare in questo modo». E in quel modo si accomoda. Russo ne sarà
compiaciuto, non tornerà mai su quella vicenda e nel dopoguerra — come
bene raccontato da Pierluigi Battista in Cancellare le tracce (Rizzoli) e
da Paola Frandini in Il teatro della memoria (Manni) — sarà un gran
fustigatore di suoi colleghi accusati di qualche compromissione con il
fascismo (Natalino Sapegno, Giacomo Debenedetti) e si presenterà, da
indipendente, nelle liste del Partito comunista italiano (candidato «di
testimonianza», in Sicilia, là dove sapeva che non sarebbe stato eletto)
alle elezioni del 18 aprile del 1948.
Ma torniamo ai fatti di dieci
anni prima. Il problema che riguarda Fubini si ripropone per l'altro
volume, quello su Foscolo. La questione stavolta è sollevata dal
presidente del Comitato scientifico per l'Edizione nazionale delle Opere
foscoliane, Vittorio Cian. Il quale chiede lumi in merito al «caso
Fubini» al direttore dell'edizione, Michele Barbi. Barbi si rivolge
allora a Giovanni Gentile, che adesso, alla luce anche del fatto che non
esiste alcun divieto per gli ebrei di firmare opere non destinate alla
scuola, va a perorare la causa di Fubini con il ministro Giuseppe
Bottai. Ma non la spunta. Vien fuori allora la proposta (accolta dal
filosofo) di far firmare il libro, sulla base di «un'intesa onorevole», a
Plinio Carli, segretario del Comitato foscoliano. Il quale Carli, in
una nota «riparatrice», avrebbe trovato il modo di «rendere a ciascuno
il suo», cioè di attribuire a Fubini i dovuti meriti per la curatela.
Fubini reagisce a quella che considera un'«intimazione» e se ne dispiace
con Barbi: «Ho ricevuto la sua lettera. Non mi pare che vi sia, per
usare le sue parole, la possibilità di un'intesa onorevole tra il Carli e
me: un'intesa come quella di cui ella mi parla, non sarebbe onorevole
né per me né per il Carli, e nemmeno, mi permetta di dirlo, per la
Commissione che l'ha suggerita e che la dovrebbe sanzionare con la sua
autorità… Non vedo poi come il Carli potrebbe in una nota riparatrice
"rendere a ciascuno il suo", dal momento che di "suo" non vi è se non il
nome, e mio è tutto il resto».
Successivamente Fubini si spiega con
Giovanni Gentile: «Se io accettassi la soluzione propostami, quali
fossero i vantaggi personali che ne potrei avere», gli scrive, «io
verrei ad aderire ad un atto di ingiustizia, dando il mio consenso alla
soppressione del mio nome a un lavoro che mi appartiene». E ancora:
«Forse ella mi dirà che io ho pur consentito a lasciar pubblicare sotto
un altro nome l'antologia dei Classici italiani da me curata: ma, a
parte il fatto che si trattava di un'opera destinata alle scuole e
perciò direttamente colpita da una proibizione legale, io sono stato
indotto ad accettare la soluzione propostami, unicamente per far un
piacere a suo figlio e al Russo, che sarebbero stati danneggiati da un
mio rifiuto… Non ho mai amato i sotterfugi e forse avrei fatto meglio a
rifiutare, ma non voglio che il caso costituisca un precedente».
Inoltre, prosegue, quello foscoliano «è lavoro di tutt'altra importanza,
e, a rigore, nessuna legge ne proibisce la pubblicazione… perciò col
mio consenso io stesso contribuirei, in certo qual modo, alla effettiva
esclusione di noi ebrei dalla cultura della nazione, a cui sentiamo, ora
più che mai, di appartenere». Se poi, concludeva Fubini, «la
Commissione ritiene di dovere, in seguito al mio rifiuto, ritirarmi
l'incarico affidatomi, lo può naturalmente, quali siano i suoi moventi;
da parte mia non posso, anche se non mi è dato farle valere, che opporre
validissime ragioni giuridiche e morali a una simile decisione». Infine
una sfida: «Mi permette di aggiungere che sarebbe per me cagione di
vivo dolore il sapere che tra coloro che mi hanno posto
quell'alternativa e al mio rifiuto sono disposti a rinunciare all'opera
mia, vi è lei a cui, come non pochi della mia generazione, sono debitore
di tanta parte della mia cultura? Non posso però credere che ella
voglia contribuire, andando al di là dei divieti legali, o, almeno
percorrendoli, alla nostra esclusione dalla cultura nazionale ed
accrescere in tal modo l'isolamento cui siamo costretti».
Il filosofo
rimane toccato da questa lettera e risponde quasi scusandosi: «Né io,
né certamente il Barbi, abbiamo pensato un momento a fare la minima
pressione sopra la sua volontà e tantomeno a un'intimazione». Dopodiché
torna alla carica con Bottai, sottoponendogli nuovamente il «quesito
Fubini». Ma non ottiene il via libera. Si muove anche Vittorio Cian — il
quale era stato relatore in Senato al momento della conversione in
legge dei decreti sulla razza — che parla di «colpa grave» (curioso
lapsus, nota Simoncelli: non danno, colpa) inflitta «alla nostra
edizione foscoliana» dai «giusti provvedimenti antiebraici» e relaziona a
Gentile dicendogli di aver chiesto a Bottai una «semi discriminazione»
(cioè una liberatoria) a favore di Fubini. Ma senza risultato. Si trova
così un ennesimo compromesso e Barbi scrive a Fubini: «Posso finalmente
darti l'assicurazione che desideri dal Comitato, il volume sarà
pubblicato anonimo, senza che altro nome figuri né sul frontespizio, né
sulla prefazione, neppure quello del Comitato onde nessun equivoco è
possibile». Fubini non si rassegna del tutto: «Le condizioni di cui tu
mi parli rappresentano per me delle condizioni minime e, se si
presentasse la possibilità di condizioni differenti, vale a dire fra
l'altro se esistesse anche un solo precedente in questo senso, io avrei
diritto di esigere un più aperto riconoscimento dell'opera mia». Nel
settembre del 1941 Barbi muore e tutto torna in alto mare. Cian va
nuovamente alla carica con Fubini, che non ha più dato notizia di sé.
Ma, prima di muoversi, manifesta a Gentile la sua perplessità: «Forse a
Fubini sarebbe ostico d'avere a trattare con me di questa faccenda
delicata anche perché mi conosce tutt'altro che tenero verso la sua
razza». Gentile spedisce Cian da Bottai, che lo riceve con
«un'accoglienza cordiale», ma «di pochi minuti, in piedi». Cian continua
a lamentarsi del fatto che Fubini non si faccia vivo con lui e sostiene
che ciò sia a causa delle sue «idee razziali» talché, suggerisce a
Gentile, forse «si arrenderebbe più volentieri — o meno malvolentieri —
dinanzi a una tua lettera». Se, osserva Simoncelli, Cian «continuava a
ostentare le proprie "idee razziali" che, note al Fubini, lo avrebbero
comprensibilmente trattenuto dal volere rapporti con lui, e se quindi
toccava a Gentile ristabilire i contatti, era evidente che questi avesse
idee diverse e che tale diversità fosse ben nota agli altri
protagonisti del caso».
Un contatto tra Fubini e Giovanni Gentile si
ristabilisce nell'aprile del 1942, quando il giovane critico scrive
all'anziano filosofo una lettera di condoglianze per la morte (il 30
marzo) del figlio Giovannino. Gentile risponde con affetto, riprendendo
il discorso da dove si era interrotto: il volume sarebbe stato
pubblicato anonimo e ovviamente i diritti sarebbero stati riconosciuti
per intero a Fubini nella misura da lui stesso indicata. Ne informa
Cian, che così si complimenta: «Hai risposto, come sempre, come non si
poteva meglio, ed hai fatto bene, data la razza, a toccare il tasto dei
compensi che, del resto, gli spettavano». Ma Fubini non raccoglie quel
cenno ai soldi, anzi scrive a Gentile: «Nemmeno ho da fare alcuna
proposta sul compenso per il lavoro fatto o per i danni patiti, di cui
ella mi parla nell'ultima sua; non chiedo nulla perché mi ripugna fare
questione di lucro quella che è per me — a parte il lavoro fatto e reso
inutile — una questione morale».
Le cose, poi, si complicarono
ancora. Tra l'autunno del '43 e l'inverno del '45 è l'ora
dell'occupazione nazista e della lotta partigiana. Gentile viene
ammazzato da un commando dei Gap. A guerra terminata, nell'agosto del
1945, Cian torna a farsi vivo con Fubini, ma con toni diversi, più
melliflui: «Come vedi dall'intestazione di questo foglio ti scrivo in
veste, anzitutto, di rappresentante superstite e caduco del Comitato
foscoliano, ma anche del vecchio maestro ed amico che gode di darti il
tuo ben tornato e di farti i suoi auguri più cordiali… Dopo tanti guai e
in mezzo a tante tristezze mi è motivo di conforto il poterti rinnovare
oggi, senza più timore di veti di natura extra-letteraria, l'invito a
riprendere l'opera tua di collaboratore di prestigio all'edizione del
Foscolo…». Poi, come incidentalmente, Cian cerca di nascondersi dietro
il filosofo ucciso l'anno precedente: «Non ho bisogno di ricordarti gli
sforzi fatti da me allora, con l'aiuto del povero Gentile, per indurre
il ministro d'allora a rinunziare al suo veto irragionevole». Fubini
evita di fare polemiche e l'anno seguente viene chiamato a subentrare a
Cian alla presidenza del Comitato dell'Edizione nazionale delle Opere di
Foscolo. Nel 1951 gli è finalmente possibile dare alle stampe il libro
che aveva tanto atteso, con il suo nome sul frontespizio. «Quali ragioni
abbiano ritardato sino ad oggi la pubblicazione di questo volume, da
tempo annunciata, non importa qui ricordare; non ai pochi che bene le
conoscono, non agli altri, ai quali potrebbe sembrare che rammentandole
io indulgessi a recriminazioni, per tanti rispetti inopportune, o
mirassi a cattivarmi la benevolenza del lettore, facendogli presente le
difficoltà incontrate in un lavoro già di per sé non facile, che ho
dovuto interrompere e riprendere non una sola volta durante un così
lungo spazio di tempo», scrive nella prefazione. Ringrazia poi Luigi
Vigliani, che gli aveva «prestato» il nome, l'amico Franco Antonicelli,
che nel '42 gli aveva offerto di pubblicare il saggio per l'editrice De
Silva, e il preside della facoltà torinese di Giurisprudenza Giuseppe
Grosso, «al quale consegnai il manoscritto nell'ottobre del '43 quando
fui costretto ad allontanarmi dal Paese dove mi trovavo e che me lo
custodì fedelmente in quei tempi fortunosi». E qui aggiunge — assieme ad
una dedica a Michele Barbi — un'esplicita, inaspettata, menzione di
Giovanni Gentile che «si dedicò all'Edizione nazionale del Foscolo con
quell'impegno e quello zelo che portava in ogni impresa culturale». Per
l'epoca fu un fatto clamoroso. Ma nessuno lo notò o fece sapere che lo
aveva notato.
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