venerdì 31 gennaio 2014

Una raccolta di lettere e schizzi di van Gogh

Vincent van Gogh: Scrivere la vita. 265 lettere e 110 schizzi originali (1872-1890), Donzelli

Risvolto
Le lettere di Vincent van Gogh sono la più intensa e commovente testimonianza di un artista nella storia della letteratura mondiale. Oltre a essere uno dei più grandi pittori di tutti i tempi, Van Gogh era infatti uno scrittore dal talento straordinario. Le centinaia di lettere scritte al fratello Theo, agli amici artisti – come Paul Gauguin, Georges Seurat, Paul Signac o Emile Bernard – compongono un sorprendente racconto della sua vita, e insieme rappresentano uno strumento indispensabile per penetrare il suo universo artistico. La lettura di queste pagine – una generosa selezione dall’immenso corpus del carteggio, che per il rigore e l’autorevolezza che la ispirano può ritenersi definitiva –mette profondamente in discussione l’immagine del genio capriccioso e irrequieto che siamo abituati a collegare alla figura dell’artista. Van Gogh non era un depresso e un ubriacone, capace poi istintivamente di trasferire sulla tela il mondo che lo circondava. Le sue lettere non sono un insieme di esternazioni irrazionali, prive di coerenza, ma la testimonianza di un genio, di un sottile pensatore, con una precisa visione del mondo, alla costante ricerca del senso dell’esistenza. Le lettere rappresentano per l’artista un vero e proprio laboratorio, di cui egli si serve per sviluppare idee sull’arte, sulla vita, sulla pittura e sulle sue tecniche, sulla letteratura – di cui era un appassionato frequentatore – e sulla condizione umana in genere. Van Gogh scrive incessantemente del suo essere in lotta, dei suoi scarsi successi, della disperazione e della malattia. La sua prosa è affascinante, libera da qualsiasi sensazionalismo, e capace di arrivare dritta al cuore, «nel più puro degli stili» come ha scritto Charles Bukowski. Nelle lettere, la parola scritta e l’immagine spesso si fondono, l’una dà forza all’altra. Van Gogh scriveva e disegnava, componendo schizzi e bozzetti che avrebbero poi dato vita ai suoi capolavori. Il volume contiene, infatti, 110 schizzi originali, per la prima volta qui pubblicati a colori e contestualmente ai testi delle lettere. Lo struggente document humain rappresentato dal corpus di queste lettere di Van Gogh ha lo stesso fervore della sua arte, e sembra dirci con Van Gogh: «Voglio andare avanti a ogni costo – voglio essere me stesso».




Un volume pubblicato da Donzelli raccoglie 265 lettere e 110 schizzi originali del grande pittore che si rivela anche scrittore di talento
Gian Domenico Iachini Europa 31 gennaio 2014 STAMPA 

giovedì 30 gennaio 2014

Bella, ciao.

Lo spettacolo osceno dei parlamentari del PD e di Siderurgia & Aperitivo che evirano la democrazia parlamentare cantando Bella Ciao conferma che abbiamo perso definitivamente un’altra casamatta. E ci dice che l’uso della retorica dell’antifascismo non è più che il canto funebre dell’antifascismo stesso, un’esperienza storica di emancipazione che nel nostro Paese va oggi morendo assieme alla Costituzione repubblicana e alla democrazia nella sua accezione moderna.

 Negli anni Venti e Trenta del XX secolo, intrecciata al conflitto politico-sociale, si è svolta una lotta egemonica furibonda per il significato delle parole. Volk, Arbeiter, Sozialismus…: ancora forte della fame, della spinta ascendente dei propri miti rivoluzionari e alla testa di un processo storico impetuoso che abbracciava tutta la Terra, il movimento operaio e democratico è riuscito a respingere l’ultimo colpo di coda del vecchio ordine e – pur avendo subito in Europa delle gravi sconfitte - a difendere il significato che queste parole avevano assunto dal 1848 in avanti.

Non è stato così nel dopoguerra, quando proprio l’attenuazione del conflitto, la presenza di rapporti di forza più favorevoli e lo sviluppo delle forze produttive hanno favorito una progressiva identificazione dell’antifascismo con il ben diverso concetto di “antitotalitarismo” proprio del Mondo Libero. Non a caso, oggi la potenza antifascista per definizione - che è anche quella potenza che per definizione è in grado di imporre i nomi - sono gli Stati Uniti e il pericolo principale viene da questi indicato nel “fascismo” islamico come nel “fascismo” dei nuovi Hitler di volta in volta costruiti dall’industria mediatica del consenso.

L’esito della Guerra Fredda ha fatto il resto. E nel costume di casa di questa semicolonia, quel termine, che ha prevalentemente una funzione simbolica compensativa (allevia il dolore e la vergogna per dover votare qualunque porcheria), è oggi anche lo strumento politico-morale che fornisce il titolo di legittimità per la manipolazione assoluta della verità. E per l’espulsione dell’avversario dallo spazio sacro della civiltà e del politicamente corretto nel mare barbaro dell’abiezione, della volgarità, praticamente del terrorismo.

 Siamo costretti a obiettare e faremo perciò di tutto per difendere il significato delle parole. Ma non riconquisteremo mai più il concetto di antifascismo. Facciamocene una ragione [SGA].

La guerra delle monete: analisi di scenari o Protocolli dei Savi di Pechino?

Intanto, è chiaro l'uso in chiave di Guerra Fredda culturale  che ne fa la recensione [SGA].

Hongbing Song: La guerre des monnaies. La Chine et le nouvel ordre mondial, Editions Le retour aux sources, pp. 446, euro 23

Risvolto

Voici enfin disponible en français le célèbre livre qui a fait bouger les lignes économiques officielles de l' Empire du Milieu. Vendu à plus de 2 millions d exemplaires en Chine, traduit en japonais, en coréen et en polonais, le best-seller chinois de Hongbing Song, « Currency Wars », déroule l'histoire de la grande cabale monétaire qui a façonné le monde depuis plus de deux cents ans, de la constitution de la dynastie des Rothschild à la fin du 18e siècle jusqu'à la crise de 2008. Livre de chevet des membres du Comité Central du Parti Communiste et des banquiers chinois, La Guerre des Monnaies a fait comprendre aux dirigeants de la future première économie mondiale qu'une guerre redoutable livrée dans les coulisses du pouvoir, suivant un axe Londres/Wall Street, tentait d'établir coûte que coûte un nouvel ordre mondial au profit d une oligarchie financière sans foi ni loi. En mars 2013, la Chine s'annonçait prête à riposter en cas de... guerre des monnaies !


Arriva in Francia «La guerre des monnaies», il Bignami della strategia monetaria del Celeste Impero Ha spiegato a 3 milioni di lettori come colonizzare economicamente l’umanità. A partire dall’oro... 

Il «libretto rosso» per prendere il mondo 

30 gen 2014  Libero SIMONE PALIAGA 


Un bestseller cinese. A scalare le classifiche del Celeste Impero non è il romanzo di un dissidente. E neppure un’inchiesta contro i soprusi del governo.  
Stiamo invece parlando di un volume che dalla sua pubblicazione nel 2007 ha suscitato notevole interesse nei dintorni di Pechino. Si parla di 2 milioni di copie che, vista la popolazione cinese, da noi sembrano poche. Ma, considerando che si è piazzato alle spalle del settimo capitolo della saga di Harry Potter, il suo peso tra i lettori cinesi è evidente. Ora questo libro è stato tradotto in francese e meriterebbe una versione italiana per comprendere come le classi dirigenti dell’Estremo Oriente pensano e ragionano. Si tratta di La guerre des monnaies. La Chine et le nouvel ordre mondial scritta da Hongbing Song ( Editions Le retour aux sources, pp. 446, euro 23). La guerra delle monete dunque è l’argomento che oggi sta a cuore all’erede attuale del Celeste Impero e costituisce l’architrave per la partita che dovrebbe assicurarle l’egemonia del XXI secolo. 
Ad accorgersi tra i primi di questo campo di battaglia è un giovane cinese che per quattordici anni, prima di rientrare in Asia, ha lavorato negli Usa presso gli alti livelli di Fannie Mae e Freddie Mac, le società che acquistavano mutui dalle banche e che sono all’origine della crisi dei subprime. Le public company dovevano farsi carico dei debiti insolvibili degli istituti di credito e assicurare il sistema economico americano per evitarne il crollo. Insieme alla Federal Reserve, che intanto inondava il mondo di biglietti verdi, avrebbero dovuto garantire la supremazia mondiale del dollaro. Hongbing Song, esperto dei meccanismi della finanza internazionale, ha così voluto allertare le autorità cinesi dell’operazione che avrebbe messo in pericolo la forza della Cina. I suoi avvertimenti sono stati subito accolto dai vertici del Comitato Centrale del Partito Comunista tanto che l’allora vicepresidente del Consiglio di Stato con delega agli affari economici avrebbe ordinato ai suoi funzionari di leggerlo per stabilire la strategia e far fronte a La guerra economica che avrebbe messo a repentaglio la scalata cinese. 

Passo dopo passo l’autore conduce il lettore nella storia economica dell’Occidente. Dalla nascita della Banca di Inghilterra nel XVIII secolo ai tentativi di privatizzare la Federal Reserve statunitense fino ad arrivare alla recente crisi. Non si tratta di una ricostruzione accademica perché si prefigge di «mettere a nudo i burattinai che tirano le fila dell’economia mondiale in modo da pronosticare la direzione da cui proverranno i futuri attacchi alla Cina e individuare le possibili contromisure».  
«Che la Cina diventi una potenza sullo scacchiere mondiale verso la metà del XXI secolo è prevedibile e tutti lo condividono. Ma questa considerazione non prende in esame» scrive Hongbing Song «gli ostacoli che si si sistemeranno lungo il suo cammino» per minarne la forza commerciale. Per fronteggiare la speculazione finanziaria che vorrebbe piegare la forza dello yuan (o renminbi, moneta del popolo) occorre sottrarsi il più possibile alle bizze dei mercati valutari. Per rendere stabile la propria forza commerciale e salvaguardare il potere d’acquisto della propria moneta la Cina, secondo l’autore, invece di stoccare le divise straniere dovrebbe accumulare oro. «Esso» scrive «rende sicuro il capitale del popolo. L’inflazione, frutto della speculazione, non può erodere il suo potere d’acquisto. L’oro è la pietra angolare indispensabile della libertà economica per la costruzione di una società armoniosa e equa. Aumentando le riserve auree il popolo può resistere a ogni ostacolo, lo yuan rimanere saldo sulle rovine finanziarie internazionali causate dall’indebitamento e dalla cupidigia eccessiva e la civiltà cinese conoscere la sua ora di gloria». E a distanza di sette anni dalla sua pubblicazione non sia può dire che non sia stato ascoltato. La Cina dal 2008 non ha cessato di ingigantire le sue riserve auree classificandosi così al quinto posto dietro Stati Uniti, Italia ma già davanti alla Svizzera.

Come tu lo vuoi: Tachipirinas piace alla sinistra caviale ma è anche zizekiano. E anche post-operaista...

Slavoj Zizek, Srecko Horvat: Cosa vuole l'Europa?, Ombre Corte

Risvolto

"Le società europee devono proteggersi contro la speculazione del capitale finanziario, l'economia reale deve emanciparsi dall'imperativo del profitto, il monetarismo e la politica fiscale autoritaria debbono finire, la crescita deve essere ripensata secondo il criterio dall'interesse sociale, va inventato un nuovo modello di produzione basato su un lavoro dignitoso, sull'espansione dei beni pubblici e sulla protezione dell'ambiente. Questa prospettiva, ovviamente, non è all'ordine del giorno delle discussioni dei leader europei. Spetta ai popoli, ai lavoratori europei, ai movimenti degli "indignati" imprimere il loro marchio al corso della storia, e impedire il saccheggio e la distruzione su larga scala." (Alexis Tsipras).




Arte come ideologia e propaganda: una prospettiva formalistica nel solco della teoria del totalitarismo

Il bello, il buono e il cattivo. Come la politica ha condizionato l'arte negli ultimi cento anni
Approccio inutile. E' come voler scrivere un libro sul fatto che tutti dicono "buongiorno". Il Mao in copertina svela in anticipo le intenzioni dell'autore [SGA].


Demetrio Paparoni: Il bello, il buono e il cattivo. Come la politica ha influenzato l'arte negli ultimi cento anni, Ponte alle Grazie


Risvolto
In questo tour de force, Demetrio Paparoni, fra i più attenti osservatori dell'arte contemporanea, ricostruisce i profondi e spesso gravi condizionamenti che la politica ha esercitato sulle arti visive dell'ultimo secolo. Critica d'arte, analisi sociale, cronaca e storia vi convivono. Leni Riefenstahl è stata realmente una grande artista? In che modo l'arte di Picasso è stata funzionale ai disegni del partito comunista? Perché la CIA era interessata all'affermarsi dell'espressionismo astratto sulla scena mondiale e di New York come nuova capitale dell'arte? Cosa differenzia la politica culturale di Peggy Guggenheim da quella di François Pinault? Come funziona la censura sull'arte oggi in Cina? Questi sono solo alcuni degli interrogativi ai quali l'autore fornisce risposte. 



Gianluigi Colin 176 30-01-2014 corriere della sera 32

"L'arte è sempre politica Anche a sua insaputa..."
Un libro indaga il rapporto tra creatività e potere: "Non esistono opere disimpegnate. Ma vanno giudicate per il talento e la forza che hanno"

Putin - con Stalin e Kim Jong Un - responsabile anche dello sterminio dei Circassi del 1863

IL TERRORE DEI RUSSI
Buttafuoco 168 18-02-2014 la repubblica 47


Se Sochi rievoca il genocidio nascosto del popolo circassoCosì l’impero russo attuò la pulizia etnicadi Paolo Valentino


Chi sono
I circassi (detti anche adighé o adighi) sono uno dei più antichi popoli autoctoni del Caucaso. Oggi oscillano tra i quattro e i cinque milioni, quasi la metà vive in Turchia 
Pulizia etnica
A metà del XIX secolo gli abitanti della Circassia, nel Nordovest del Caucaso al confine con l’impero Ottomano, furono costretti a lasciare la loro terra dai russi vittoriosi in quello che viene definito il primo moderno caso di pulizia etnica 
I numeri 
Tra il 1863 e il 1864 più di 700 mila circassi furono uccisi, 480 mila furono deportati e 80 mila rimasero nella propria terra 

«La guerra fu condotta con severità implacabile e senza pietà. Avanzammo passo dopo passo, ripulendo irrevocabilmente fino all’ultimo uomo ogni pezzo di terra su cui i nostri soldati mettevano piede. I villaggi dei montanari vennero bruciati a centinaia, non appena la neve si scioglieva ma prima che le foglie tornassero sugli alberi. Calpestammo e distruggemmo i loro raccolti con i nostri cavalli. Spesso le atrocità sconfinarono nella barbarie, tra le fiamme delle izba, le urla dei bambini, i lamenti delle donne» (Mikhail Venyukov, ufficiale dello Zar). 
Quando la prossima settimana Vladimir Putin aprirà con sfarzo e solennità le Olimpiadi di Sochi, uno spettro aleggerà sulla più costosa manifestazione sportiva della Storia. La scelta della località sul Mar Nero, nell’immaginario russo la cosa più simile alla Costa Azzurra dentro i confini della Federazione, evoca infatti un genius loci ignorato e volutamente rimosso per un secolo e mezzo. Zarista, sovietica o post-comunista, la narrativa ufficiale del Cremlino non ha mai trovato spazio alcuno per uno dei massacri etnici più terribili ma meno conosciuti dall’opinione pubblica mondiale. 
Il genocidio dei circassi si consumò tra l’ottobre 1863 e l’estate del 1864. Ed ebbe i suoi momenti fatali, toccando le punte più estreme dell’efferatezza e dell’aberrazione, proprio tra le montagne e le valli intorno a Sochi, quelle che vedranno le imprese dei campioni dello sport. I sopravvissuti di una delle più antiche etnie autoctone del bulbo caucasico parlano di 1 milione e mezzo di morti, ma recenti studi storici pongono la barra a un minimo di 700 mila persone, cioè quasi la metà dell’intera popolazione circassa dell’epoca, uccise, morte di stenti o decimate dal tifo e dal morbillo. 
Fu un genocidio deliberato e sistematico. Decisi a chiudere per sempre la partita del Caucaso, la guerra coloniale di conquista della regione che si protraeva da quasi cento anni, i comandanti zaristi scelsero la strada delle deportazioni forzate di massa delle popolazioni locali: gli abkazi, gli ubykh e gli adighi o circassi, com’erano stati ribattezzati secoli prima dai mercanti genovesi. Fu il comandante in capo in persona, il principe Mikhail Nikolaevich, fratello dello Zar Alessandro II, a ordinare la pulizia etnica. 
«Il mito a lungo alimentato, che i comandanti russi diedero ai circassi la scelta di insediarsi a nord del fiume Kuban, è smentito dalle loro stesse testimonianze», spiega Walter Richmond, lo storico dell’Occidental College di Los Angeles che ha scritto il primo lavoro scientifico sul massacro. Come racconta nel passaggio in apertura l’ufficiale Venyukov, la tragedia ebbe un copione bestiale e sanguinario. E continuò anche sulla costa, dove i sopravvissuti furono lasciati a morire di fame e di malattie. Dopo alcuni casi di contagio a bordo delle loro navi, i russi smisero anche di trasportarli via mare in territorio ottomano e lasciarono ai turchi il resto della deportazione. Secondo Richmond, il principe Mikhail mentì anche allo Zar, che gli aveva ordinato un’indagine per mettere a tacere le voci sul quanto stava accadendo: «Rispose che non c’erano né epidemie, ne morti per fame, nascondendo deliberatamente il crimine». 
Né il processo genocida si fermò dopo la mattanza del 1864: «Chi rimase nel Caucaso, forse il 5% della popolazione circassa, fu sottoposto all’assimilazione forzata o perseguitato dai cosacchi, cui fu permesso di insediarsi nella zona. Dopo la rivoluzione bolscevica, il regime sovietico ha fatto di tutto per impedire loro ogni possibilità di sviluppare una cultura unica: a nessuno fu permesso di tornare dai territori dell’ex impero ottomano dove si era diretta la diaspora». 
Oggi la popolazione circassa sparsa nel mondo oscilla tra i 4 e i 5 milioni di persone, di cui 2 milioni vivono in Turchia e neppure 700 mila nella Federazioni Russa, dove agli occhi del potere rimangono invisibili. Quando Vladimir Putin fece il discorso di accettazione della sede olimpica, disse che gli abitanti originari della regione erano greci, come se dopo Giasone e gli argonauti non fosse successo più nulla. E tace il moderno Zar anche di fronte alla richiesta di asilo, che viene da migliaia di circassi in fuga dalla Siria: solo in pochi sono stati accolti dal Cremlino, senza facilitazioni per il transito e assistenza. 
Resta l’Olimpiade, che punterà le luci della ribalta internazionale sugli stessi luoghi dove centinaia di migliaia di innocenti morirono senza ragione: dapprima considerata uno sfregio dalle comunità circasse, la scelta di Sochi viene ora invece vista come l’occasione per far conoscere al mondo il genocidio di un popolo dimenticato.

Un'altra vittima di Stalin che i cani di Kim Jong Un non hanno potuto mangiare

copertina
Ben due recensioni sul Corrierone! [SGA].

Carlo Ghezzi: Francesco Ghezzi, un anarchico nella nebbia. Dalla Milano del teatro Diana al lager in Siberia, Zero in condotta

Risvolto
Francesco Ghezzi è un operaio milanese, un anarchico, fuggito dall'Italia per sottrarsi alla "giustizia" fascista e approdato, dopo lunghe peregrinazioni in vari paesi europei, nell'Unione Sovietica, sicuro di trovarvi condizioni di una vita migliore, e di poter contribuire a quel grande processo di emancipazione sociale che aveva entusiasmato il proletariato di tutti i paesi. Una storia comune, la sua, a quella di altri rivoluzionari che, pur partendo da esperienze diverse, ripararono, col cuore gonfio di speranza, nel "paradiso socialista". 

Si sa che per loro le cose non andarono affatto così, perché, nonostante alcuni innegabili miglioramenti nelle condizioni di vita del miserabile proletariato russo, una pesantissima cappa di oppressione si sarebbe abbattuta sulla nuova società, finendo con l'annullare il significato stesso di quella grandiosa esperienza in una paranoica paura verso qualsiasi forma di dissenso se non, addirittura, di critica. Francesco Ghezzi fu una delle tante vittime di questa mostruosa degenerazione, ma fu una vittima indomita e mai rassegnata, una vittima esemplare. Questo libro ne ripercorre la vicenda umana.



178 30-01-2014 corriere della sera 33

L’anarchico Ghezzi nella morsa tra due tirannie
La tragica vicenda di un rivoluzionario italiano vittima del regime sovietico
Carioti sul Corriere

W la Fca

Una lunga partita di Luciano Gallino Repubblica 30.1.14


LA NUOVA Fiat Chrysler Automobiles avrà la sede sociale in Olanda. Quella fiscale nel Regno Unito, ma il gruppo continuerà a pagare le tasse nei paesi in cui gli utili saranno prodotti. La società sarà quotata alla borsa di New York, dove i titoli trattati sono migliaia e il loro valore si misura in trilioni di dollari, e in quella di Milano, dove i titoli e il loro valore totale sono grosso modo otto o dieci volte di meno. Ricerca, sviluppo, progettazione e adattamento evolutivo dei vari modelli saranno concentrati in Usa, poiché essi vanno per forza dove si realizza il grosso della produzione, ma forse un pezzo resterà a Torino per sostenere il cosiddetto polo del lusso. Gli stabilimenti principali sono sparsi tra Usa, Canada e Messico (Chrysler), ovvero tra Brasile, Polonia, Turchia e Italia (Fiat). La rete dei fornitori dei tre principali livelli (sistemi, sottosistemi e componenti minori) sarà distribuita ingran parte del mondo.
Devono veramente amare molto le grandi scacchiere e le partite complicate Sergio Marchionne e John Elkann, per avere aperto quasi contemporaneamente tanti fronti di gioco, ed essere riusciti finora a condurre la partita piuttosto che farsela imporre dall’avversario. Essi sanno bene che dall’altra parte vi sono molti altri attori a progettare ed eseguire le prossime mosse, e alcuni di essi, oltre ad essere abili, non hanno accolto troppo bene l’acquisizione di Chrysler. In Usa, molti investitori e analisti hanno patito la mossa del cavallo consistente nell’acquisire la Chrysler in parte con i soldi del governo americano, e in maggior parte con i soldi della Chrysler e dei fondi dei suoi sindacati. Ma più di questa operazione, che ha costituito senza dubbio un successo strategico da parte del Lingotto sul piano finanziario, essi hanno scarsamente gradito che il rilancio della società americana sia avvenuto soprattutto mediante il rilancio di modelli stagionati e non proprio ecologicamente corretti come la Jeep Grand Cherokee, piuttosto che investire gli utili in nuovi modelli idonei a rinfrescare gli allori di Chrysler. Per tacere dei loro giudizi sulla difficile situazione dell’auto Fiat nel nostro paese, che ha portato molti a parlare di salvataggio del Lingotto da parte della casa di Auburn Hills. Non ci siamo solo noi a chiederci quanti nuovi posti di lavoro si creeranno in Italia grazie all’operazione Chrysler; ci sono anche tanti americani che si chiedono quanti posti saranno creati nel loro paese grazie all’operazioneFiat. Dall’altra parte della scacchiera ci sono ovviamente anche le agenzie di rating. Sono attori che non giocano in proprio, ma sono consiglieri assai ascoltati dagli investitori, in specie fondi di investimento e fondi pensione; proprietari, va ricordato, di metà dell’economia mondiale. Li ha resi potenti e influenti la finanziarizzazione delle imprese industriali, a partire proprio dal settore auto. Quando qualcuno, anni fa, definì le corporation del settore «istituti finanziari che producono anche auto», aveva sott’occhio la situazione della General Motors, la cui divisione finanziaria che contava forse trentamila persone produceva il 40 percento degli utili della società, che aveva allora 300.000 dipendenti.
Da allora, il peso della finanza sulle corporation industriali è ancora cresciuto, donde segue che produrre buone automobili in giro per il mondo non basta per assicurare un successo duraturo al costruttore. Il fatto che Moody’s abbia messo sotto osservazione Fiat per una possibile riduzione del rating, che già non è alto (Ba3), a causa della sua situazione finanziaria, può essere soltanto una mossa intermedia in una partita particolarmente complessa. Ma Marchionne ed Elkann sono in due, mentre dall’altra gli attori che si assiepano attorno alla scacchiera suggerendosi a vicenda le mosse sono dozzine.
Manca, ai lati della scacchiera, il governo italiano, che non solo non ha la minima idea o intenzione di entrare in partita, ma non si è nemmeno degnato di rivolgere alla ferrata coppia del Lingotto la madre di tutte le domande: mentre auguriamo al lieto evento le migliori fortune, in concreto, cifra su cifra, documento su documento, qui e ora e non nel decennio prossimo, che cosa ne viene al nostro paese, ai lavoratori italiani, al pubblico bilancio, dalla nascita della Fiat Chrysler Automobiles?

La mostra sul futurismo italiano a New York

Italian Futurism, 1909-1944: Reconstructing the Universe
a cura di Vivien Green, Guggenheim 

Eventi Al Guggenheim un’esposizione senza precedenti permetterà di valutare appieno i debiti creativi dell’America rispetto a Marinetti, Boccioni & C. E a noi ha suggerito un gioco...
Pop art, tutti figliocci del Futurismo
New York celebra il movimento che la mitizzò (da lontano)
Vincenzo Trione La Lettura