domenica 13 aprile 2014

Ancora sulla "democrazia pop" di Graeber


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Storia recente. «Progetto democrazia. Un’idea, una crisi, un movimento». Il libro di David Graeber, uscito per il Saggiatore, lancia un indizio per una nuova forma di governo possibile e guarda a Occupy
Massimiliano Guareschi, il Manifesto 12.4.2014
David Grae­ber è l’autore di uno dei testi chiave del pen­siero cri­tico di que­sti ultimi anni. Il suo Debito, uscito nel 2011, nel pieno della crisi sca­te­nata dall’ondata di insol­venze dei mutui sub­prime e rapi­da­mente este­sasi alle ban­che e ai debiti sovrani, ha assunto il signi­fi­cato non solo di un’indagine antro­po­lo­gica quanto di una dia­gnosi sui mec­ca­ni­smi estrat­tivi di un pre­sente domi­nato dal capi­tale finan­zia­rio e dalle sue dina­mi­che di valo­riz­za­zione. Con­tem­po­ra­nea­mente, Grae­ber, nelle vesti di mili­tante, è emerso come figura di spicco di quell’Occupy! che da Wall Street si è dif­fuso per con­ta­gio, segnando il ritorno in grande stile della poli­tica radi­cal negli Stati uniti. Ed è pro­prio dalle vicende di quel movi­mento che parte il libro di Grae­ber dal titolo Pro­getto demo­cra­zia. Un’idea, una crisi, un movi­mento (il Sag­gia­tore, pp. 282, euro 19,50).

I fatti, i pro­blemi e le forme: così potreb­bero essere sin­te­tiz­zate le tre parti che scan­di­scono il volume. Si ini­zia con una nar­ra­zione incal­zante, dall’interno, dei pas­saggi che, sulla spinta della potenza desti­tuente espressa dalle piazze nor­da­fri­cane, hanno con­dotto all’aggregazione nomade inse­dia­tasi poi a Zuc­cotti Park. Tutto ini­zia con l’appello dira­mato da «Adbu­sters», «Occupy Wall Street!», indi­riz­zato a non si sa chi, desti­nato a rive­larsi una pro­fe­zia che si autoav­vera. I ten­ta­tivi di ege­mo­niz­za­zione delle forze poli­ti­che orga­niz­zate si rive­lano inef­fi­caci a fronte di una com­po­si­zione impre­vi­sta, fatta di bio­gra­fie ete­ro­ge­nee segnate dalla crisi, che esprime un’esigenza di oriz­zon­ta­lità che non può essere sod­di­sfatta dal ricorso alla rituale sequenza comi­zio e cor­teo o alla reda­zione di una lista di pro­po­ste da affi­dare ai buoni uffici della sini­stra democratica.
Costru­zione del consenso

Sulla scia di piazza Tah­rir e dell’esperienza spa­gnola degli indi­gna­dos si impone la scelta dell’occupazione a oltranza, con la crea­zione di uno spa­zio pub­blico non meta­fo­rico ma mate­riale, dove rac­con­tarsi, discu­tere, con­fron­tarsi e, soprat­tutto, offrire visi­bi­lità a quel 99 per­cento che, in base a una felice sem­pli­fi­ca­zione fat­tasi slo­gan, denun­cia l’oppressione poli­tica ed eco­no­mica dell’uno per­cento. Ricor­rendo a un’incisiva serie di domande reto­ri­che, Grae­ber foca­lizza l’attenzione sulle prin­ci­pali pro­ble­ma­ti­che poste dalle vicende del movi­mento: come è riu­scito ad affer­marsi e a cat­tu­rare l’attenzione dei media, quali sono state le rela­zioni con le forze poli­ti­che orga­niz­zate, in che modo è riu­scito a «bucare» il muro dei media e a coin­vol­gere indi­vi­dui del tutto estra­nei agli ambienti mili­tanti, come si è rap­por­tato alle forze poli­ti­che orga­niz­zate, come è riu­scito a ripor­tare al cen­tro del dibat­tito pub­blico sta­tu­ni­tense il tema delle ine­gua­glianze economiche.

Nella nar­ra­zione di Grae­ber emerge come l’assemblea nell’esperienza di Occupy! si pre­senti non solo come istanza deci­sio­nale ma come vero e pro­prio mezzo senza fine. L’esigenza di oriz­zon­ta­lità e la cri­tica nei con­fronti delle tra­di­zio­nali forme della rap­pre­sen­tanza poli­tica trova il pro­prio cor­re­lato nell’attivazione di un com­plesso appa­rato isti­tu­zio­nale, dalle plu­rime arti­co­la­zioni, volto a smar­carsi dal prin­ci­pio della deci­sione a mag­gio­ranza per muo­versi nella pro­spet­tiva della costru­zione del con­senso. Si tratta di quelle riu­nioni dall’aspetto biz­zarro, nei con­fronti delle quali non sono man­cate grevi iro­nie, in cui il ricorso alla parola, rigi­da­mente con­tin­gen­tato al fine di offrire a tutti la pos­si­bi­lità di inter­ve­nire, si accom­pa­gna all’utilizzo di una spe­ci­fica gamma di segni e gesti con­ven­zio­nali non­ché di moda­lità ope­ra­tive volte a orien­tare il dibat­tito in dire­zione del supe­ra­mento delle con­trap­po­si­zioni nella pro­spet­tiva di una sin­tesi il più pos­si­bile inclu­siva. Grae­ber si impe­gna a descri­vere in det­ta­glio il fun­zio­na­mento di tali tec­ni­che, illu­strando il ruolo svolto da figure come il faci­li­ta­tore, il por­ta­voce, l’addetto alla misu­ra­zione degli umori o da isti­tuti quali il blocco. Si evi­den­zia, inol­tre, come tali moda­lità di orga­niz­za­zione assem­bleare siano state mutuate dall’universo reli­gioso dei quac­cheri, che a lungo ave­vano custo­dito il segreto riguardo alle tec­ni­che adot­tate per giun­gere a solu­zioni una­ni­me­mente con­di­vise dal gruppo. Se per i quac­cheri l’attualizzazione del con­senso costi­tui­sce un’esperienza reli­giosa che mate­ria­lizza la pre­senza di Cri­sto nella comu­nità, la sua ver­sione seco­la­riz­zata, nella pro­spet­tiva di Grae­ber, si farebbe por­ta­trice di una pro­messa di rin­no­va­mento dei qua­dri della demo­cra­zia diretta.

Come è stato notato da più parti, men­tre la fase che da Seat­tle si estende a Genova si era incen­trata soprat­tutto sul tema dell’eguaglianza e su una dimen­sione nomade, attra­verso il con­ver­gere alter­mon­dia­li­sta nei luo­ghi di cele­bra­zione dei riti mon­dani del potere eco­no­mico e finan­zia­rio, il ciclo di lotte più recente si è carat­te­riz­zato oltre che per una ten­denza al radi­ca­mento locale anche per la cen­tra­lità del richiamo alla demo­cra­zia. Nei paesi del Nord-Africa tale richie­sta assu­meva il senso di una ribel­lione nei con­fronti di regimi dispo­tici. Ma la riven­di­ca­zione è avve­nuta anche in paesi che i poli­to­logi sono soliti chia­mare «demo­cra­zie mature».

L’invito ad andar­sene allora era rivolto non al tiranno di turno ma a élite scre­di­tate dalla gestione della crisi in nome dell’austerità e del sal­va­tag­gio, con ogni mezzo neces­sa­rio, di ban­che ed altri sog­getti finan­ziari. E tutto ciò non in nome di altre forze par­ti­ti­che, da cui atten­dersi una poli­tica diversa, ma a par­tire da una richie­sta di riap­pro­pria­zione della demo­cra­zia con­tro la con­fi­sca di essa che sarebbe stata ope­rata dalla cor­ru­zione, dai poteri tec­no­cra­tici e dagli inte­ressi eco­no­mici domi­nanti. In gene­rale, si può affer­mare che la crisi ha svolto il ruolo di acce­le­ra­tore di un pro­cesso di dele­git­ti­ma­zione delle forme della demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva in atto da qual­che decen­nio, a par­tire dal declino dei par­titi di massa.

In sin­tesi, la defi­ni­zione della demo­cra­zia à la Schum­pe­ter, intesa come sem­plice mec­ca­ni­smo di sele­zione e con­cor­renza fra élite, dai manuali di scienza della poli­tica sem­bra essersi river­sata nel senso comune senza però che il cit­ta­dino medio abbia mutuato il distacco com­pia­ciuto degli scien­ziati poli­tici. Indice di tale disaf­fe­zione non è solo il con­ti­nuo calo dei votanti alle ele­zioni ma anche l’imperversare delle reto­ri­che sulla con­trap­po­si­zione fra poli­tica e società civile o, nel nostro paese, la denun­cia com­pul­siva della «casta».
Tra cyber­cul­tura e carisma

A ciò, si deve aggiun­gere la dif­fi­denza con cui movi­menti si sono rap­por­tati in que­sti anni alla dimen­sione della rap­pre­sen­tanza poli­tica e i ripe­tuti fal­li­menti da essi incon­trati nell’investite le loro istanze, diret­ta­mente o per inter­po­sta per­sona, nel pro­cesso elettorale.

Pro­prio nel momento in cui la riven­di­ca­zione della demo­cra­zia si fa più urgente, anche all’interno di ambiti cul­tu­rali e poli­tici un tempo inclini a pri­vi­le­giare altre parole d’ordine, la demo­cra­zia «reale» attra­versa una crisi di legit­ti­ma­zione sem­pre più forte, a cui le solu­zioni tam­pone del ple­bi­sci­ta­ri­smo, della per­so­na­liz­za­zione o dell’ingegneria elet­to­rale sem­brano offrire una rispo­sta sem­pre più pre­ca­ria. A fronte di un simile sce­na­rio, al movi­mento Cin­que stelle va rico­no­sciuto il merito di avere colto il pro­blema, ossia la scle­rosi dei mec­ca­ni­smi della demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva, impe­gnan­dosi a pro­porre un’alternativa.

Tut­ta­via, il loro ten­ta­tivo di iniet­tare ele­menti di demo­cra­zia diretta nelle isti­tu­zioni rap­pre­sen­ta­tive attra­verso un mix di cyber­cul­tura anni Novanta, lea­de­ri­smo cari­sma­tico e logica proprietario-aziendale ha ben pre­sto, forse imme­dia­ta­mente, mostrato la corda, offrendo una con­ferma a quelle cri­ti­che che, fin dai tempi di La costi­tu­zione degli ate­niesi dello Pseudo Seno­fonte, indi­vi­duano nella demo­cra­zia diretta l’anticamera del dispo­ti­smo e il con­te­sto ideale per la mani­po­la­zione dei demagoghi.

A fronte di un simile sce­na­rio ci si potrebbe limi­tare a invo­care in ter­mini quasi meta­fi­sici l’incompatibilità della rap­pre­sen­tanza con lo Zeit­geist del pre­sente, dando per scon­tata impli­ci­ta­mente la sua per­fetta ade­renza ai con­te­sti di un pas­sato più o meno recente e rima­nendo sul vago quando si tratta di indi­care i pos­si­bili dispo­si­tivi isti­tu­zio­nali verso cui indi­riz­zarsi. Non è que­sta la strada scelta da Greae­ber che, nella parte cen­trale del suo libro, si impe­gna a indi­vi­duare in ter­mini posi­tivi i con­te­nuti isti­tu­zio­nali con cui riem­pire la richie­sta di demo­cra­zia che i movi­menti di que­sti ultimi anni hanno agi­tato con forza.

Punto di par­tenza è la clas­sica con­trap­po­si­zione fra demo­cra­zia degli anti­chi e dei moderni di cui Grae­ber pro­pone una rivi­si­ta­zione alla luce dell’esperienza ame­ri­cana. Nel pro­getto repub­bli­cano e fede­rale dei Foun­ding fathers è indi­vi­duato il ten­ta­tivo di sta­bi­lire un regime misto fun­zio­nale all’affermazione di un’aristocrazia elet­tiva in grado di argi­nare le decli­na­zioni alter­na­tive del con­cetto di demo­cra­zia dif­fuse a livello popo­lare e ali­men­tate dal rife­ri­mento a pra­ti­che di deli­be­ra­zione col­let­tiva pro­ve­nienti da ambiti assai diversi che vanno dalle navi dei pirati alle tribù dei nativi. Lo sguardo poi si allarga alle forme di ela­bo­ra­zione del con­senso par­te­ci­pato evi­den­ziate dalle ricer­che etno­gra­fi­che in varie parti del globo, da Bali al Madagascar.

Nella morsa della finanza

La posta in gioco, in pro­po­sito, risiede non solo nel rico­no­sci­mento delle radici mol­te­plici dell’idea di demo­cra­zia, con­tro l’idea secondo la quale si trat­te­rebbe di un pro­dotto interno solo alla sto­ria occi­den­tale, quanto nella sua dis­so­cia­zione dal prin­ci­pio del voto a mag­gio­ranza a cui la incar­dina pro­prio la tra­di­zione che in Atene indi­vi­dua la pro­pria ori­gine. E pro­prio qui sta la chiave, a parere di Grae­ber, per rilan­ciare una scom­messa sulla demo­cra­zia diretta. In tal senso, le pra­ti­che che hanno inner­vato l’esperienza di Occupy!, così come quelle di altri movi­menti degli ultimi anni, assu­mono il senso sia di indi­zio circa la dif­fu­sione di una sen­si­bi­lità oriz­zon­ta­li­sta sia di anti­ci­pa­zione circa le moda­lità per offrire a essa una tra­du­zione politica.

David Grae­ber è un antro­po­logo, e un antro­po­logo anar­chico. Per valu­tare il suo discorso è bene tenerne sem­pre conto, magari facendo rife­ri­mento a un suo pre­ce­dente volume, dal titolo appunto di Fram­menti di antro­po­lo­gia anar­chica (Eleu­thera). Di con­se­guenza, non stu­pi­sce la cen­tra­lità stra­te­gica che Grae­ber attri­bui­sce a tra­sfor­ma­zioni lente di lungo periodo, antro­po­lo­gi­che appunto, che assu­mono una tem­po­ra­lità che eccede quella della dimen­sione più imme­dia­ta­mente legata alla con­giun­tura poli­tica. Detto ciò, si pos­sono nutrire per­ples­sità circa l’estendibilità, nel tempo e nello spa­zio, al di là di con­te­sti locali o non segnati dall’entusiasmo del momento «insur­re­zio­nale», delle forme di demo­cra­zia diretta non basata sul voto a mag­gio­ranza. Se da una parte si sfugge alla sem­pli­fi­ca­zione di risol­vere la que­stione della par­te­ci­pa­zione oriz­zon­tale attra­verso il deter­mi­ni­smo tec­no­lo­gico, come avviene, a livelli diversi di inten­sità più o meno ele­vati, nelle varie teo­rie sulla web­de­mo­cracy, dall’altra l’accento posto sulla con­di­vi­sione deci­sio­nale e sui lun­ghi pro­cessi di pro­du­zione par­te­ci­pata del con­senso sem­bra riman­dare a un panas­sem­blea­ri­smo sui cui effetti poten­zial­mente oppri­menti non manca di spen­dere qual­che parola lo stesso Grae­ber. Inol­tre, non si deve dimen­ti­care come la crisi che inve­ste le forme «reali» della demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva rimandi a una più gene­rale crisi della poli­tica e delle sue capa­cità di presa e dire­zione su una geo­gra­fia mul­ti­sca­lare e su regimi par­ziali ad ele­vato grado di auto­no­mia, in pri­mis quello dell’economia e della finanza. Si tratta di un’impasse con cui in que­sti anni hanno dovuto fare i conti anche i movi­menti. Per supe­rarla, l’esercizio locale di forme di demo­cra­zia radi­cale e la loro messa in rete costi­tui­sce senza dub­bio un pas­sag­gio fon­da­men­tale ma non sufficiente.

Per chi non ha la pazienza di affi­darsi ai tempi lun­ghi del cam­bia­mento antro­po­lo­gico risulta neces­sa­rio muo­versi su più piani, spa­ziali e siste­mici, desti­tuenti e costi­tuenti, rispetto ai quali un’unica ricetta non può bastare.

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