giovedì 17 aprile 2014

Ancora sulle responsabilità della politica coloniale italiana nella Prima guerra mondiale: Marina Montesano

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Il cammino fatale della révanche
Storia. «La scintilla. Da Tripoli a Sarajevo: come l’Italia provocò la prima guerra mondiale», il libro di Franco Cardini e Sergio Valzania edito da Mondadori. Come il desiderio di rivalsa e Giolitti in Libia scatenarono l'inferno

 Marina Montesano, il Manifesto 17.4.2014 


Ricorre quest’anno il secolo che ci separa dall’inizio della prima guerra mon­diale; ricorre e cer­ta­mente non si cele­bra certo soprat­tutto per i milioni di vit­time, ma anche per­ché il 1914 è «l’anno che segnò l’avvio del sui­ci­dio d’Europa e l’inizio del tra­monto dell’Occidente», come scri­vono Franco Car­dini e Ser­gio Val­za­nia all’inizio del loro La scin­tilla. Da Tri­poli a Sara­jevo: come l’Italia pro­vocò la prima guerra mon­diale (Mon­da­dori, pp. 208, euro 19); un libro che sin dal titolo, e soprat­tutto dal sot­to­ti­tolo, induce ad assu­mere una pro­spet­tiva inso­lita, almeno per il let­tore italiano. 

La scin­tilla, però, non è un libro che sposa la pro­spet­tiva di Hob­sbawm del Nove­cento come «secolo breve»; per­ché, ci dicono gli autori, un discorso sulla prima guerra mon­diale deve comin­ciare almeno con gli anni Set­tanta dell’Ottocento, quando s’innescò, dopo la scon­fitta della Fran­cia con­tro la Prus­sia ormai dive­nuta Ger­ma­nia, il cam­mino fatale della révan­che: quello per cui la Fran­cia, soste­nuta dall’Inghilterra desi­de­rosa di vin­cere la sua gara con la Ger­ma­nia sui mari e appog­giata dalla Rus­sia, dispo­sta a pagare qua­lun­que cifra pur di arri­vare al Medi­ter­ra­neo attra­verso i Dar­da­nelli e i Bal­cani, accettò di fare l’impossibile pur­ché alla Ger­ma­nia fosse negata quella supre­ma­zia euro­pea che la sua potenza scien­ti­fica, tec­no­lo­gica, indu­striale e finan­zia­ria sem­brava ormai garan­tirle; e che del resto la Fran­cia stessa aveva avuto nel mondo moderno due volte — col Re Sole e con Napo­leone -, e che l’Inghiltera dete­neva ormai inin­ter­rot­ta­mente dal Cinque-Seicento almeno sugli oceani. 

Da quel cam­mino di rivalsa sono discesi i nostri mali: con la prima e la seconda guerra mon­diale, che sono poi un con­flitto unico, e con il Finis Euro­pae dato dall’ascesa, a quel punto ine­vi­ta­bile, degli Stati Uniti d’America e il pas­sag­gio a essi della lea­der­ship pla­ne­ta­ria. Si tratta evi­den­te­mente di pro­cessi che arri­vano fino ai nostri giorni o quasi, ché solo negli ultimi due decenni gli equi­li­bri mon­diali tor­nano a esser scossi da nuove potenze e da nuove emergenze. 

In tutto que­sto, cosa c’entra l’Italia? Nel 1877 la Rus­sia aveva dichia­rato guerra alla Tur­chia: lo zar non rite­neva tol­le­ra­bile oltre lo stato di sog­ge­zione e di abie­zione in cui i cri­stiani orto­dossi sog­getti al sul­tano, spe­cie nella peni­sola bal­ca­nica, veni­vano man­te­nuti; die­tro la que­stione reli­giosa, come si è detto, pesa­vano però ragioni geo­stra­te­gi­che. L’esercito russo, giunto alle porte di Istan­bul, fu arre­stato dalla pace detta «di Santo Ste­fano» (3 marzo 1878). Ma evi­den­te­mente l’impero turco si avviava ormai allo smem­bra­mento: e le pre­ro­ga­tive che esso dovette con­ce­dere in quell’occasione allo zar annien­ta­rono defi­ni­ti­va­mente il suo pre­sti­gio e la sua indi­pen­denza. A quel punto, però, l’Europa occi­den­tale si pre­oc­cupò di nuovo: soprat­tutto l’Inghilterra, che temeva un’egemonia russa sulla Tur­chia (che avrebbe signi­fi­cato le navi russe nel Medi­ter­ra­neo e l’utilizzazione intensa da parte dei russi del canale di Suez, con una con­creta minac­cia per la talas­so­cra­zia bri­tan­nica), e l’Austria, inquieta per l’equilibrio nei Balcani. 

Nel frat­tempo, gli ele­menti non tur­chi sog­getti all’impero, dalla Gre­cia fino ai Bal­cani, scal­pi­ta­vano. L’impero era evi­den­te­mente a rischio di disgre­ga­mento; ma quel disgre­ga­mento avrebbe potuto con­durre anche a porre fine allo stato, se non di pace, quanto meno di non con­flit­tua­lità armata che le potenze euro­pee ave­vano man­te­nuto nei decenni pre­ce­denti. In tal senso l’aggressione ita­liana alla Libia, ossia a una peri­fe­ria dell’impero otto­mano, può ben dirsi «la scin­tilla»: in un con­te­sto poten­zial­mente esplo­sivo, fu la causa sca­te­nante di quanto seguì. 

Nelle scelte ita­liane contò soprat­tutto la volontà di Gio­litti di con­ten­tare le oppo­si­zioni interne di destra. Una vit­to­ria mili­tare avrebbe accre­sciuto il pre­sti­gio e le pos­si­bi­lità eco­no­mi­che del paese, e dun­que andava cer­cata a tutti i costi, rifiu­tando le pro­po­ste di Costan­ti­no­poli per cer­care un accordo simile a quelli otte­nuti con l’Inghilterra per l’Egitto e con la Fran­cia per l’Algeria: entrambi pro­tet­to­rati euro­pei, pur restando sotto l’autorità nomi­nale ottomana. 

L’Italia gio­lit­tiana andò dun­que in guerra. Pen­sando, come in molte altre occa­sioni, di risol­vere rap­pi­da­mente il con­flitto, e tro­van­dosi invece dinanzi a una resi­stenza acca­nita e corag­giosa. Fino al tri­ste epi­logo con la cat­tura dell’ormai anziano Omar al-Mukthat, negli anni il prin­ci­pale lea­der della resi­stenza libica all’occupazione: «Il 16 set­tem­bre 1931, per ordine di Bado­glio e Gra­ziani, in disac­cordo su molte cose ma non sugli atti cri­mi­nali, viene impic­cato in tutta fretta un uomo di oltre settant’anni, per di più ferito, col­pe­vole solo di aver com­bat­tuto in difesa della pro­pria terra e dei pro­pri com­pa­trioti. (…) Dallo sbarco a Tri­poli del 4 otto­bre 1911 sono pas­sati venti anni, tre mesi e venti giorni». 

In quei due decenni, la resi­stenza era stata orga­niz­zata dai pochi uffi­ciali tur­chi pre­senti nel paese, ch’erano riu­sciti a por­tare dalla pro­pria parte e a far sol­le­vare le popo­la­zioni arabe con­tro gli aggres­sori, nono­stante le spe­ranze degli ita­liani fos­sero di segno con­tra­rio. Car­dini e Val­za­nia ana­liz­zano nel det­ta­glio la man­canza di stra­te­gia ita­liana e il modo pres­sa­po­chi­sta, non­ché spesso estre­ma­mente bar­baro, con il quale furono con­dotte le ope­ra­zioni mili­tari. Tut­ta­via, sul piano inter­na­zio­nale, seb­bene la guerra non andasse liscia come Gio­litti aveva spe­rato, il potere cen­trale otto­mano aveva dato pes­sima prova di sé, soprat­tutto quando la minac­cia ita­liana, a par­tire dalla pri­ma­vera del 1912, aprì un fronte anti­ot­to­mano nell’Egeo e con­tro tutte le coste dell’impero, come il 7 marzo venne dichia­rato dall’Italia alle altre nazioni d’Europa. 

Oltre che gli Otto­mani, però, quell’azione pre­oc­cu­pava non poco gli euro­pei, a par­tire dalla Ger­ma­nia, alleata sia dell’Italia sia dei tur­chi; ma pre­oc­cu­pava anche gli inglesi, che sui mari non pote­vano tol­le­rare con­cor­renza e che teme­vano un’occupazione delle isole. È in que­sto nuovo stato di fibril­la­zione gene­rale che va col­lo­cato lo stato di agi­ta­zione delle regioni bal­ca­ni­che e gre­che, pre­oc­cu­pate di vedersi imporre un nuovo ordine dalle grandi potenze, una volta che l’impero otto­mano ormai al tra­collo fosse defi­ni­ti­va­mente esploso. Quello che seguì è noto a tutti; ma a cent’anni da que­gli eventi, in un’epoca nella quale nuo­va­mente l’area com­presa tra i Bal­cani e il Mar Nero è tor­nata al cen­tro dell’attenzione e delle stra­te­gie inter­na­zio­nali, La scin­tilla diviene un libro di strin­gente attualità.

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