mercoledì 23 aprile 2014

Pubblicati i Diari di George Kennan



George Kennan: The Kennan Diaries, a cura di Frank Costignola , W. W. Norton & Company, 2014

Risvolto

A landmark collection, spanning ninety years of U.S. history, of the never-before-published diaries of George F. Kennan, America’s most famous diplomat.
On a hot July afternoon in 1953, George F. Kennan descended the steps of the State Department building as a newly retired man. His career had been tumultuous: early postings in eastern Europe followed by Berlin in 1940–41 and Moscow in the last year of World War II. In 1946, the forty-two-year-old Kennan authored the “Long Telegram,” a 5,500-word indictment of the Kremlin that became mandatory reading in Washington. A year later, in an article in Foreign Affairs, he outlined “containment,” America’s guiding strategy in the Cold War. Yet what should have been the pinnacle of his career—an ambassadorship in Moscow in 1952—was sabotaged by Kennan himself, deeply frustrated at his failure to ease the Cold War that he had helped launch. Yet, if it wasn’t the pinnacle, neither was it the capstone; over the next fifty years, Kennan would become the most respected foreign policy thinker of the twentieth century, giving influential lectures, advising presidents, and authoring twenty books, winning two Pulitzer prizes and two National Book awards in the process.
Through it all, Kennan kept a diary. Spanning a staggering eighty-eight years and totaling over 8,000 pages, his journals brim with keen political and moral insights, philosophical ruminations, poetry, and vivid descriptions. In these pages, we see Kennan rambling through 1920s Europe as a college student, despairing for capitalism in the midst of the Depression, agonizing over the dilemmas of sex and marriage, becoming enchanted and then horrified by Soviet Russia, and developing into America’s foremost Soviet analyst. But it is the second half of this near-century-long record—the blossoming of Kennan the gifted author, wise counselor, and biting critic of the Vietnam and Iraq wars—that showcases this remarkable man at the height of his singular analytic and expressive powers, before giving way, heartbreakingly, to some of his most human moments, as his energy, memory, and finally his ability to write fade away.
Masterfully selected and annotated by historian Frank Costigliola, the result is a landmark work of profound intellectual and emotional power. These diaries tell the complete narrative of Kennan’s life in his own intimate and unflinching words and, through him, the arc of world events in the twentieth century.



Dalla Guerra fredda all’Iraq Il secolo lungo di Kennan

Pubblicati i Diari di uno padri della teoria americana del contenimento dell’Urss. Critico della potenza globale Usa
Umberto Gentiloni La Stampa 22 aprile 2014


«Mentre lascio l’Europa in questa fine estate ho un unico messaggio per me stesso: scrivi, bastardo, scrivi. Scrivi disperatamente, freneticamente, sotto pressione fino a quanto Dio ti continua a dare il tempo di farlo. Scrivi fino a quando i tuoi occhi non si chiudono, fino a quando non hai i crampi o cadi dalla sedia per stanchezza. Solo agitando la tua penna puoi sconfiggere la pigrizia […], mai pensare al riposo, alla salute, al relax. Queste cose non fanno per te». Un’esortazione prescrittiva alla data del 5 settembre 1951 nel Diario di George F. Kennan, un invito a lasciare tracce per futuri lettori. Ne terrà conto per più di ottomila pagine di annotazioni personali in quasi novant’anni del suo viaggio di oltre un secolo (1904-2005). 
Il volume pubblicato sotto l’attenta cura di Frank Costignola (The Kennan Diaries, W. W. Norton & Company, 2014) è un’ampia selezione delle giornate di uno dei più influenti protagonisti della Guerra fredda; un architetto del mondo bipolare di difficile catalogazione: diplomatico e ambasciatore, consigliere di presidenti e segretari di Stato, storico e studioso di relazioni internazionali, docente e autore di successo con oltre venti volumi (due Pulitzer e due National Book Awards). Nelle sue note Kennan appare in una duplice veste: la parabola di una straordinaria carriera e le inquietudini di un interprete incerto alla perenne ricerca di qualcosa che non riesce a raggiungere. La contraddizione è la cifra della personalità dell’autore tracciata qualche anno fa dal suo biografo John Lewis Gaddis (An American Life, Penguin, 2011).
Profondo conoscitore della realtà sovietica e delle dinamiche dell’Europa centro-orientale, Kennan - da capo della missione diplomatica a Mosca - lega il suo prestigio al lungo telegramma del 1946. Oltre cinquemila parole che delineano il profilo dell’imminente sfida al comunismo approfondito l’anno successivo in un celebre articolo per Foreign Affairs siglato con lo pseudonimo X: «L’elemento principale della politica degli Stati Uniti nei confronti dell’Unione Sovietica deve essere un lungo, paziente ma fermo e vigile contenimento delle tendenze espansioniste russe». Contenere per limitare, regolare per controllare: convinzioni che influenzano le scelte del presidente Truman agli albori del lungo dopoguerra. Dopo la dottrina del contenimento e il varo del piano Marshall si consuma una lenta e progressiva separazione di Kennan dalle leve del comando. Prevalgono le frustrazioni di chi, solo pochi anni dopo - a fine 1949 - si sente abbandonato: «Nessuno dei diplomatici al Dipartimento di Stato condivide i miei concetti, i miei indirizzi di politica estera».
Uno scontro perenne tra aspettative e realtà che fa apparire il Diario come uno specchio distorcente, una sorta di angolo dove deporre insuccessi e presunte battute d’arresto. «Mi sento la vittima di una grande solitudine», o ancora, con rassegnazione, «Per me questo Paese non ha più interesse. Estremamente noioso, non ha consapevolezza di sé ed è destinato a un triste declino». Parole che stridono con il tracciato di chi ha contribuito, anche nei dissensi, a definire perimetri e compatibilità del secolo americano. Dal 1953 si dedicherà all’insegnamento e all’attività di ricerca e scrittura legandosi all’Institute for Advanced Studies dell’Università di Princeton. La sua voce sommessa e austera non risparmia tornanti decisivi: è contro la guerra in Corea, pensa che il Vietnam sia un grave errore, un punto di non ritorno; mette in guardia dai rischi della corsa agli armamenti, cerca a più riprese di tessere un dialogo con gli avversari di un mondo ormai al tramonto. Vorrebbe un’America meno appariscente e protagonista, attenta a non valicare i limiti di un perimetro condiviso, rispettosa di altri interlocutori a partire da Mikhail Gorbaciov. 
Non crede al paradigma della vittoria post ’89, né concede nulla a possibili scenari inediti: sull’orizzonte della guerra in Iraq consuma un ultimo strappo, si sente un testimone inascoltato. Insiste sui pericoli di una modernità incontrollabile - «Non porterà nulla di buono» -, teme il progresso tecnologico e prende le distanze dalle spinte di una società multirazziale che gli appare ostile; ha persino parole di comprensione per il Sudafrica dell’apartheid. L’Italia non rientra tra le priorità delle sue pagine: elogi alle isole del golfo di Napoli dove raggiunge la moglie in vacanza, critiche all’ingresso affrettato nella Nato (nel 1949) come cattivo esempio di allargamento dell’alleanza e un giudizio senza appello in un viaggio da Ginevra a Firenze nel marzo 1984: «Sono entrato senza entusiasmo in Italia. Tra i grandi Paesi europei rimane per me, nonostante le bellezze naturali e storiche, il meno piacevole. In nessun altro la vita dei contemporanei mi appare così poco interessante e stimolante».

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