mercoledì 23 aprile 2014
Remo Bodei legge "Due" di Roberto Esposito
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Teologia politica
«Parousia» senza apocalisse
Si può smontare
il meccanismo teologico di sudditanza all'Uno su cui si fondano i
rapporti di potere? La risposta nel nuovo saggio di Roberto Esposito
di Remo Bodei Il Sole24ore domenica 20.4.14
Si
tratta di un libro teoricamente denso, caratterizzato da una fitta
tessitura, con tanti nodi come nei tappeti pregiati, e in grado di
spaziare dalla filosofia alla politica e dalla teologia al diritto
romano. Continua, innovando, la riflessione già condotta dall'autore in
Terza persona. Politica della vita e filosofia dell'impersonale (Torino,
Einaudi, 2007).
L'intuizione di fondo che guida Due è che non
riusciamo a smontare la macchina della teologia politica che «funziona
precisamente separando ciò che dichiara di unire e unificando ciò che
divide mediante la sottomissione di una parte al dominio del tutto». È
difficile abbandonare questo schema in quanto siamo completamente
immersi nel suo orizzonte, «non perché la porta d'ingresso sia sbarrata,
ma perché l'abbiamo da tempo immemorabile varcata, prima che essa si
richiudesse alle nostre spalle impedendoci di uscire». La sfida
consiste, dunque, nel procurarsi uno sguardo esterno e nell'abbattere la
prigione mentale, ormai invisibile, in cui la nostra civiltà ci ha
rinchiusi. Un'impresa, in apparenza impossibile, simile a quella del
barone di Münchausen, che pretendeva di sollevarsi da terra tirandosi su
con il codino.
Ma cosa è che ci vincola in maniera così stringente e
come è possibile liberarsene? Essenzialmente, è la radicata concezione
che l'uno assorbe la dualità degli opposti, sottoponendo un elemento
all'altro (ad esempio dividendo l'uomo in anima e corpo e asservendo
questo a quella o considerando la cultura europea come universale perché
ha incluso in sé, separandosene, quella di altri popoli).
Il
dispositivo teologico-politico è riuscito a imporsi soprattutto
attraverso la categoria di persona, in cui confluiscono il diritto
romano e la teologia cristiana. Infatti, è a partire dalla summa divisio
di Gaio tra persona e res che si separano i liberi dagli schiavi,
riducendoli a cosa pur senza escluderli dall'appartenenza a una comune
umanità. Ed è nel dibattito dei primi secoli del cristianesimo sulla
doppia natura di Gesù/Cristo - vero uomo e vero Dio - e nella faticosa
formulazione del dogma trinitario (una sola sostanza in tre persone) che
si cristallizza e domina l'inclusione oppositiva o l'opposizione
includente.
Una parte del libro è consacrata alla ripresa della
nozione paolina di katechon (contenuta nella Seconda lettera ai
Tessalonicesi, 19, 2), la forza frenante che, trattenendo il male,
impedisce però l'avvento della parousia, della seconda venuta di Cristo.
Anche in questo caso, il bene contiene in sé il male che sottomette
fino all'apocalisse. Da cosa deriva questa idea di invitare i fedeli ad
attingere la salvezza evitando di scontrarsi con colui che Paolo
definisce enigmaticamente l'anomos, l'Anticristo? Credo che, al di là
delle dispute teologiche, bisognerebbe storicizzare maggiormente la
funzione del katechon, nel senso di vederla come una risposta tattica di
Paolo alle attese deluse dei cristiani, ai quali Gesù aveva predetto
«verrò presto» (erchomay tachy): la parousia non si è ancora prodotta
perché è frenata e ritardata dalle forze del male.
La proposta di
Esposito (che ricorda per certi versi «la piccola porta attraverso la
quale può entrare il Messia» di Walter Benjamin) è di conseguire una
parousia senza apocalisse, una affermazione senza negazione, di spezzare
cioè la subordinazione forzata del due all'uno e di fare coesistere
quelli che appaiono ora come opposti.
Ciò è per lui possibile
qualora ci si colleghi a una tradizione filosofica che, seppur
minoritaria, attraversa l'Occidente da quasi mille anni, da quando
Averroè scrisse il Grande commento al De anima di Aristotele. In esso il
filosofo arabo sostiene che il pensiero in atto, l'intelletto attivo,
non appartiene alla persona. In altri termini: come per il vedere
qualcosa sono necessari gli occhi e gli oggetti, ma non si vede nulla se
non c'è la luce, allo stesso modo gli uomini hanno in potenza la
facoltà di pensare (l'intelletto passivo) e i concetti (noemata)
pensabili, ma se manca l'intelletto attivo, la luce - quella che gli
scolastici chiameranno lux intellegibilis - non si riesce effettivamente
a pensare. Questa luce non appartiene, tuttavia, all'individuo: simile
alla luce del sole che continua a brillare anche quando il singolo
muore, il pensiero è impersonale. Averroè - difeso da Dante e
contrastato da San Tommaso - sostiene dunque la mortalità dell'anima e
il carattere collettivo del pensiero, in ciò seguito, in diversi modi,
da una serie di pensatori che Esposito opportunamente inquadra:
Pomponazzi, Bruno, Spinoza, Schelling, Nietzsche, Bergson, Deleuze.
Che
Bruno e Spinoza seguano questa linea sembra pacifico. Meno scontato che
lo sia Nietzsche, il quale in Aurora sostiene che il compito del
filosofo consiste nel coltivare le conclusioni dei pensieri che
germogliano spontaneamente dal grembo di quel «saggio ignoto» che è il
corpo: «Spuntano in noi da giorni umidi e nuvolosi, dalla solitudine, da
due parole, conclusioni, come fossero funghi: eccole arrivare un bel
mattino, chissà da dove, e girano attorno lo sguardo per cercarci, con
aria grigia e malcontenta. Guai al pensatore che non è il giardiniere,
ma soltanto il terreno delle sue piante!». Meno ovvio è invece
l'inserimento in questa genealogia dello Schelling delle Lezioni di
Stoccarda, che parla dell'impersonalità dell'anima, o di Bergson, che
mostra, attraverso la similitudine del cinema in cui il movimento è
prodotto da fotogrammi fissi, come funzioni il dispositivo duale
riportato all'unità: prima si fissano le astrazioni e poi si genera
meccanicamente il movimento.
L'audace strada percorsa da Esposito è
interessante e, in parte condivisibile, in quanto il pensiero, al pari
della lingua, non appartiene al soggetto. Eppure, alla De Saussure, un
ruolo bisognerebbe pur attribuirlo alla parole, all'elemento di
specificità e di creatività di un individuo all'interno della langue
impersonale di una comunità. Forse le cose sarebbero più perspicue se
Esposito distinguesse tra pensiero (impersonale) e coscienza (personale)
di chi pensa.
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