martedì 30 settembre 2014

Con calma. Un elogio della lentezza per benestanti


Curiosa e significativa la considerazione per cui " Len­tezza e velo­cità devono così re-integrarsi, ma si tratta di una sfida irta di peri­coli non sem­pre colti dalla rifles­sione di Maf­fei: in primo luogo, per­ché tutti i grandi sistemi ideo­lo­gici del «secolo breve» hanno col­ti­vato que­sto sogno, finendo in guerre e ster­mini di massa". Che vuol dire? al Manifesto se non ci mettono del loro, non sono contenti [SGA].

Lamberto Maffei: L'elogio della lentezza, Mulino

Risvolto
Siamo davvero programmati per la velocità? Viviamo in un mondo veloce, dove il tempo sembra via via contrarsi: continuamente connessi, chiamati a rispondere in tempi brevi a e-mail, tweet e sms, iper-sollecitati dalle immagini, in una frenesia visiva e cognitiva dai tratti patologici. Dimentichiamo così che il cervello è una macchina lenta e, nel tentativo di imitare le macchine veloci, andiamo incontro a frustrazioni e affanni. Queste pagine esplorano i meccanismi cerebrali che guidano le reazioni rapide dell'organismo umano, di origine sia genetica sia culturale, con un invito a scoprire i vantaggi di una civiltà dedita alla riflessività e al pensiero lento.

Il cervello ama le tartarughe 
Saggi. «L'elogio della lentezza», il libro del neuroscienziato Lamberto Maffei, pubblicato dal Mulino, che attacca la bulimia tecnologica per salvare la meditazione e le ragioni (non necessariamente veloci) del pensiero

Francesco Antonelli, il Manifesto 30.9.2014
Delle tante mac­chine che carat­te­riz­zano la con­tem­po­ra­neità, una è in grado di rap­pre­sen­tare meglio delle altre la nostra con­di­zione sociale ed esi­sten­ziale: il tapis rou­lant. Si corre, si fatica, si suda, magari sor­ri­dendo, ma alla fine ci si trova sem­pre allo stesso punto. L’elogio della len­tezza (Il Mulino, pp. 146, euro 12) di Lam­berto Maf­fei, emi­nente neu­ro­scien­ziato e pre­si­dente dell’Accademia dei Lin­cei, affronta in chiave cri­tica e radi­cal­mente uma­ni­sta que­sto para­dosso – uno dei più impor­tanti della moder­nità – inte­grando in una prosa chiara e godi­bile, saperi scien­ti­fici, let­te­rari e socio­lo­gici. La len­tezza vuol dire sia vita buona che col­ti­va­zione del pen­siero razio­nale, due valori del pro­getto e dell’utopia eman­ci­pa­tiva del moderno oggi eclis­sati.

Tanto il poema di Goe­the Faust (1808), nel quale l’omonimo scien­ziato, da anziano, dopo una vita di stu­dio e sacri­fi­cio vende la pro­pria anima a Mefi­sto­fele per avere in cam­bio «tutto e subito» (gio­ventù, sapienza e pia­cere), quanto il Mani­fe­sto del futu­ri­smo (1909), dove, un secolo dopo, leg­giamo che ’la magni­fi­cenza del mondo si è arric­chita di una bel­lezza nuova; la bel­lezza della velo­cità. Un’automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a ser­penti dall’alito esplo­sivo (…) è più bella della vit­to­ria di Samo­tra­cia» riman­dano, il primo inten­zio­nal­mente il secondo molto meno, alla tra­ge­dia della velo­cità – che la si chiami alie­na­zione o sra­di­ca­mento: l’inversione tra i mezzi e i fini, la tiran­nia del godi­mento e della tec­no­lo­gia sulle donne e sugli uomini con­tem­po­ra­nei. Da segno dell’emancipazione dalla mise­ria seco­lare, la velo­cità di una vita iper-tecnologizzata si rivela una gab­bia di ferro: agiamo fre­ne­ti­ca­mente con delle mac­chine che pro­met­tono di ren­derci felici, ritro­van­doci invece ingra­naggi spae­sati di una mac­china più vasta, quella del mondo glo­bale.
Gli usi della tec­no­lo­gia non sono però neu­tri: il potere eco­no­mico e poli­tico, oggi inscritti nelle dina­mi­che di svi­luppo del capi­ta­li­smo finan­zia­rio, li con­di­zio­nano pesan­te­mente. Nel suo libro Lam­berto Maf­fei non uti­lizza argo­men­ta­zioni mora­li­sti­che o nostal­gi­che per cri­ti­care tutto ciò: la sua base di par­tenza sono le acqui­si­zioni delle neu­ro­scienze e il modo in cui ci con­sen­tono di leg­gere il com­pli­cato intrec­cio tra natura e cul­tura. Con una sor­pren­dente quanto illu­mi­nante denun­cia: in un’epoca di vorace e reto­rico scien­ti­smo, la stessa scienza, con i tempi lun­ghi del metodo spe­ri­men­tale e il valore cen­trale del pro­gresso umano attra­verso la cono­scenza, rischia di essere sof­fo­cata dalla mer­ci­fi­ca­zione della tec­no­lo­gia, che passa per l’ansia di sfor­nare sem­pre nuovi pro­dotti per il mer­cato.
Nell’Elo­gio della len­tezza viene innan­zi­tutto mostrato come l’evoluzione della spe­cie umana si leghi allo svi­luppo del cer­vello, un organo carat­te­riz­zato da un’elevata pla­sti­cità: nei suoi limiti bio­lo­gici, il cer­vello umano è in grado di pla­smare se stesso in fun­zione degli sti­moli ambien­tali, ove ambiente è sia la natura sia, e soprat­tutto, società e cul­tura. Par­tendo da ciò, e lon­tani anni luce dalle pro­spet­tive deter­mi­ni­sti­che del XIX secolo, le neu­ro­scienze hanno tro­vato il fon­da­mento della nostra indi­vi­dua­lità: cia­scuno di noi è un sin­golo, risul­tato dell’interazione com­plessa della socia­liz­za­zione e delle nostre «pre­di­spo­si­zioni» gene­ti­che. Ne deriva che siamo let­te­ral­mente pla­smati da ciò che ci cir­conda e da que­sto insieme, a nostra volta, ci distin­guiamo.
In que­sto pro­cesso evo­lu­tivo, alle rispo­ste iper­ve­loci, quelle dei riflessi e dell’azione «istin­tuale», pro­pria anche delle altre spe­cie ani­mali, l’umanità ha gra­dual­mente aggiunto lo svi­luppo del pen­siero e del lin­guag­gio, tra loro stret­ta­mente con­nesse, e aventi prin­ci­pal­mente sede nell’emisfero sini­stro del cer­vello. Alla potenza di que­sta acqui­si­zione evo­lu­tiva, cui si deve la stessa civiltà umana nel senso etico del ter­mine, cor­ri­spon­dono i tempi lun­ghi dei suoi pro­cessi: il ragio­nare, l’argomentare, lo spe­ri­men­tare su cui pog­giano tutti i saperi e le scienze, richie­dono uno svi­luppo che sia nell’individuo che nella società, non può esau­rirsi nell’istante della rispo­sta istin­tuale.
Il mondo con­tem­po­ra­neo, sotto l’azione prin­ci­pale della tec­no­lo­gia mer­ci­fi­cata, incen­tiva com­por­ta­menti e mol­ti­plica sti­moli carat­te­riz­zati dalla cre­scente velo­cità di rispo­sta che inverte il rap­porto tra pen­siero e azione. Data la pla­sti­cità del cer­vello, sem­pli­fi­cando, le nostre menti si ristrut­tu­rano e le parti più evo­lute di essa ten­dono a retro­ce­dere: come recita l’efficace titolo di uno dei capi­toli del libro, alla buli­mia dei con­sumi – che ci richie­dono com­pul­si­vità e poca medi­ta­zione razio­nale – cor­ri­sponde l’anoressia dei valori – cioè l’eclissi del pen­siero razio­nale e della stessa scienza.
Tut­ta­via, non è tanto la pos­si­bi­lità, pur inquie­tante per quanto lon­tana, che ciò avvenga, quanto il fatto che – para­fra­sando Michel Maf­fe­soli – que­sta nuova tri­ba­liz­za­zione del mondo e delle menti si stia veri­fi­cando qui ed ora. Allon­ta­nan­doci da ciò che ci rende più umani: l’elogio della len­tezza è un appello al recu­pero dell’umanesimo, del met­tere al ser­vi­zio della rea­liz­za­zione di una vita buona la cono­scenza e la tec­nica. Nel para­dosso di Zenone, infatti, in una stessa pista la tar­ta­ruga (pen­siero e medi­ta­zione) non potrà mai essere rag­giunta da Achille (desi­de­rio e forza). Len­tezza e velo­cità devono così re-integrarsi, ma si tratta di una sfida irta di peri­coli non sem­pre colti dalla rifles­sione di Maf­fei: in primo luogo, per­ché tutti i grandi sistemi ideo­lo­gici del «secolo breve» hanno col­ti­vato que­sto sogno, finendo in guerre e ster­mini di massa. In secondo luogo, per­ché il valore della len­tezza rimanda ine­vi­ta­bil­mente al suo essere contro-immagine del moderno stesso: il neo-tradizionalismo – anche come effetto per­verso della cul­tura della nuova sini­stra degli anni Ses­santa e Set­tanta – con le sue inse­pa­ra­bili gerar­chie ed auto­ri­ta­ri­smi, è dun­que sem­pre in agguato. Col­ti­vare il valore della len­tezza vuol dire per­ciò pren­dere con­sa­pe­vo­lezza di que­sti rischi e aggan­ciare sal­da­mente que­sto valore ad un razio­na­li­smo scet­tico e non set­ta­rio, in grado di dubi­tare anche di se stesso.

La lentezza fa vivere meglio Ma soltanto se hai tanti soldi
Il francese Carl Honoré elogia i ritmi ritardati, dalla tavola al sesso tantrico e alla medicina omeopatica. Tanto da far desiderare di tornare al futurismo4 dic 2014  Libero TOMMASO LABRANCA
Raramente ho letto un libro così irritante come Elogio della lentezza. Rallentare per vivere meglio di Carl Honoré ( Bur, pp. 366, euro 10). Serviva forse un occhio distaccato, una visione globale. È scattato invece un coinvolgimento personale e a ogni capoverso mormoravo: «Bugiardo. Menzognero. Millantatore».
Honoré ci racconta com’è nata la sua passione per la lentezza. Stava facendo il suo «viaggio adolescenziale attraverso l’Europa». A Roma, in «un torrido pomeriggio estivo del 1985», l’autobus non arriva e lui, invece di imbufalirsi, si stende su una panchina e ascolta «Simon & Garfunkel che cantano quanto sia bello rallentare e far durare il momento». Capisce così che la vera felicità consiste nell’essere lenti.
Più o meno negli stessi giorni del 1985, dopo un anno frustrante passato a spedire curricula, inizio finalmente a collaborare con alcune agenzie di traduzione. Non ci sono cellulari, solo telefoni fissi. Capita che squilli mentre sei in bagno. Parte la segreteria telefonica. Ti precipiti sulla cornetta, richiami, ma: «Troppo tardi, abbiamo assegnato il lavoro a un altro. Alla prossima». Capisco così che il mondo va affrontato da gazzella non benestante e non da bradipo nato bene. Sono 30 anni che vado veloce perché o muovo il fondoschiena oppure su queste pagine leggete la firma di un altro arrivato prima. Sono 30 anni che lavoro per individui che ancora credono di fare gli spiritosi quando, alla domanda «Per quando serve?», rispondono «Praticamente per ieri». Fossero così rapidi quando si tratta di saldare le fatture, lasciate maturare come grappe pregiate...
Cose che Honoré ignora, benché siano diversi i suoi riferimenti all’Italia, visto che ha Carl studiato la nostra lingua e la nostra cultura. Per questo conosce ed esalta quanto fatto in Piemonte, a Bra, Città Slow che «ha bandito le catene dei supermercati e le livide insegne al neon» dal centro storico, dando la precedenza «a piccole attività a conduzione familiare... che vendono carni pregiate e stoffe tessute a mano». Fantastico, se non si dimenticasse una cosa: che da ormai dieci anni il mondo reale, quello fuori dai cartoni di Peppa Pig in cui vive Honoré, trova spesso difficile affrontare l’acquisto persino di carni agli estrogeni e pessimi tessuti made in China.
Le citazioni che Honoré pone a difesa della sua teoria sono comiche. Per esempio, la corsa fa male, meglio attività più rilassate. «Il golfista americano Tiger Woods pratica il Pilates e la meditazione». Provi a correre per prendere tutti i giorni il regionale delle 7.35 insieme a centinaia di altri pendolari e poi vediamo se il milionario Woods ha voglia di meditare. Perché è inconfutabile: il mondo slow è un mondo per ricchi. Il Solone Slow coincide con l’industrialotto che fa video-riprendere gli operai della propria fabbrica per studiarne i movimenti durante il lavoro. Se un pezzo viene passato con il pollice chiuso piuttosto che disteso si risparmiano due decimi di secondo.
Il Solone Slow è quello che, se al semaforo non riparti all’apparire del verde, ti stordisce di insulti e clacsonate. Il Solone Slow è lo stesso che in autostrada quasi ti travolge, filando a 190 km all’ora, per raggungere quel delizioso agriturismo dove il tempo pare sospeso e si può gustare un prosciutto «maturato nel rispetto dei tempi naturali».
Ovviamente Honoré non può che venerare il principe dei Soloni Slow. L’uomo che ha reso la permanenza prolungata a tavola un’abitudine chic e non un vizio degli statali romani. L’uomo che farebbe chiudere i McDonald’s sostituendoli con raffinate larderie e pazienza per chi non per non può permetterselo. Carlo Petrini, il fondatore di Slow Food, presenza mediatica più persistente e noiosa del segnale orario, è ispiratore del capitolo dedicato a «Il cibo: la lentezza a tavola».
Pur non raggiungendo vertici di ilarità come il capitolo sulla medicina lenta o sul sesso tantrico, questo è il cuore del libro. Si legge della ristoratrice genovese che manda via i clienti perché «gli antipasti non sono ancora pronti», del commensale che arriva con 25 minuti di ritardo (ma lui non è un cafone, è Slow Food!) o la descrizione, simile a uno spot pubblicitario allusivo e scadente, in cui un uomo a un altro tavolo «infila quello che sembra un gamberetto nella bocca della donna. Lei lo mangia piano, con aria estasiata, quindi gli posa la mano sulla guancia».
Leggo baggianate simili e mi viene voglia di reincarnarmi in Filippo Tommaso Marinetti, nemico delle grasse e lente pastasciutte italiche. Mi viene voglia di prendere Honoré, legarlo a una sedia e constringerlo a guardarmi mentre divoro i «Quattro Salti In Padella», direttamente dalla busta, ancora semisurgelati, in 15 secondi netti.      

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