giovedì 25 settembre 2014

Il Manifesto plaude alla politica culturale della Cia ma fa le pulci all'Istituto Confucio


Risultati immagini per Istituto confucioIl rischio degli Istituti Confucio 
Lezioni cinesi. Nati per creare consenso nel mondo nei confronti del paese del Dragone, vivono sotto un perenne ricatto: l'offerta culturale non deve toccare «temi sensibili»
Maurizio Scarpari, il Manifesto 25.9.2014 

 L’esigenza di creare un con­senso glo­bale che, a tutt’oggi, si pre­senta debole ha spinto la diri­genza cinese a pro­muo­vere una serie di ini­zia­tive miranti alla crea­zione di un’immagine soft, moderna e ras­si­cu­rante del pro­prio Paese. È un’esigenza che è diven­tata neces­sità, visto il ruolo di primo piano della Cina, seconda potenza eco­no­mica dopo gli Stati Uniti, con la pro­spet­tiva di diven­tare la prima entro pochi anni. Creare un con­senso inter­na­zio­nale ed essere per­ce­piti dalle altre nazioni come un punto di rife­ri­mento e un modello da seguire non è facile, nem­meno per chi è stato per secoli il cen­tro di una grande civiltà, irra­dia­tasi in un’area vasta e popo­losa come l’Asia Orien­tale.
Impor­tanti per le poli­ti­che cinesi del con­senso sono, secondo molti osser­va­tori, gli Isti­tuti Con­fu­cio (IC), sorti un po’ ovun­que nel mondo con lo scopo dichia­rato di pro­muo­vere la lin­gua e la cul­tura cinesi e faci­li­tare gli scambi cul­tu­rali, sul modello del Goe­the Insti­tut, del Bri­tish Coun­cil o dell’Alliance Fra­nçaise. Ne ha par­lato anche il Pre­si­dente Xi Jin­ping in diverse occa­sioni, ad esem­pio quando lo scorso novem­bre si è recato a Qufu in visita uffi­ciale al Tem­pio di Con­fu­cio (v. il mani­fe­sto del 17 gen­naio 2014) o quando, a fine marzo di quest’anno, ha incon­trato a Ber­lino sino­logi e stu­denti dell’IC locale. In entrambe le occa­sioni, ha sot­to­li­neato l’alto valore stra­te­gico degli IC ed enfa­tiz­zato il loro suc­cesso anche in quei paesi nei quali i pre­giu­dizi verso la Cina sono mag­gior­mente radi­cati. È dav­vero così? Non del tutto…
Gli IC sono un’emanazione dello Han­ban, isti­tu­zione no-profit affi­liata al mini­stero dell’educazione e diretta da un con­si­glio costi­tuito da mem­bri d’alto rango del Pcc e di diversi mini­steri e com­mis­sioni mini­ste­riali. Lo Han­ban finan­zia diret­ta­mente gli IC che, a dif­fe­renza dei loro «omo­lo­ghi» euro­pei, non sono indi­pen­denti, ma con­sor­ziati con le uni­ver­sità e gli isti­tuti di istru­zione supe­riore (presso i quali ven­gono aperte strut­ture più snelle, le Classi Con­fu­cio, CC), al cui interno hanno spesso la loro sede isti­tu­zio­nale. Attual­mente, sono 465 gli IC attivi in 123 paesi, e 713 le CC. Gli Stati Uniti ne ospi­tano circa la metà, l’Italia 31 (11 IC e 20 CC).
Nono­stante la loro uti­lità in alcuni ambiti spe­ci­fici – inse­gna­mento della lin­gua cinese, soste­gno eco­no­mico agli stu­denti che si recano nel paese, finan­zia­mento di pic­cole atti­vità cul­tu­rali –, fin dalla loro crea­zione, avve­nuta nel 2004, gli IC sono stati al cen­tro di pole­mi­che, tal­volta aspre, soprat­tutto negli Stati Uniti, a causa della loro natura tutt’altro che auto­noma, degli scopi non sem­pre tra­spa­renti e delle limi­ta­zioni impo­ste su alcuni temi sen­si­bili, come ad esem­pio i diritti umani, il Tibet, il Dalai Lama, Tai­wan. Tal­volta sono stati accu­sati di essere cen­tri di pro­pa­ganda poli­tica, agen­zie di con­trollo dei cinesi all’estero, agen­zie di intel­li­gence. Solo alcune uni­ver­sità, in genere le più pre­sti­giose, hanno potuto con­trat­tare con­di­zioni finan­zia­rie e sistemi di gestione par­ti­co­lari. Attratte dai gene­rosi finan­zia­menti con­cessi, le uni­ver­sità hanno per lo più favo­rito l’insediamento di IC presso le loro strut­ture, poco curanti dei con­di­zio­na­menti, non solo ideo­lo­gici, impo­sti al loro ope­rato, creando così i pre­sup­po­sti per com­por­ta­menti tal­volta troppo accon­di­scen­denti, se non addi­rit­tura di auto­cen­sura, che hanno svi­lito l’offerta cul­tu­rale (Stan­ford ha rice­vuto un finan­zia­mento ini­ziale di quat­tro milioni di dol­lari, a patto però che non ci si occu­passe di Tibet). Pro­prio per sal­va­guar­dare la pro­pria libertà di pen­siero e di azione, alcune impor­tanti uni­ver­sità ame­ri­cane, euro­pee e austra­liane hanno rifiu­tato di aprire IC al loro interno.
Que­sta par­ti­co­lare situa­zione ha ali­men­tato un dibat­tito tra gli acca­de­mici di mezzo mondo, cul­mi­nato in diversi appelli per chiu­dere gli IC, o almeno ad allon­ta­narli dalle uni­ver­sità; tra i più signi­fi­ca­tiv, ivi sono quelli della Cana­dian Asso­cia­tion of Uni­ver­sity Tea­chers (dicem­bre 2013) e dell’American Asso­cia­tion of Uni­ver­sity Pro­fes­sors (giu­gno 2014), che anno­vera oltre qua­ran­ta­set­te­mila soci. Sono posi­zioni non sce­vre da moti­va­zioni di natura ideo­lo­gica. Pronta è stata la rispo­sta dell’agenzia Xin­hua, che ha impu­tato que­ste mani­fe­sta­zioni a igno­ranza e paura nei con­fronti delle cul­ture diverse.
È in que­sto clima che s’inserisce il cosid­detto «inci­dente di Braga»: al con­ve­gno bien­nale della Euro­pean Asso­cia­tion for Chi­nese Stu­dies, tenu­tasi a Braga e Coim­bra dal 23 luglio 2014, XuLin, vice­mi­ni­stro dell’educazione, mem­bro del con­si­glio di Stato e diret­trice gene­rale dello Han­ban, ha com­piuto un gesto di arro­ganza che ha stu­pito e indi­gnato i circa quat­tro­cento sino­logi e pro­fes­sori pre­senti, pro­vo­cando l’immediata rea­zione del Pre­si­dente dell’Associazione, il pro­fes­sor Roger Grea­trex, diret­tore del Cen­tre for East and South-East Asian Stu­dies dell’Università di Lund (Sve­zia). Resasi conto che il pro­gramma del con­ve­gno, appro­vato dallo Han­ban qual­che set­ti­mana prima, ripor­tava «la sin­tesi di inter­venti il cui con­te­nuto è con­tra­rio alla nor­ma­tiva cinese» e che troppa enfasi veniva attri­buita alle atti­vità della Chiang Ching-kuo Foun­da­tion, l’ente no-profit tai­wa­nese che dal 1989 pro­muove la cul­tura cinese e gli scambi tra stu­diosi e acca­de­mici nel mondo e che è spon­sor di vec­chia data dell’Associazione euro­pea, la diret­trice Xu ha requi­sito le copie del pro­gramma, redi­stri­buen­dole il giorno suc­ces­sivo ai tre­cento par­te­ci­panti che ancora non le ave­vano rice­vute, pri­vate di alcune pagine, tolte not­te­tempo per­ché rite­nute lesive dell’immagine della Cina Popo­lare.
Grea­trex, senza esi­ta­zioni, ha fatto ristam­pare le parti man­canti e denun­ciato pub­bli­ca­mente l’accaduto come una grave vio­la­zione alla libertà acca­de­mica, dando vita a un dibat­tito che si affianca a quello sol­le­vato oltre oceano. Si è trat­tato di un incre­di­bile passo falso da parte di un’esponente di alto livello della diri­genza cinese che, evi­den­te­mente, ha rite­nuto di potersi muo­vere all’estero con la stessa disin­vol­tura con cui dev’esser solita agire in patria, inca­pace di com­pren­dere la gra­vità della sua azione e le impli­ca­zioni che da essa sareb­bero deri­vate. Un duro colpo all’immagine soft della Cina, che sem­bra sem­pre più orien­tata a mostrare al mondo la sua voca­zione a com­por­ta­menti hard.


Confucio, strategia del sapere per “ammorbidire” i nemici
Gli istituti finanziati dal regime veicolano nel mondo la voce di Pechino Il denaro viene elargito sulla base dei progetti presentati dagli Istituti Confucio, organizzazioni no profit che hanno aperto in tutto il pianeta e che sono sponsorizzate e dirette dall'Hanban, ufficio per la promozione della lingua cinese direttamente collegato al ministero dell'Istruzionedi Cecilia Attanasio Ghezzi il Fatto 30.9.14

Pechino Oltre 200 milioni di euro solo nel 2013. Contro i 144 dell'anno precedente e i 120 del 2011. Nel 2006, il budget era di appena un sesto. Come il prodotto interno lordo della nazione più popolosa del mondo, le spese della Repubblica popolare per la diffusione della sua lingua e cultura sono cresciuti a ritmi impressionanti. Il denaro viene elargito sulla base dei progetti presentati dagli Istituti Confucio, organizzazioni no profit che hanno aperto in tutto il pianeta e che sono sponsorizzate e dirette dall'Hanban, ufficio per la promozione della lingua cinese direttamente collegato al ministero dell'Istruzione.
Un'avventura iniziata 10 anni fa. Era il 2004 quando il primo Istituto Confucio ha aperto a Seul, Corea del Sud. Si volevano diffondere la lingua e la cultura cinese in maniera non dissimile da quanto fanno il British Council, il Goethe Institut o la Società Dante Alighieri. Solo che i Confucio sono molto spesso frutto di accordi bilaterali tra università cinesi e straniere. E quindi nascono e crescono all’interno degli ambienti accademici. Oggi ce ne sono 465 in 123 nazioni per un totale di 850mila alunni. Delle 200 università migliori al mondo, 88 hanno già aperto un Istituto Confucio. Ogni volta che Xi Jinping firma un accordo commerciale con altre nazioni, questo include l'apertura di un Confucio. I casi più recenti sono quelli sudamericani: Brasile e Cile.
“È un problema di brand”, ci spiega Federico Masini, prorettore dell'Università La Sapienza e direttore dell'Istituto Confucio di Roma. “Se un governo spende così tanto per la promozione culturale evidentemente vuole migliorarne l'immagine. Ed è comprensibile che questo sforzo sia più forte in quei paesi dove la politica economica cinese diventa più presente”.
Solo in Italia l'Hanban spende centinaia di migliaia di euro. Ristruttura le aule, paga gli insegnanti, i convegni, le pubblicazioni e gli eventi che ritiene possano dar lustro alla propria cultura millenaria. Il Partito ne è entusiasta. A giugno Liu Yunshan, che occupa una delle poltrone più importanti del vasto apparato di propaganda della Repubblica popolare, ha dichiarato che gli Istituti “hanno fatto la loro comparsa al momento giusto” e li ha descritti come “un treno della spiritualità ad alta velocità” atto a congiungere “il sogno cinese” con quelli del resto del mondo.
I soldi fanno comodo a tutti, ma non tutti la pensano allo stesso modo. È da un paio d’anni che negli Usa le critiche si fanno sempre più feroci. A inizio 2014 un centinaio di membri della facoltà di cinese dell'Università di Chicago si sono formalmente lamentati del fatto che l'apertura dell'Istituto Confucio aveva compromesso l'integrità accademica. Il professore Marshall Sahlins sulla rivista Nation ha elencato una serie di casi in cui le università hanno evitato di toccare temi “sensibili” per la politica cinese, o evitato di invitare il Dalai Lama nel campus. Anche per evitare tali situazioni “l'Istituto Confucio non entra nella didattica ufficiale dei nostri corsi universitari” sottolinea Alessandra Lavagnino, direttrice dell'Istituto Confucio di Milano.
Ad agosto l'Associazione europea per gli studi cinesi ha denunciato la censura del materiale accademico distribuito durante la conferenza di studi sinologici che si svolge ogni due anni. Come si legge sul rapporto dell'Associazione, chi è arrivato il primo giorno non s’è accorto di nulla, ma tutti quelli che hanno ricevuto il materiale dopo hanno notato che c'erano due pagine strappate.
COS'ERA SUCCESSO? Nel frattempo era arrivata Xu Lin, direttrice del quartier generale di Pechino degli Istituti Confucio. Aveva sponsorizzato l'evento e non era soddisfatta dello spazio riservata al logo del Confucio. Tanto più che c'era anche quello del corrispettivo taiwanese: la Fondazione Chiang Ching-kuo. Dopo una negoziazione con gli organizzatori, s’è deciso di requisire il materiale ed eliminare le pagine incriminate prima di redistribuirlo tra il pubblico.
Ci sono temi che in Cina rimangono tabù. Taiwan è ancora oggi descritta come “l'isola più grande della Cina”, ed è bene evitare di menzionare gli argomenti che Pechino ha destinato all'oblio. Tian'anmen, l'indipendenza del Tibet o il Falun Gong. Paolo De Troia, che ha diretto l'Istituto Confucio di Roma dal 2011 al 2014 ed è oggi visiting professor all'Università di Pechino, ci spiega come “anche se non è una regola, è probabile che nessuno chieda fondi all'Hanban per trattare quelle che Pechino considera ‘tematiche sensibili’”. “Ma – ci tiene a sottolineare il professor Masini – non ci sono argomenti che sono esplicitamente tabù. Su questi temi certo c'è una sorta di autocensura, ma altre pressioni non ne ho mai ricevute”. “La Cina vorrebbe intraprendere un percorso simile a quello del Giappone nel secondo dopoguerra” aggiunge Masini. “Una nazione invisa all'Occidente che ha riconquistato il consenso attraverso i film di Kurosawa, la tradizione dell'ikebana e dei bonsai. Forse la strada è ancora lunga, ma il tentativo è quello”. D'altronde lo stesso Li Changchun, predecessore di Liu Yunshan, ha definito gli Istituti Confucio “una parte importante dell'apparato di propaganda cinese all'estero”. E il termine “propaganda” (xuanchuan) significa anche “pubblicità” e indica la attività stessa dell'ufficio stampa.

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