lunedì 1 settembre 2014

Indignazione morale e costruzione delle occasioni belliche

Quasi quasi ti faccio una guerra
Dal primo al secondo conflitto mondiale, a quello delle Falkland: i documenti declassificati consentono di capire come sono scoppiati. E saperlo può essere scioccante
Alessandro Barbero La Stampa 28 agosto 2014

Secondo il rapporto di un centro studi americano, in questo momento solo undici paesi al mondo sono completamente estranei a qualunque coinvolgimento bellico. La frequenza delle insurrezioni e delle operazioni di peace-keeping spiega l’allarme di papa Francesco, secondo cui la terza guerra mondiale è già cominciata. In questo mondo che ogni giorno guarda alle ultime notizie dall’Ucraina o dall’Iraq chiedendosi quali saranno le conseguenze, è interessante osservare il comportamento dei politici nelle grandi crisi del passato; in particolare di quei politici che nell’ultimo secolo hanno davvero portato i loro paesi in guerra.
Studiare i giorni convulsi che precedettero lo scoppio delle due guerre mondiali, nel 1914 e nel 1939, e anche dell’unica guerra combattuta dopo di allora fra due paesi occidentali, la guerra delle Falkland del 1982, è un’esperienza molto istruttiva. Perché col passare degli anni i documenti riservati, e anche molti che all’epoca erano considerati segretissimi, sono stati messi a disposizione degli storici. Noi oggi possiamo leggere i commenti personali scarabocchiati dal kaiser Guglielmo II sui telegrammi da Londra («Gli inglesi sono dei farabutti!»), la reazione del ministro degli esteri Galeazzo Ciano alla scoperta che i tedeschi avevano già deciso di fare la guerra senza dirlo a Mussolini («Ci hanno ingannato e mentito»), il diario del principale consigliere di Ronald Reagan durante la crisi delle Falkland («Le isole Falkland! Mai sentite, vero? Neanch’io, fino a ieri sera»).
Quando dico che i documenti sono a disposizione degli storici, intendo dire che sono a disposizione di tutti. Si trovano su Internet, a patto di cavarsela coll’inglese, già ordinati in ricchissimi dossier; anche quelli della guerra delle Falkland, che sembra ieri, e invece sono passati più di trent’anni e il governo britannico ha declassificato, come si dice, i documenti segreti. E così oggi sullo straordinario sito della Fondazione Margaret Thatcher si trova tutto, dalle trascrizioni delle telefonate con Reagan fino ai verbali scarabocchiati a matita delle riunioni dei deputati conservatori (Lord Onslow: «Affondiamogli tutta la flotta!»). In altre parole, noi sappiamo del kaiser e dello zar, di Hitler e di Mussolini, di Reagan e della Thatcher quello che non sappiamo, per ora, di Obama e di Putin: come parlavano davvero, cosa si dicevano in privato, cosa annotavano nei loro diari. L’esperienza, a seconda del punto di vista, può essere rassicurante o scioccante: i padroni del mondo sono persone qualunque, perdono la testa e si arrabbiano, decidono sull’impulso del momento, poi ci ripensano, si preoccupano di cosa penserà la gente, hanno paura di perdere la faccia, sperano che gli altri siano ragionevoli, sperano che succeda qualcosa a tirarli fuori dai guai, e quando tutto va a finire male dichiarano che loro non c’entrano, è colpa della fatalità (il cancelliere tedesco, Bethmann-Hollweg, il giorno prima di dichiarare guerra alla Russia nel 1914: «Tutti i governi, compreso quello russo, e la grande maggioranza dei popoli erano per sé stessi pacifici; ma il sasso ha cominciato a rotolare...»). 
Ma una cosa li accomuna tutti: non vorrebbero la guerra, però sono disposti a correre il rischio. Bisogna punire uno Stato canaglia che fomenta il terrorismo: è l’opinione diffusa in Austria dopo l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo per mano di terroristi serbi, e qui sarà il caso di ricordare che se a noi l’assassinio di un arciduca può sembrare meno grave che non l’abbattimento di due grattacieli e la morte di tremila persone, per i politici del 1914 era enormemente più grave. Bisogna punire lo Stato canaglia per difendere la civiltà e perché l’opinione pubblica lo pretende (Sigmund Freud, a Vienna, alla notizia della dichiarazione di guerra alla Serbia: «Tutta la mia libido è rivolta all’Austria-Ungheria»), e si è disposti a correre il rischio che la guerra si allarghi e diventi mortale, anche perché sotto sotto non ci si crede. Oppure: bisogna mostrare che la Germania è forte e risolvere con la forza il litigio con la Polonia, e si è disposti (almeno Hitler lo era, nel 1939) a correre il rischio che la guerra si allarghi e diventi mondiale, anche perché sotto sotto si è convinti di farla franca un’altra volta: dopo tutto, le potenze democratiche hanno permesso alla Germania nazista di mangiarsi l’Austria e la Cecoslovacchia, perché dovrebbe essere diverso stavolta?
E infine: bisogna salvare il regime e compattare un popolo scontento, schiantato da un’inflazione al 600%, invadendo le Falkland, anzi le Malvinas, come le chiamano in Argentina, quelle Malvinas che da centocinquant’anni tutti gli scolaretti argentini imparano a desiderare come gli italiani desideravano Trento e Trieste. In quel caso non si può neppure parlare di un rischio calcolato: i generali argentini erano sicuri che la Gran Bretagna non avrebbe reagito, e che il loro buon amico Ronald Reagan li avrebbe protetti. Dopo tutto, solo pochi mesi prima il presidente americano aveva accolto alla Casa Bianca il dittatore argentino Galtieri, e lo aveva chiamato «un magnifico generale» per il suo zelo anticomunista. Non sapevano, come sappiamo noi, che «Ron» aveva già scritto alla «dear Margaret» garantendole che se le cose si mettevano male gli Stati Uniti l’avrebbero sostenuta. Non lo sapevano, però avrebbero potuto immaginarlo: come scrisse poi impietosamente l’Economist nel necrologio del generale Galtieri, «forse qualcuno dei suoi compatrioti poteva perdonarlo per la sua spietatezza, ma non per la sua stupidità». E dunque è così che scoppiano le guerre: quando qualcuno decide di correre un rischio. Finché la terza guerra mondiale non è ancora scoppiata, è sui rischi impliciti in ogni mossa dei leader che l’opinione pubblica dovrebbe meditare, se vuole provare a capire qualcosa.

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