lunedì 1 settembre 2014

Le origini della Prima Internazionale

Fatte le debite contestualizzazioni storiche, oggi siamo in una situazione più difficile ma non dissimile [SGA].

Prima Internazionale. Lavoratori di tutto il mondo unitevi! Indirizzi, Risoluzioni, Discorsi e Documenti, a cura di Marcello Musto, Donzelli, pp. 256, € 25

Così si unirono i lavoratori di tutto il mondo
Il 28 settembre di 150 anni fa nasceva a Londra la Prima Internazionale: la sua vicenda in un’antologia di testi dell’epoca, da Marx a Bakunin, agli scritti degli operai
Angelo D’Orsi – La Stampa – 1 set 2014
Londra, 28 settembre 1864: la sala del St. Martin’s Hall, nel cuore di Londra, era affollata da duemila uomini e donne di umili condizioni, inglesi, ma anche tedeschi, francesi, spagnoli, russi, polacchi, italiani… Nessuno, quel giorno, sospettava che stava nascendo la prima organizzazione mondiale proletaria. Forse neppure Karl Marx, la testa pensante più celebre, autore (pur in collaborazione con Engels) del Manifesto del Partito comunista che a Londra aveva visto la luce nel 1848.
Una preziosa antologia, che il dinamico editore Donzelli manda ora in libreria, ci consente di ripercorrere la vicenda della Prima Internazionale, vissuta fino al 1876, quando le difficoltà organizzative, il contrasto con gli anarchici (e la nascita di una loro «Internazionale antiautoritaria»), oltre alle persecuzioni poliziesche, ne segnarono la fine. L’Associazione fu poi sostituita, nel 1889, dalla Seconda, naufragata nel 1914, nel fragoroso scoppio della Grande guerra, che vide i diversi partiti operai schierarsi con le rispettive classi dirigenti, facendo così crollare clamorosamente il mito dell’internazionalismo proletario. A firmare il lavoro è un esponente della giovane generazione di studiosi, Marcello Musto, uno dei tanti che il nostro bloccato sistema universitario costringe a rifugiarsi all’estero, esuli culturali che prendono il luogo degli esuli politici. Il libro si intitola con la frase stentorea che chiude il Manifesto: Lavoratori di tutto il mondo unitevi! (pp. 256, € 25).
Mentre la pionieristica opera di Gian Mario Bravo nel 1978 raccoglieva, accanto ai documenti ufficiali, tutta una serie di scritti collaterali, fornendo un panorama amplissimo (due volumi per un totale di 1300 pagine), il libro in questione si limita ai testi dell’Organizzazione, ed è diretto a un pubblico più ampio. Il curatore ne evidenzia il significato politico-culturale, in un momento storico in cui i diritti dei lavoratori vengono messi in discussione.
Accanto ai comunisti, nell’Internazionale, v’erano socialisti, sindacalisti, anarchici, mazziniani, repubblicani, eterogenea platea di militanti, ai quali da allora fu affibbiata l’etichetta, che voleva essere infamante, di «internazionalisti», sinonimo di sovversivi dell’ordine costituito. In realtà, le proteste nascevano dalle insostenibili condizioni in cui vivevano e lavoravano i proletari. Il ruolo dell’Associazione fu raccogliere fondi e convincere i lavoratori a rinunciare al crumiraggio ai danni degli scioperanti di un altro Paese. Era la traduzione concreta dell’internazionalismo proletario, sotto forma di solidarietà e di cooperazione. Ma anche nelle battaglie apparentemente sindacali il lievito impresso dall’organizzazione fu politico. È evidente il contributo di Marx, al quale si devono più di un terzo dei documenti raccolti, anche se la costruzione teorico-politica fu collettiva, e lo testimoniano i testi qui raccolti, in gran parte di operai. Era la prova del passaggio della classe operaia «in sé», ossia non ancora cosciente della propria forza, a classe «per sé», cioè matura, e pronta alla lotta per il potere, come intanto stava teorizzando Marx.
Era per esempio il francese Eugène Tartaret a perorare la riduzione dell’orario, ma rivendicando la nobiltà del lavoro, che «non dev’essere più un castigo, una schiavitù, un marchio di indegnità, deve essere un dovere imposto a tutti i cittadini». Lo scopo fondamentale della riduzione dell’orario è tuttavia quello di consentire al lavoratore di essere un cittadino istruito e cosciente, invece che «un paria, uno schiavo indifferente al progresso…».
L’Internazionale, pur tra gli scontri interni (che videro l’allontanamento di mazziniani, anarchici ecc.), svolse un ruolo fondamentale nel processo di maturazione dei proletari. Per esempio, rispetto al luddismo, la risposta distruttiva all’introduzione delle macchine in fabbrica, si scriveva: «L’uomo privato del suo pane […] aveva torto nel maledire il macchinario: il suo odio e la sua collera dovevano condurre a risultati più alti. La causa dei mali è l’anarchia sociale: la giustizia sociale sarà il loro rimedio». Era una ventata di utopia, ma nel contempo era un progetto sociale di alto respiro.
Le parole più lucide erano sempre quelle di Marx, il quale peraltro sapeva comportarsi da leader, indirizzando a Lincoln un messaggio di congratulazioni per la rielezione alla Casa Bianca, ma rimaneva un rivoluzionario conseguente, e invitava a diffidare di ogni accordo separato (un monito che pochi oggi sono disposti ad ascoltare) e ad affrontare questioni come salario e orario in termini generali, ossia politici, giacché tutto sempre «si riduce alla questione dei rapporti di forza delle parti in lotta». E, con sarcasmo, scriveva di un certo tipo di capitalista: «È così infatuato per la libertà dei suoi operai […] di lavorare in ogni ora della loro vita per lui, che, sempre e con sdegno, ha respinto ogni legge sulle fabbriche, in quanto recante pregiudizio alla suddetta libertà. Lo fa inorridire soltanto l’idea che un operaio comune sia tanto folle da aspirare a un destino più elevato di quello di arricchire il suo signore e padrone, il suo superiore naturale. Vuole […] che il suo operaio resti un misero schiavo». Di qua, la «folle furia» contro lo sciopero, considerato «una blasfemia, una rivolta di schiavi, l’indice di un cataclisma sociale».
I documenti degli internazionalisti affrontano ogni tematica di qualche rilevanza nella costruzione della società futura: l’idea che dovesse essere una società immediatamente senza Stato, secondo la tesi di Bakunin, venne lasciata cadere, grazie alla contrapposizione di Marx, che ironizzava con l’anarchico russo, e la sua battaglia contro «l’idea astratta di Stato». La tragica ed esaltante esperienza della Comune di Parigi fornì a Marx conferma che la rivoluzione aveva bisogno di uno Stato, diverso da quello borghese (abolizione dell’esercito e della polizia permanenti, eleggibilità e revocabilità dei pubblici funzionari ecc.), ma anch’esso deputato all’esercizio della forza, contro il nemico di classe, che infatti , spodestato, prese la sua sanguinosa rivincita. Ciò malgrado, con la Comune, l’Internazionale segnò la più prestigiosa vittoria ideale: «essa fu essenzialmente un governo della classe operaia, […] la forma politica finalmente scoperta, nella quale si poteva compiere l’emancipazione economica del lavoro». Era uno dei risultati storici dell’Internazionale dei lavoratori.



Copertina anterioreMaria Grazia Meriggi: L’Internazionale degli operai. Le relazioni internazionali dei lavoratori in Europa fra la caduta della Comune e gli anni '30,  Franco Angeli

La prima internazionale, affresco di un fallimento politico
Saggi. «L’Internazionale degli operai» di Maria Grazia Meriggi per Franco Angeli. L’analisi di una ricca esperienza politica interrotta dalla Grande Guerra, ma che rivela una inedita attualitàMichele Nani, 18.7.2014 il Manifesto
Un secolo fa, nell’estate del 1914 il «man­cato con­gresso» dell’Internazionale sancì il «fal­li­mento» del movi­mento ope­raio dinanzi ai venti di guerra: le espres­sioni si devono a Geor­ges Haupt, che in un tut­tora indi­spen­sa­bile volu­metto edito nel lon­tano 1965 cercò di inda­gare sulle ragioni della «tra­gica fine di tutta un’epoca del socia­li­smo», con i lavo­ra­tori euro­pei con­trap­po­sti sui campi di bat­ta­glia, a pagare il prezzo di una guerra decisa da ristretti cir­coli politico-militari e cele­brata da intel­let­tuali di ogni ten­denza (tra­dotto in ita­liano da Samonà e Savelli nel 1970; una mira­bile sin­tesi si trova nella rac­colta postuma L’Internazionale socia­li­sta dalla Comune a Lenin, Einaudi ).

Oltre le divi­sioni nazionali

Dalla lezione di Haupt prende le mosse l’ultima ricerca di Maria Gra­zia Meriggi, che affronta in un’ottica di medio periodo e da mol­te­plici punti di osser­va­zione il pro­blema delle forme e dei limiti dell’internazionalismo dei lavo­ra­tori (L’Internazionale degli ope­rai. Le rela­zioni inter­na­zio­nali dei lavo­ra­tori fra la caduta della Comune e gli anni ’30, Franco Angeli, pp. 224, euro 30). Fedele alla tra­di­zione della sto­ria sociale clas­sica, Meriggi va alla ricerca non solo della docu­men­ta­zione politico-ideologica, il «dover-essere» inter­na­zio­na­li­sta che rie­cheg­gia nei con­gressi, nella stampa e nella pro­pa­ganda, ma delle rela­zioni con­crete fra lavo­ra­tori. Con la nazio­na­liz­za­zione della società pro­dotta lungo il XIX secolo, anche i lavo­ra­tori si ritro­vano seg­men­tati in appar­te­nenze che emer­gono soprat­tutto quando attra­ver­sano con­fini e si pon­gono come mano­do­pera «stra­niera». L’assunto di fondo che anima que­ste pagine è che il «mer­cato del lavoro», cioè le forme di reclu­ta­mento della mano­do­pera, pro­duce fri­zioni, ma che que­ste pos­sono essere ricom­po­ste a par­tire dai «luo­ghi di lavoro», orga­niz­zando il con­flitto di classe, che sug­ge­ri­sce linee di divi­sione «ver­ti­cali» e non «oriz­zon­tali», «sociali» e non «etni­che». Fra 1870 e 1940 — ma la perio­diz­za­zione potrebbe essere ovvia­mente estesa — una «ten­sione con­ti­nua» spinge i lavo­ra­tori ai poli oppo­sti della xeno­fo­bia ope­raia e della soli­da­rietà inter­na­zio­na­li­sta: le due rispo­ste, esclu­dere o inte­grare, pog­giano tut­ta­via sulla mede­sima domanda, come «gover­nare» il mer­cato del lavoro e impe­dire l’erosione di diritti, garan­zie e salari?
I con­gressi ope­rai otto­cen­te­schi affron­tano spesso la «fac­cia nasco­sta» dell’internazionalismo, le rela­zioni con gli ope­rai stra­nieri. I loro atteg­gia­menti si inne­stano su forme pre­ce­denti di estra­neità, non carat­te­riz­zate in ter­mini «etnico-nazionali», ma che ave­vano svolto e con­ti­nua­vano a svol­gere fun­zioni ana­lo­ghe sul mer­cato del lavoro, come quelle della mano­do­pera rurale immessa negli impie­ghi urbani, della migra­zione col­let­tiva di ope­rai spe­cia­liz­zati da una città all’altra o dell’afflusso di brac­cianti «fore­stieri» in occa­sione dei lavori agri­coli. Ma occorre spe­ci­fi­care — ed è un’altra con­ti­nuità con la lunga sta­gione delle cor­po­ra­zioni di mestiere di antico regime (al cen­tro di un capi­tolo dell’ultimo libro di Simona Cerutti, Étran­gers, 2012) — che il discri­mine non era tanto fra indi­geni e fore­stieri, quanto fra lavo­ra­tori orga­niz­zati e non, fra regole o comun­que forme di «eco­no­mia morale» nella gestione del mer­cato del lavoro e loro rot­tura con­sa­pe­vole da parte del padro­nato. Impe­dire quel che oggi chia­me­remmo il «dum­ping sala­riale» è la radice ultima dell’internazionalismo ope­raio, ma anche la matrice delle scor­cia­toie che mirano a «pro­teg­gere il lavoro nazionale».
Le fonti della ricerca
Meriggi mobi­lita uno spet­tro di fonti che va dalla docu­men­ta­zione del movi­mento ope­raio alle carte di pub­blica sicu­rezza. I car­teggi primo-novecenteschi del Bureau socia­li­ste inter­na­tio­nale, la strut­tura di coor­di­na­mento della Seconda inter­na­zio­nale, con­fer­mano il rilievo delle migra­zioni nella defi­ni­zione dell’internazionalismo ope­raio, che agi­sce lungo linee con­ver­genti: lot­tare con­tro il raz­zi­smo e il nazio­na­li­smo, fonti di peri­co­lose divi­sioni in seno al movi­mento ope­raio; man­te­nere la libertà di movi­mento ed esten­dere agli immi­grati i diritti dei nativi; orga­niz­zare i migranti, prima e dopo la migra­zione, in modo che sfug­gano alle mani­po­la­zioni padro­nali e non siano uti­liz­zati con­tro gli scio­peri o per com­pri­mere salari e garan­zie, andando ad ali­men­tare così le divi­sioni in seno alla classe lavo­ra­trice. Non tutto il movi­mento ope­raio si rico­no­sceva in que­ste indi­ca­zioni e, ad esem­pio, dagli Stati Uniti giun­ge­vano richie­ste di blocco dell’immigrazione cinese, men­tre in Europa si sol­le­va­vano distin­zioni ana­lo­ghe in merito al grado di civi­liz­za­zione e cul­tura dei diversi gruppi di migranti, oltre che sguardi ambi­gui sul lavoro nei ter­ri­tori colo­niali. Al di fuori delle orga­niz­za­zioni socia­li­ste le posi­zioni pote­vano essere ancora più recise, come nel caso dei Jau­nes fran­cesi, un’effimera ma ori­gi­nale espe­rienza di orga­niz­za­zione dei lavo­ra­tori che tentò di fare della xeno­fo­bia ope­raia — ten­ta­zione ricor­rente nei periodi di crisi, ma loca­liz­zata e oscil­lante — una vera e pro­pria ideo­lo­gia: la «pre­fe­renza» nazio­nale, che i Jau­nes asso­cia­vano all’antisemitismo mili­tante e che poi avrebbe cono­sciuto perio­di­che ricor­renze nel Nove­cento.
Con­tro le posi­zioni filo­pa­dro­nali dei «gialli» e dei loro eredi, con­sa­pe­voli dal ruolo nefa­sto della divi­sione dei lavo­ra­tori i «rossi» oppo­sero siste­ma­ti­che cam­pa­gne, cen­trate sull’autonomia dell’organizzazione ope­raia e sul con­flitto di classe. Que­sto approc­cio, almeno in Fran­cia, paese strut­tu­ral­mente inte­res­sato, per ragioni demo­gra­fi­che da impor­ta­zioni mas­sicce di mano­do­pera, ebbe la meglio, come evi­den­zia l’azione sin­da­cale di orga­niz­za­zione della «mano­do­pera immi­grata» e gli scio­peri uni­tari che pre­ce­det­tero e accom­pa­gna­rono la breve sta­gione del Front popu­laire. Ma su scala euro­pea il sin­da­cato, talora diviso per le scis­sioni delle com­po­nenti comu­ni­ste, dovette attra­ver­sare la dif­fi­cile inter­pre­ta­zione della grande crisi del 1929, che lo colse ancora attar­dato a discu­tere di alti salari, pro­dut­ti­vità e difesa delle qua­li­fi­che. Solo negli anni Trenta si impose la con­vin­zione della neces­sità di poli­ti­che eco­no­mi­che alter­na­tive, di una rispo­sta non mera­mente assi­cu­ra­tiva alla disoc­cu­pa­zione e della ripro­po­si­zione di un ruolo cen­trale del sin­da­cato nella gestione del mer­cato del lavoro e delle rela­zioni inter­sin­da­cali nella rego­la­zione dei flussi migra­tori, due com­piti da non dele­gare agli Stati.
Un pro­blema del presente
L’Inter­na­zio­nale degli ope­rai è dun­que un sug­ge­ri­mento di metodo, che invita allo stu­dio «sul campo» delle «reali rela­zioni» fra lavo­ra­tori indi­geni e immi­grati e con­si­dera cen­trali per la defi­ni­zione di que­sti rap­porti i luo­ghi della pro­du­zione e i mer­cati del lavoro: lì va cer­cata l’origine delle frat­ture e delle dif­fi­coltà, poi ampli­fi­cate nei quar­tieri di abi­ta­zione e nel tempo libero, dalle reti di rela­zione comu­ni­ta­rie e dal rap­porto con le isti­tu­zioni (come scuole e chiese). Al di là dell’interesse sto­rio­gra­fico, i pro­blemi dei lavo­ra­tori e delle loro orga­niz­za­zioni fra Otto e Nove­cento sono ancora ben vivi nel nostro pre­sente: cono­scerne la lunga vicenda è impor­tante non solo per gli stu­diosi e ine­vi­ta­bil­mente (e per for­tuna) libri come que­sto hanno anche un signi­fi­cato civile.

La parola all’Internazionale
Fra le ini­zia­tive assunte in occa­sione del 150° anni­ver­sa­rio della fon­da­zione dell’Associazione Inter­na­zio­nale dei Lavo­ra­tori, que­sto volume, Prima Inter­na­zio­nale, Indi­rizzi, Riso­lu­zioni, Discorsi, Docu­menti, a cura di Mar­cello Musto (Don­zelli, pp. XVI-256, euro 25) si distin­gue per due obbiet­tivi, entrambi rag­giunti. Una messa a punto della ricerca attuale su que­sto fon­da­men­tale epi­so­dio della sto­ria dei mondi del lavoro e una sua ripro­po­si­zione come espe­rienza esem­plare che ritrova nel pre­sente una nuova attua­lità.
Tra gli anni ’50 e la fine dei ’70 infatti la sto­rio­gra­fia aveva infatti rag­giunto una com­piuta cono­scenza delle fonti della I e della II Inter­na­zio­nale, anche gra­zie agli archivi di fon­da­zioni euro­pee fon­da­men­tali quali l’International Insti­tute of Social History di Amster­dam e la Fon­da­zione Fel­tri­nelli di Milano. A lungo que­sta cono­scenza si è con­cen­trata – come ricorda Musto – sulla cen­tra­lità del mar­xi­smo, sull’adeguamento o l’allontanamento da una pre­sunta o reale orto­dos­sia con, sullo sfondo, un rap­porto fina­li­stico con la for­ma­zione dell’Internazionale comunista.Oltre l’illegalità
Par­tendo dalla cono­scenza appro­fon­dita di quella pre­ziosa massa di ricer­che, il lavoro di Musto mette in luce il ruolo dell’Internazionale come espe­rienza col­let­tiva e sociale. Ed è signi­fi­ca­tivo che anche la ripresa di inte­resse per la II Inter­na­zio­nale stia pren­dendo strade che non hanno a che fare con il «fal­li­mento» o il «tra­di­mento» del ’14 ma indi­vi­duano sulla scorta del vasto e fon­da­men­tale can­tiere aperto da Geor­ges Haupt le con­ti­nuità fra le cosid­dette I e II Inter­na­zio­nale pro­prio come luogo di incon­tro di espe­rienze col­let­tive. Musto è docente di socio­lo­gia teo­rica e que­sta cono­scenza della den­sità sociale delle orga­niz­za­zioni poli­ti­che e delle loro teo­rie è all’opera nel volume e nella sua bella intro­du­zione.
L’Internazionale sorge in anni di grande espan­sione eco­no­mica, ma in cui que­sta fidu­ciosa vita­lità non si era ancora tra­dotta in con­qui­ste sta­bili dei lavo­ra­tori. Molto len­ta­mente le orga­niz­za­zioni riven­di­ca­tive usci­ranno dall’illegalità negli anni ’60-’80 con l’eccezione del Regno Unito (in cui esse erano legali dal 1824, ma in cui le pra­ti­che di difesa degli scio­peri erano ancora punite con car­cere e depor­ta­zione). In molti paesi euro­pei lo svi­luppo della grande indu­stria aveva reso satel­liti e subal­terne le mani­fat­ture e le pic­cole imprese creando le con­di­zioni per l’affermazione di una vera e pro­pria classe ope­raia moderna, ma la fonte delle sue capa­cità con­trat­tuali restava il mestiere. Le sole orga­niz­za­zioni quasi sem­pre legali erano le società di mutuo soc­corso e le cooperative.
Le  lotte sociali
Anche se Marx ed Engels sem­pli­fi­ca­vano dicendo che nes­sun ope­raio era stato owe­nita o san­si­mo­niano, certo non furono i cir­coli di stu­dio e i fan­ta­siosi pro­getti di riforma «socia­li­sta» a dare voce ai lavo­ra­tori, ma quelle orga­niz­za­zioni mutua­li­sti­che e coo­pe­ra­tive che molto spesso diven­ta­vano anche luo­ghi di finan­zia­mento e orga­niz­za­zione clan­de­stina degli scio­peri. L’intreccio di tutte que­ste pra­ti­che che coe­si­ste­vano nella vita quo­ti­diana dei lavo­ra­tori insieme alla cen­tra­lità dello scio­pero carat­te­rizza la vita dell’Internazionale e ne costi­tui­sce la ric­chezza.
Fra i gruppi ade­renti all’Internazionale ci sono, su un piano di parità, coo­pe­ranti, mutua­li­sti, sin­da­ca­li­sti, gruppi di stu­dio, e anche i nascenti par­titi ope­rai. Il volume rico­strui­sce l’intelligente opera di Marx nell’associare la radi­ca­lità nell’analisi della società e nelle pro­spet­tive ultime a una grande capa­cità di tenere insieme que­ste espe­rienze diverse a patto che rifiu­tas­sero le pra­ti­che delle sette clan­de­stine.
Negli anni «senza l’Internazionale», dopo il 1872, e nella stessa II Inter­na­zio­nale che pure nelle inten­zioni dei suoi fon­da­tori doveva for­mare dei diri­genti che sapes­sero distin­guere le diverse fun­zioni (sin­da­cato, coo­pe­ra­tiva, par­tito, gruppo par­la­men­tare di un par­tito socia­li­sta) i mili­tanti con­ti­nue­ranno a «sovrap­porre» que­ste fun­zioni, fon­dando una coo­pe­ra­tiva per finan­ziare uno scio­pero, chie­dendo al Bureau socia­li­ste inter­na­tio­nal di occu­parsi di evi­tare le migra­zioni in luo­ghi dove era in corso uno scio­pero… le carte del Bureau atte­stano que­sta feconda con­ti­nuità.
La rac­colta di testi docu­menta pro­prio la vastità dell’impegno degli inter­na­zio­na­li­sti: il lavoro e le sue tra­sfor­ma­zioni, il ruolo delle lotte sin­da­cali, la coo­pe­ra­zione, la guerra, la que­stione irlan­dese e gli Usa, il ruolo dello stato e e quello dell’autorganizzazione poli­tica per il pre­sente e per la costru­zione di un futuro di col­let­ti­viz­za­zione dei mezzi di pro­du­zione.
Come osserva Musto, non è (solo) la rigo­rosa cri­tica di Marx ma gli ope­rai stessi a met­tere in scacco il prou­d­ho­ni­smo con una tenace atti­vità di orga­niz­za­zione degli scio­peri che sono il segno distin­tivo dell’Internazionale. Il volume segue le vicende dell’AIL dopo la Comune e la con­clu­sione della sua sto­ria orga­niz­za­tiva pro­vo­cata più dalle tra­sfor­ma­zioni ogget­tive, l’inizio della lunga depres­sione, il ruolo cre­scente dei par­titi nazio­nali, che dalla volontà di Marx di con­tra­stare l’affermazione di forme asso­cia­tive set­ta­rie e del bakunismo.

Vec­chie e nuove storie
Ma il volume vuole anche sug­ge­rire un’attualità di quelle vicende. Secondo Marx il sin­da­ca­li­smo, essen­ziale per­ché gli ope­rai impa­ras­sero ad autor­ga­niz­zarsi, non avrebbe potuto miglio­rare sta­bil­mente le loro con­di­zioni all’interno del modo di pro­du­zione capi­ta­li­stico. Oggi dopo un secolo di com­pro­messi avan­zati i pro­cessi che sem­pli­fi­cando chia­miamo di mon­dia­liz­za­zione ci ripro­pon­gono – certo in forme nuove — l’identificazione della con­di­zione di sala­riato con quella di povero e di pre­ca­rio.
Que­ste non sono dun­que «vec­chie sto­rie» ma esempi di un per­corso di eman­ci­pa­zione la cui attua­lità è indi­cata da Musto nella con­clu­sione del volume – insieme e filo­lo­gico e mili­tante – con l’inno dell’Internazionale nella ver­sione di Franco For­tini: «non vogliam spe­rare niente/il nostro sogno è la realtà».

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