venerdì 19 settembre 2014

Le "vite di Dobrushka" di Scholem: la lettura di Roberto Esposito e di altri


Gershom Scholem: Le tre vite di Moses Dobrushka, Adelphi, trad. di E. Zevi, pagg. 231, euro 22

Risvolto
Dai ghetti moravi alla corte imperiale di Vienna, dalle salmodie cabbalistiche agli idilli pastorali, dal traffico d'armi ai club giacobini, dalle logge massoniche alla ghigliottina: le tappe della vita avventurosa di Moses Dobrushka si leggono come altrettanti capitoli di un romanzo d'ap­pen­di­ce, prodigo di colpi di scena, oscuri complotti, immense ricchezze e atroci miserie. Spia al soldo delle potenze reazionarie, sincero rivoluzionario, ebreo convertito (ma senza rinunciare alla fede frankista) o semplice avventuriero| Poeta e uomo d'affari, iniziato e citoyen, Dobrushka era imparentato con lo scandaloso pseudomessia Jacob Frank e, prima di salire sul patibolo, durante il Terrore, era stato in predicato di ereditare il comando dell'e­quivoca e strampalata corte di Of­fenbach, sulla quale regnava la figlia di Frank, Eva, che aveva ricevuto i favori e gli omaggi del­l’imperatore Giuseppe II e dello zar Alessandro I. Gershom Scholem, affascinato da questa figura enigmatica, esemplare della parabola dell'e­brai­smo moderno alle soglie dell'eman­ci­pa­zione, illumina le tracce confuse che ce ne restano, riuscendo a far convergere in un saggio magistrale gli strumenti dello storico e l’interroga­tivo metafisico. 


Quella passione esoterica nel cuore dell’Illuminismo
Un libro inedito di Gershom Scholem rievoca il kabbalista giacobino Moses Dobrushka, che incarnò i legami tra occultismo e RivoluzioneROBERTO ESPOSITO Repubblica 19 settembre 2014

IL 5 aprile 1794, Sigmund Gottlob Junius Frey è ghigliottinato, insieme a Danton e ad altri, nella piazza della Rivoluzione per cospirazione contro la Repubblica, pur proclamandosi innocente e strenuo difensore della libertà — come il nome di Junius, datosi in onore dell’eroe romano Junius Brutus, lascia immaginare. Tale nome era in realtà il terzo che egli aveva assunto dopo quello, originario, di Moses (Levi) Dobrushka e l’altro, successivo, di Franz Thomas von Schönfeld. Ciascuno di essi aveva ricoperto, come una maschera cangiante, il suo volto sfuggente.

Nelle fasi diverse della sua vita avventurosa — di ebreo convertito, seguace di un ordine massonico di orientamento kabbalistico, di letterato fedele suddito dell’imperatore austriaco e, infine, di fervente giacobino, autore di una Filosofia sociale dedicata al popolo francese . Nipote acquisito del profeta eretico Jacob Frank al punto di apparirne il successore, legato all’alta borghesia austriaca di cui condivideva gli interessi finanziari, austero esperto di dottrine teosofiche, ma non alieno dai piaceri della carne, illuminista e mistico, chi era in realtà quest’uomo nato in Moravia nel 1753 e morto, quarantenne, sul patibolo?

Una risposta, tutt’altro che conclusiva, a questa serie di domande è fornita dal grande ebraista Gershom Scholem, nell’edizione italiana del saggio inedito Le tre vite di Moses Dobrushka , edito da Adelpi con una dotta e brillante postfazione di Saverio Campanini. Si tratta della stesura ampliata di una conferenza pronunciata a Parigi nel 1979 su invito dello storico della Rivoluzione François Furet, che conclude, sia pure in forma aperta e problematica, una ricerca complementare ai fondamentali studi sulle sette ebraiche avviati da Scholem alcuni decenni prima. E si situa al punto di tensione tra esoterismo e illuminismo cui, attraverso un percorso accidentato e ricco di pieghe, perviene il movimento, insieme mistico e nichilista, fondato da Shabbatay Zevi nel Seicento e proseguito, nel secolo seguente, dal successore Jacob Franck. Moses Dobruschka, figlio della cugina di Jacob, ebbe la classica educazione rabbinica, ma insieme fu iniziato alla fede sabbatiana. Intrapresa la carriera letteraria con il nome di Franz Thomas von Schönfeld, si convertì esteriormente al cristianesimo, come altri adepti, rimanendo però fedele al proprio credo segreto.

Stabilitosi a Vienna, fu introdotto nei circoli illuminati lealisti verso Giuseppe II, entrando in contatto con scrittori come Klopstock, Gleim, Ramler e Voss. Fu allora che aderì alla società massonica dei Fratelli Asiatici, di tendenza esoterica ed occultista, in una sorta di singolare miscela di razionalismo e misticismo, espressa dal doppio triangolo della Stella di David e del Candelabro a sette braccia. Spostatosi in Francia con il nome di Junius Frey, senza rinunciare alla radice kabbalistica, secolarizzò la propria prospettiva in senso politico, accostandosi agli ambienti rivoluzionari giacobini. Tuttavia la sua personalità controversa destò presto sospetti, tanto da essere accusato di spionaggio a favore degli austriaci con l’intenzione di salvare Maria Antonietta dalla ghigliottina, sotto la cui lama finì egli stesso insieme ai fratelli e al cognato, il deputato Chabot.

I pareri sulla sua effettiva posizione — di patriota repubblicano o di traditore della Francia — divergono. Scholem, influenzato anche dall’accorata protesta di innocenpiano za lasciata al figlio insieme allo scritto sulla Filosofia sociale , propende per la prima tesi, ritenendo possibile la commistione tra l’anima sabbatiana e quella rivoluzionaria, Nel saggio, incluso nella presente edizione, sulla Metamorfosi del messianismo eretico sabbatiano in nichilismo religioso l’autore individua il punto di possibile convergenza in un messianismo fin dall’inizio orientato in direzione rivoluzionaria e anche anarchica. Al centro della dottrina di Frank vi è la tesi, di matrice gnostica, secondo cui il mondo in cui viviamo non è stato creato da Dio, ma da un suo alter ego demoniaco alle cui leggi occorre sfuggire, infrangendole anche attraverso atteggiamenti apparentemente peccaminosi. Da qui la tesi, più tardi fatta propria da Bakunin, che «la distruzione è una forza creativa». Ciò spiega la compresenza di mistica e sovversione sul pubblico e di fede e vita dissoluta su quello privato. «I soldati della fede — sostiene Frank, sempre affascinato da immagini guerriere — non possono scegliere per quale via penetrare nella fortezza. Se necessario devono esser pronti a percorrere le fognature più immonde».
Nella sua sapiente postfazione Campanini, ricostruendo la storia del testo e anche l’ambiente in cui fu elaborato da Scholem, avanza qualche riserva sulla sua interpretazione innocentista — per un trasformista di mestiere del calibro di Moses farsi credere innocente per il prestigio proprio e degli eredi era tutt’altro che impossibile. Ciò non revoca in causa il procedimento dialettico di Scholem, teorizzato già nel 1937 nello scritto La redenzione attraverso il peccato ( edito, sempre da Adelphi, nel suo libro L’idea messianica nell’ebraismo e altri saggi sulla spiritualità ebraica ). Tale dialettica passa per il concetto antinomico di “pia colpa” o di “casta meretrix”, termine rivolto al “messia femmina” Eva Frank, ma anche alla Chiesa nel suo complesso: la disattivazione della legge è l’unico modo di operare senza cedere al male prima della venuta del Messia. Un’idea non lontana dalla prospettiva paradossale di Kafka e dal pensiero di Benjamin, incrociati da Scholem anche attraverso la frequentazione di Max Brod. Ma non estranea neanche alla dialettica negativa di Adorno, che infatti teorizza la compresenza di illuminismo e mito. Tale conclusione, assunta da Scholem come chiave esplicativa della concezione sabbatiana, fu contrastata, per esempio da Jacob Taubes, come una punta avvelenata nel cuore dell’ebraismo. Se qualcuno è arrivato ad avvicinare la dottrina di Frank all’hitlerismo, Lukács ha visto nel suo nichilismo il nucleo segreto del comunismo. Ma ciò che, poco prima della morte, Scholem cercava nelle infinite metamorfosi di Moses Dobrushka era probabilmente qualcosa di più che la verità su una figura controversa. Era uno specchio deformante in cui rinvenire il tratto più estremo della propria inquietudine. © RIPRODUZIONE RISERVATA



Moses e Pico inafferrabili mistici
L’ebreo che diventò giacobino e fu ghigliottinato e l’emblema dell’Umanesimo folgorato dalla Qabbalahdi Elena Loewenthal La Stampa TuttoLibri 28.9.14

La storia è piena di figure controverse. Ambigue e inafferrabili – e per questo con i loro chiaroscuri più interessanti di quelle tutte d’un pezzo, dove non c’è nulla da scoprire. In fondo è questa la cifra dell’umanità, dove nessuno mai è solo angelo o solo demonio. Tutto sta nell’equilibrio fra l’uno e l’altro e ricostruire la storia significa soprattutto trovare quel fragile punto d’equilibrio. O di mobilità.
Le figure controverse a volte diventano protagoniste e salgono alla ribalta della storia, a volte sono talmente inafferrabili che restano in ombra anche per i posteri. Questo è certamente il caso di Moses Dobrushka (1753-1794) di cui Gershom Scholem dipinge un avvincente e documentato ritratto ora pubblicato da Adelphi nella traduzione di Elisabetta Zevi e con un saggio di Saverio Campanini. Il grande storico della mistica ebraica, colui che le ha dato il posto che le spettava nella storia letteraria e spirituale d’Israele, non a caso è affascinato dalla figura di Moses. O meglio, dalle sue tre figure, dalle sue tre vite che in quel modico lasso di tempo formano un caleidoscopio di avventure talmente improbabili che sono vere.
Perché Moses Dobrushka nasce in una famiglia ebraica in Boemia, dove gli ebrei detenevano il monopolio della vendita del tabacco – siamo nell’impero austroungarico, sotto Maria Teresa. Però è anche Franz Thomas Edler von Schoenfeld, perché nel 1778 acquista il titolo nobiliare e presumibilmente a un certo punto si converte al cristianesimo. Se non che, non molti anni dopo (siamo nel 1792, sull’onda della Rivoluzione Francese), arriva a Parigi e diventa Junius Frey, giacobino non del tutto convincente. Faceva lo scrittore, il poeta. Soprattutto il massone. Il tutto in salsa messianica, perché la sua formazione doveva molto, se non tutto, al frankismo, il movimento ebraico erede del sabbatianesimo: una sorta di originale sincretismo interreligioso, fondato sull’urgenza della venuta messianica, più o meno incarnata prima da Shabbetay Zvi e poi dal suo epigono Jacob Frank (1726-1791), di cui il nostro eroe – Moses Dobrushka – era e rimase più o meno seguace, oltre che parente.
Moses, cioè Franz Thomas, cioè Junius, era un pensatore originale: innestò nei circoli dei razionalisti illuminati una vena di misticismo, che in fondo era capacità di pensare in grande, in lontananza. E fu prolifico scrittore. Ma fu sempre guardato con sospetto, e più che mai nel suo ultimo periodo, o meglio durante la sua terza vita, quella di giacobino, insieme al fratello: «In rue d’Anjou vivono due austriaci che si fanno passare per arcipatrioti, e a questo fine spendono grosse somme di denaro nella loro sezione per soffocare ogni sospetto, e anche i loro scritti esprimono solo patriottismo. Nei diciotto mesi trascorsi in Francia hanno già cambiato nome più volte. Sono ebrei di nascita, ma mossi dall’ambizione di ottenere un titolo nobiliare si sono convertiti; molto intelligenti, sono politici di alto livello. E’ chiaro che questi uomini immorali sono spie di prim’ordine e sono al soldo della Prussia o dell’Austria, o forse di entrambe».
Nel 1793 Frey viene arrestato e il 5 aprile del 1794 viene ghigliottinato, lasciando ai posteri una vicenda tanto ombrosa quanto stupefacente di camaleontismo unito a coraggio intellettuale.
Se la vita, anzi le vite di Moses, trascorrono in sordina e ci vuole la passione critica di Scholem per stanarlo dal buio, non si può dire lo stesso di Pico della Mirandola: figura passata alla storia per la sua prodigiosa memoria, ma non soltanto. Nel 1486, ad esempio, il giovane Pico che ha solo 23 anni (e vivrà ancora non molto, fino al 1494), s’invaghisce della bella Margherita, che però è già sposata e tocca cercare di rapire. Con conseguenze fatali per tutti, in primis per il nostro che è costretto alla fuga e a un notevole esborso di denaro per farla franca. Ma che soprattutto trarrà dal fatidico incidente l’energia spirituale per scrivere il suo celebre De hominis Dignitate nonché le Conclusiones philosophicae, cabalisticae et theologicae. Ed è da questo incrocio di contrattempi e ispirazione che prende spunto il lavoro di Giulio Busi e Raphael Egbi: Giovanni Pico della Mirandola. Mito, Magia, Qabbalah.
E’ un libro denso, dalla struttura inafferrabile proprio come quella del suo protagonista: emblema dell’Umanesimo ma anche fatalmente attratto dall’alterità. Da quel pensiero sentito come estraneo, esotico e financo inquietante che si articolava nel patrimonio di testi della tradizione ebraica, in particolare della mistica. A cui lo iniziò il suo maestro Mitridate, attraverso la traduzione in latino di una immensa mole di materiali. Così, questo saggio ripercorre il pensiero di Pico in forma di lessico esteso: parole come «bacio», «gallo», «serpenti, anime, veleno» e nomi quali «Vulcano, Le Parche», «Circe» dipanano una disanima del pensiero pichiano intrecciata con la sua biografia. Perché le parole, quelle di Pico ma non solo, sono sempre cariche di una simbologia complessa e ramificata che costruisce storie su storie, attraversando universi culturali ed epoche magari distanti fra loro.
Emerge anche qui, come nel caso del plurieretico Moses, il ritratto di una figura inafferrabile, capace di incarnare i valori centrali dell’Umanesimo ma anche di esprimere ambizioni oscure, una visione del mondo tutt’altro che uniforme e coerente. E per questo assai più affascinante del monotono mnemotecnico quale lo ha tramandato il luogo comune.
La storia è piena di figure controverse. Ambigue e inafferrabili – e per questo con i loro chiaroscuri più interessanti di quelle tutte d’un pezzo, dove non c’è nulla da scoprire. In fondo è questa la cifra dell’umanità, dove nessuno mai è solo angelo o solo demonio. Tutto sta nell’equilibrio fra l’uno e l’altro e ricostruire la storia significa soprattutto trovare quel fragile punto d’equilibrio. O di mobilità.



Il cabbalista che Scholem inseguì sulla ghigliottina 
Avventure, opere e identità multiple di Moses Dobrushka
Pietro Citati Sabato 4 Ottobre, 2014 CORRIERE DELLA SERA

L’ultimo Messia ebraico, Sabbatai Zevi, nacque a Smirne nell’agosto 1626. Era il nove Av — il giorno fatidico, il giorno della distruzione del primo e del secondo Tempio, il giorno in cui secondo la leggenda rabbinica sarebbe venuto alla luce il Messia. Ancora giovane, egli sentì una voce che gli diceva: «Tu sei il Salvatore di Israele, il Messia figlio di Davide, il Messia del Dio di Giacobbe». Secondo la tradizione cabbalistica, era un’anima adombrata, oscurata, macchiata dal male. Non doveva combattere il male, come facevano gli uomini della Legge. Ardente e inflessibile, segreto e astuto, doveva commettere il male con animo puro per annullarlo ed elevarlo sino alla sfera della santità. Così fece. In un raptus che qualsiasi ebreo avrebbe trovato blasfemo, Sabbatai Zevi scrisse: «Io sono il Messia, sono il Signore, vostro Dio, Sabbatai Zevi». Poi abolì tutte le leggi morali, tutti i riti proclamati dalla Torà , nei quali gli Ebrei avevano chiuso per secoli l’essenza della religione. 
L’8 febbraio 1666, mentre stava per giungere a Costantinopoli, il caicco di Sabbatai Zevi fu abbordato da due navi turche. Sabbatai venne condotto alla corte, dove affascinò il vizir, come più tardi il Sultano. Nel settembre partecipò alla riunione del Consiglio Privato: gli venne proposto di apostatare o di essere torturato a morte. Il Messia tradì. Era angustiato e straziato: stava per perdere la distinzione tra la realtà e la simulazione: tra le sue vesti di turco e la sua anima di ebreo. Come Mosè aveva vissuto alla corte del Faraone, egli doveva vivere sotto le apparenze di un turco per redimere il proprio popolo: scendere nella tenebra per portarla alla luce. La fede degli Ebrei conobbe uno scandalo più tremendo di quello dei Cristiani davanti alla Croce: il Messia apostata. Cosa bisognava fare, pensarono tutti i ghetti? Tradire? La maggior parte pensava che Sabbatai Zevi aveva peccato a nome di ciascuno. Altri credevano che l’apostasia doveva essere universale. Tutti dovevano scendere insieme a Sabbatai Zevi nell’abisso del tradimento e del male. 
Alla storia di Sabbatai Zevi, è dedicato il capolavoro di Gershom Scholem: uno dei libri supremi della storiografia del ventesimo secolo, tanto ricco di pensiero religioso–filosofico quanto di doni letterari: Sabbetay Sevi. Il messia mistico (Einaudi). Scholem era affascinato dalla mescolanza, in Sabbatai Zevi, del dramma del tradimento con l’amore del doppio, la fantasia e l’illusione. In altre ricerche e nelle Tre vite di Moses Dobrushka , appena pubblicato da Adelphi (a cura di Saverio Campanini e di Elisabetta Zevi, p. 229, e 22), Scholem ha studiato il seguito della mistica sabbatiana. 
Moses Dobrushka (alias Franz Thomas von Schönfeld, alias Sigmund Gottlob Junius Frey) nacque a Brünn, in Moravia, il 12 luglio 1753. La famiglia faceva parte di un gruppo di ebrei versati nel commercio dei tabacchi, che ebbe un ruolo importantissimo nella storia economica austriaca durante il regno di Maria Teresa. La madre era l’influente patrona dei sabbatiani, i quali avevano assunto un carattere sempre più radicale in Polonia, Podolia, Boemia e Moravia. 
Come il suo grande modello, Moses Dobrushka visse sotto il segno del doppio, adottando una serie di volti e di maschere, che mutava secondo i pensieri e le circostanze. Nella giovinezza ebbe un’educazione strettamente rabbinica: ma la violò aderendo, come la madre, alla cabbala mistica. Alla fine del dicembre 1775 si convertì al cristianesimo: così fecero dieci dei suoi fratelli. Si stabilì a Vienna: venne introdotto nei circoli massonici illuministi che sostenevano la politica riformatrice dell’imperatore Giuseppe II; e pubblicò un lungo poema Sulla morte di Maria Teresa, dove si rivolgeva al giovane imperatore con versi esaltati. Ebbe un ruolo di primo piano nell’approvvigionamento dell’esercito austriaco durante la guerra contro la Turchia, accumulando una grande fortuna. Intanto aderiva alla massoneria esoterica, di tendenze mistiche e iniziatiche, ispirandosi alla teosofia di Jacob Böhme e di Louis-Claude de Saint-Martin, all’alchimia, alle pratiche magiche e alla cabbala ebraica. 
Quando in Francia scoppiò la Rivoluzione, Moses Dobrushka lasciò entusiasta l’Austria per Strasburgo e poi per Parigi: secondo un’altra versione, vi sarebbe giunto come un agente segreto dell’imperatore, per conoscere e corrompere i rivoluzionari. In Francia il suo secondo nome, Schönfeld, sparì, e apparve il terzo nome: Sigmund Gottlob Junius Frey. Nell’aprile 1792 scrisse al poeta tedesco Johann Heinrich Voss, traduttore di Omero: «Sono a Strasburgo, cioè al settimo cielo, poiché sono fermamente convinto che vivere nella libertà sia come vivere il cielo sulla terra». 
Giunto a Parigi il 10 luglio 1792, prese in affitto una casa sulla elegantissima rue d’Anjou. Frequentava tutti gli ambienti: i monarchici, i girondini e specialmente i giacobini, che apprezzavano la sontuosità e la profusione della sua mensa. Le stanze erano decorate con busti di Bruto e di Cicerone, Voltaire e Rousseau. Non usciva mai senza indossare la carmagnola e un superbo berretto rosso ornato di coccarde. 
Non fu creduto. Il gruppo di Robespierre sostenne che lui e il fratello erano «mostri degni di servire la causa dei tiranni per la loro profonda ipocrisia»: dei «truffatori, la cui consumata arte del travestimento ne aveva fatto utili strumenti nelle mani dei tiranni». Nel novembre 1793 furono cacciati dal club dei Giacobini, e condotti a giudizio dinanzi alla Convenzione, insieme a Danton e ai suoi amici, come agenti dell’Inghilterra e dell’Austria. Il 5 ottobre 1794 Moses Dobrushka fu condannato a morte e ghigliottinato nella piazza della Rivoluzione. Almeno nella morte ebbe un volto solo, tagliato dal boia. Non sapremo mai quali furono i suoi veri pensieri, ammesso che siano mai esistiti. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Nessun commento: