lunedì 1 settembre 2014

Un male postmoderno

Arturo Mazzarella: Il male. Etica ed estetica nella società contemporanea, Bollati Boringhieri, pp. 160, euro 14

Risvolto
C’era una volta il male. Quello antico che straziava Giobbe e quello moderno, più multiforme perché scaturito dalla perfidia del cuore, o indotto dalla voluttà di dannazione, oppure amalgamato con il bene nella chimica dei sentimenti. Sotto qualsiasi aspetto si manifestasse, conservava un che di scandaloso, demoniaco, seduttivo. Baudelaire gli riconosceva addirittura «la grazia dell’orrore». Oggi è ancora così? L’acuta perizia critica condotta da Arturo Mazzarella produce un’altra risultanza: il male ha perso il proprio stigma maledetto – la trasgressività morale, contro cui era ancora possibile il titanismo della ribellione – per risolversi in una tonalità estetica, ossia percettiva, sensibile, che depotenzia e atrofizza, avvolgendo vittime e carnefici in un’unica spirale di irresponsabilità. È la molecolare insensatezza che intride magistralmente i romanzi di Michel Houellebecq, Bret Easton Ellis, Roberto Bolaño ed Emmanuel Carrère, i film di Lars von Trier, Gus Van Sant e Michael Haneke, i fotodipinti di Gerhard Richter e le installazioni di Maurizio Cattelan. Fibre di parole e di immagini che rappresentano la nuova fenomenologia del male.


C’era una volta il male demoniaco e seduttivo Ora resta il nichilismo
30 ago 2014 Libero MAURIZIO SCHOEPFLIN
Dov’è finito il male? Se ne ha ancora notizia? Si è ancora in grado di distinguerlo dal bene? Patrick, il protagonista di American Psycho, il controverso romanzo pubblicato nel 1991 da Bret Easton Ellis, risponde negativamente: «La mia coscienza, la mia pietà, le mie speranze sono scomparse tanto tempo fa […] ammesso che siano mai esistite. Non ci sono più barriere da superare […] sono oltre tutto il dolore che ho causato e anche oltre la totale indifferenza che ho provato. Ciò nonostante mi tengo ancora saldo a un’unica, squallida verità: non si salva nessuno, non c'è redenzione per nessuno […] non c’è catarsi. Questa mia confessione non significa niente».
Tali espressioni, che sembrano riecheggiare il nichilismo assoluto di Max Stirner, sono citate da Arturo Mazzarella nel suo volume Il male (Bollati Boringhieri, pp. 160, euro 14), in cui viene proposta una ricognizione del problema del male che approda alla conclusione per cui il male stesso «ha perso il proprio stigma maledetto - la trasgressività morale, contro cui ancora era possibile il titanismo della ribellione - per risolversi in una tonalità estetica, ossia percettiva, sensibile, che depotenzia e atrofizza, avvolgendo vittime e carnefici in un’unica spirale di irresponsabilità».
Mazzarella si muove con dimestichezza all’interno di un perimetro ove troviamo i romanzi di Michel Houellebecq e Roberto Bolaño, i film di Lars von Trier e Michael Haneke, le produzioni di Gerhard Richter e Maurizio Cattelan, tracciando un percorso articolato che mette in primo piano la «molecolare insensatezza» di cui sono intrisi. Oltre ai citati, nel libro compaiono vari pezzi da novanta della cultura occidentale, quali Kierkegaard, Dostoevskij, Baudelaire, Kafka e Kant, il primo a essere ricordato, per aver dato alle stampe nel 1793 un’opera che Mazzarella giudica di valore epocale nello sviluppo della riflessione sul tema del male, La religione entro i limiti della sola ragione, nella quale il sommo filosofo di Königsberg svolge alcune memorabili riflessioni su quello che egli definì il «male radicale», ovvero il principio cattivo che, nella natura umana, coesiste accanto a quello buono.
A tale riguardo, Mazzarella sostiene che se Kant ha ragione nell’affermare che esiste una tendenza al male intimamente legata alla natura umana, si potrebbe giungere a ritenerla una sorta di inestinguibile forza propulsiva, cosa che, negli ultimi anni, sarebbe stata in certo modo descritta e provata «da un ampio ventaglio di esperienze artistiche». A giudizio di Kant, il male non possiede alcuna positività e l’uomo deve impegnarsi per estirparlo da se stesso: tale compito si rivela talmente arduo che il pensatore prussiano sembra propendere verso l’accettazione della necessità di credere nell’intervento di Dio per giungere alla sconfitta della negatività. Kant, che pur rimane un razionalista, sembra volerci dire che la sola ragione non è in grado di spiegare né la presenza del male né come esso possa essere vinto.

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