Federico Rampini: Rete padrona. Amazon Google & co, Feltrinelli
Risvolto
“Mi trasferii a San Francisco nel 2000 per vivere nel cuore della
Silicon Valley la prima rivoluzionedi Internet. Ci ritorno oggi da New
York e ho
le vertigini, e un senso d’inquietudine. La velocità del cambiamento
digitale è stata superiore a quello che ci aspettavamo e ormai la Rete
penetra in ogni angolo della nostra vita: il lavoro, il tempo libero,
l’organizzazione del dibattito politico e della protesta sociale,
perfino le nostre relazioni sociali e i nostri affetti. Ma la Rete
padrona ha gettato la maschera. La sua realtà quotidiana è molto diversa
dalle visioni degli idealisti libertari che progettavano un nuovo mondo
di sapere e opportunità alla portata di tutti.
I nuovi Padroni dell’Universo si chiamano Apple e Google, Facebook,
Amazon e Twitter. Al loro fianco, la National Security Agency, il Grande
Fratello dell’era digitale. E poi i regimi autoritari, dalla Cina alla
Russia, che hanno imparato a padroneggiare a loro volta le tecnologie e
ormai manipolano
la natura stessa di Internet. Sia chiaro: guai a disprezzare i benefici
a cui ci siamo assuefatti, nessuno di noi vorrebbe veramente tornare
indietro. Ma il tecno-totalitarismo che avanza non è neutro né
innocente. Con questo libro vi porto in viaggio con me nella Rete
padrona. È un viaggio nel tempo, per confrontare le speranze e i
progetti più generosi di un ventennio fa con le priorità reali che
plasmano oggi il mondo delle tecnologie. È un viaggio nei luoghi e nei
paesaggi della California dove ho vissuto a lungo, che ritrovo sempre
più affascinanti, ma in preda a una feroce divaricazione sociale tra le
élite digitali e il resto della società. È un viaggio tra i personaggi
che hanno segnato quest’epoca, da Bill Gates a Steve Jobs, a Mark
Zuckerberg, e tra tanti altri profeti e visionari meno noti, che già
stanno progettando le prossime fasi dell’innovazione.
Perché capire quel che sta diventando la Rete è ormai indispensabile
per cogliere la vera natura del capitalismo contemporaneo.”
Non esiste la cyber utopia
Web. Nel libro di Federico Rampini, «Rete padrona, Amazon Google &co», uscito per Feltrinelli, ci si inoltra fra le pieghe inquietanti della rete e del suo controllo
Simone Pieranni, il Manifesto 30.9.2014
In certi momenti Federico Rampini ci va molto vicino: quando descrive i meccanismi di Amazon e Facebook o il cambiamento dei gusti e di utilizzo di prodotti, come la musica con Apple o in molti esempi che fornisce su Google. Poi, però, si ferma, perdendosi in esempi e considerazioni superficiali. Eppure il giornalista di «Repubblica», senza volerlo, o meglio, senza esplicitarlo, parla esattamente del pericolo più grande che arriva con il «futuro tecnologico» disegnato da guru e marketing expert della Silicon Valley: la «delega tecnologica». I social network ci sottopongono a quello che viene definito il potere del «default», accettare decisioni prese per noi da altri; decisioni che subiamo per pigrizia, «fiducia nel mezzo», poca intraprendenza o perché, in fondo, ci convengono.
Rampini scrive di questo sentimento, senza mai nominarlo, ma sbaglia il soggetto: non è che questa tendenza alla delega sia nata con Facebook, Apple o Amazon. Nella vita al di fuori dello schermo accade già, e non da poco tempo. Quanti di noi si affidano alla rappresentanza di chi prende le decisioni nel nostro paese o nel mondo? Nel suo libro, Rete padrona, Amazon Google &co. Il volto oscuro della rivoluzione digitale (Feltrinelli, pp.288, euro 18) Federico Rampini tenta di tenere un equilibrio tra lo sballo provato a indossare i Google Glass e il rischio che questa tecnologia comporta. Un discorso piuttosto comune, condotto con stile (Rampini sa scrivere, è indubbio), ricco di esempi (alcuni forse eccessivi e poco significativi, come quelli relativi a moglie e figlia): la tecnologia ha grandi possibilità, «ma anche» pericoli nascosti.
Il magma dei Big Data
La tecnologia ci fa vivere le informazioni in real time, «ma anche» ci rende schiavi, eccetera. La tesi di fondo è che la tecnologia, il suo utilizzo e il suo potere, finiscono per diventare importanti non solo nella vita di ogni singolo individuo, «ma anche» nei rapporti tra grandi potenze. Tutto il potere dei vari Google, Apple, Amazon, è in grado di scuotere equilibri internazionali, portando all’estrema importanza un fattore che fino a poco tempo fa veniva quasi snobbato: la sicurezza. E con essa la privacy. A questo proposito Rampini dedica davvero troppo poco spazio allo scandalo del Datagate, salvando Obama dalle grinfie dei suoi detrattori, sostenendo che la Casa Bianca «sapeva poco».
In questo magma di Big Data, «trasparenza» e proiezioni commerciali, Rampini «vede» il futuro mercato di tutto quanto riguarderà la sicurezza delle nostre azioni on line, ma lo raccoglie intorno a due mondi che tenta di dividere, ignorandone congruità e finalità omologhe. Nelle pagine di Rete padrona, Rampini tenta di tratteggiare il confronto tra due forme «ambigue» di visione della Rete: quella dei Big (Facebook, Google, ecc) che cercano il monopolio, il controllo, la creazione di ontologie per conquistarsi tutta la torta disponibile e i suoi «oppositori». Partiamo dai primi: questi nuovi padroni sono in lotta tra loro, coinvolgono governi e Stati e hanno come principale nemico «l’Internazionale» dei nuovi anarchici smanettoni (Wikileaks, Anonymous, Snowden). Precisiamo un punto: tutta la prima parte, riguardante l’arroganza dei grandi, la conosciamo. Specifichiamo solo un dato di cui Rampini sembra non ricordarsi o essersi dimenticato.
Il giornalista di Repubblica ricorda il passato idilliaco di una Silicon Valley in cui si respirava lo «spirito libertario». A pagina 197 scrive: «è possibile un ritorno alle origini della Silicon Valley, quella che ebbe un’anima libertaria e anticapitalista?». Peccato che questo passato non sia mai esistito, tutto quanto è uscito dalla Silicon Valley è cresciuto nel brodo dei «right libertarians», ovvero gli anarco-capitalisti. Persone con montagne di soldi che sognavano un’utopia digitale, che, in effetti, oggi pare essere piuttosto vicina. Si ricorda Rampini chi ha finanziato Paypal, Facebook e altri? Tutti quei progetti che vengono definiti «inizialmente anticapitalisti»?
Al riguardo, ci sono montagne di articoli on line ed è importante ricordare il libro del collettivo Ippolita, Nell’acquario di Facebook, dove sono ben dettagliate le scorribande capitalistiche dei fondi con cui sono nati moltissimi dei giganti di oggi. Descrivere questo passato «libertario» è dunque un errore, che non permette di comprendere la peculiarità e l’agire consueto di questi giganti. Un secondo – grave – errore di Rampini è quello di raccogliere nello stesso frame chi, apparentemente, si pone «contro» i «padroni della rete». Come si può definire libertario, ad esempio, Assange o Wikileaks, che ha una concezione radicalmente gerarchica del potere e che ha sfruttato, alla stessa stregua di Apple, i meccanismi contorti e spesso fuorvianti dell’odierna società dello spettacolo?
Perché Rampini non ricorda che i siti che gestiscono leaks, sono da sempre molto più sicuri e libertari (nel senso vero) di Wikileaks? Forse perché lo stesso Rampini è in questo palcoscenico su cui si muovono tendenze diverse dello stesso approccio: una cyber utopia totalitaria, perfetto vestito per le contemporanee società. Parlare di «trasparenza» nell’era dei social network è rischioso (per quanto Rampini sia molto critico sia con Assange, sia con Snowden e abbia posizioni difensive nei confronti di Obama) e andrebbe fatto, anche in un’opera pop, senza semplificare troppo.
L’affaire Foxconn
La «trasparenza» è, infatti, l’ideologia dominante tanto di Facebook, quanto di Wikileaks e accomuna tutti gli attori globali, impegnati nella nuova guerra sui dati. Semplificando troppo, fino a banalizzare, si ottiene l’effetto contrario: anziché spiegare, si aprono buchi neri nella comprensione anche di un libro divulgativo. Infine, un dettaglio specialistico: Rampini descrive le malefatte Apple, ricordando il caso Foxconn in Cina. Il giornalista ricorda l’opera di Mike Daisey che, in uno spettacolo teatrale, aveva raccontato quanto raccolto dai lavoratori cinesi della Foxconn.
Manca un piccolo dettaglio (che non esenta Apple da gravi responsabilità in termini di diritti dei lavoratori): a seguito di polemiche, Daisey ha ammesso di avere completamente inventato alcuni dettagli dei suoi
Le tecnologie del controllo di Apple e Google
IOS 8, l’ultima versione del sistema operativo montato dai
«melafonini», presenta infatti una serie di nuove funzionalità
concepite appositamente per garantire una maggior sicurezza alle
comunicazioni e ai dati personali dell’utente. Un esempio
è l’introduzione della
full disk encryption: una sorta di
cassaforte virtuale che protegge le informazioni archiviate
all’interno di un iPhone e che può essere aperta solo dal
proprietario del dispositivo con una password da lui impostata.
Un sistema di cifratura blindato, che la stessa Apple non potrebbe
scardinare, nemmeno di fronte ad eventuali richieste di
collaborazione da parte di forze di polizia e agenzie di
law enforcement impegnate in indagini penali
.
Un diffuso scetticismo
Non passa neppure un giorno e Google, principale concorrente di
Cupertino nel mercato degli smartphone, annuncia che non sarà da
meno. Dalla prossima versione di Android (nome in codice L)
«la cifratura verrà abilitata automaticamente — ha dichiarato il
portoavoce Niki Christoff -. I nostri clienti non dovranno neppure
pensare a come attivarla».
Nonostante le promesse sbandierate a mezzo stampa da Christoff e le
solenni dichiarazioni di intenti fatte da Cook, lo scetticismo
serpeggia tra gli addetti ai lavori. «Non vedo che interesse dovrebbe
avere Google a rendere i suoi servizi privacy enabling —
sostiene Claudio Nex Guarnieri, esperto di sicurezza informatica
e attivista per i diritti digitali -. È contro il suo modello
economico». Una larga fetta degli introiti di Big G deriva infatti
dalla vendita di pubblicità personalizzate, ritagliate a misura
d’utente, grazie a un costante monitoraggio delle sue attività
on-line. E per quanto riguarda Apple? Il giudizio di «Nex» non cambia
di molto. Sebbene il ricercatore ammetta che «i miglioramenti
introdotti da iOS 8 siano interessanti», queste sono tutt’altro che
una panacea ai mali del tecno controllo dilagante. Milioni di
persone utilizzano infatti in maniera assolutamente
inconsapevole servizi come iCloud, un software che replica in modo
automatico sui server di Cupertino fotografie, filmati, rubriche
e messaggi di testo contenuti nelle memorie di iPhone e iPad.
«Apple può accedere a quei dati in qualsiasi momento e per qualsiasi
motivo. E per quanto mi riguarda — conclude Guarnieri — resta un partner del progetto Prism».
Il declino del Silicon Valley Consensus
Nutrono perplessità simili anche i mediattivisti di Av.A.Na (acronimo di Avviso Ai Naviganti), storico Hacklab del centro sociale Forte Prenestino di Roma. «Rispediamo
l’invito di Cook al mittente. Perché mai dovremmo fidarci?». Gli
hacker capitolini in particolare puntano il dito contro la
chiusura dei sistemi operativi targati Apple e Google: «per
definizione un sistema sicuro deve essere analizzabile». In altre
parole, il suo codice sorgente deve essere disponibile allo
scrutinio di quegli sviluppatori intenzionati a revisionarlo
per scovarvi eventuali malfunzionamenti o vulnerabilità. Ios
non soddisfa questa condizione, Android solo parzialmente.
C’è poi un altro problema: l’hardware, ovvero le componenti fisiche
del cellulare, che gli smanettoni del Forte definiscono «un
colabrodo». Già, perché «la rete telefonica non solo fornisce un
tracciamento dettagliato degli spostamenti e delle relazioni di
ogni individuo, ma i circuiti collegarvisi sono in grado di
scavalcare ogni precauzione adoperata dal sistema operativo».
Fantascienza? Niente affatto. Si tratta di un’ipotesi già verificata
a febbraio dai ricercatori della Free Software Foundation.
Che il Silicon Valley Consensus sia colato a picco dopo il Datagate non è un mistero. Proprio quest’estate un rapporto presentato dal New America Foundation’s Open Technology Institute
aveva evidenziato come la fine della privacy individuale fosse
solo una delle conseguenze della sorveglianza di massa. Altrettanto
significativa risultava essere la perdita di credibilità
dell’industria tecnologica statunitense. Un danno d’immagine con
ricadute direttamente economiche, dato che «per Google
ed Apple la fiducia degli utenti è un bene da preservare — spiegano
gli hacker di Av.A.Na. — Non dimentichiamoci che queste aziende
traggono profitto dalle nostre comunicazioni, dai dati che
immettiamo sulle loro piattaforme. Se smettiamo di farlo perché la
loro reputazione crolla, alla lunga anche i loro bilanci potrebbero
fare la stessa fine. Un utente spensierato invece comunica di più.
E quindi produce di più».
Un escamotage cosmetico
E in questo senso, oltre alle rivelazioni di Edward Snowden, non sembra aver giovato neppure il cosiddetto scandalo Fappening.
Il 31 agosto centinaia di foto esplicite sono state
indebitamente sottratte dagli account iCloud di vip e personaggi
del mondo dello spettacolo per poi essere riversate in rete. Tra le
vittime anche la modella Kate Upton e l’attrice Jennifer Lawrence:
celebrità internazionali a cui basta un tweet per influenzare
i gusti e le preferenze commerciali di milioni di consumatori.
Adeguatamente contestualizzata, la «svolta» di Mountain View
e Cupertino sembra quindi più un escamotage cosmetico che un
effettivo tentativo di rafforzare la privacy dei propri utenti:
una strategia di marketing dispiegata per tranquillizzare
i clienti e allineare il brand aziendale ai timori di un pubblico
globale, turbato dallo stillicidio quotidiano di notizie che
testimonia la progressiva dissoluzione di ogni sfera d’intimità.
Nel solco tracciato da un bisogno di riservatezza sempre più
diffuso e palpabile, si fa strada poco alla volta un nuovo trend
economico. Giorno dopo giorno prende piede un vero e proprio mercato
della privacy, chiamato a fare le veci di quegli strumenti
giuridici tradizionali dimostratisi inadeguati a difendere
l’individuo dallo sguardo pervasivo dell’occhio elettronico.
Non si contano più ormai le app per smartphone, vendute con la
promessa di tutelare le comunicazioni degli utenti da orecchie
indiscrete; impazzano i blackphone(telefonini spacciati come dispositivi a prova di intercettazione); nascono addirittura iniziative di crowdfunding per finanziare capi di abbigliamento fatti con tessuti in grado di schermare tablet e cellulari.
Che tali prodotti siano soluzioni efficaci conta fino a un certo
punto: il loro valore risiede piuttosto negli immaginari che sono in
grado di veicolare. La lotta al Grande Fratello diventa un business
e può essere intrapresa semplicemente acquistando un gadget su
Ebay. «Da questo punto di vista — affermano gli hacker di Av.A.Na — la
privacy sta ormai diventando una moda». Google ed Apple l’hanno
capito bene. «Queste multinazionali, insieme ai loro prodotti,
vendono un sistema fideistico di valori da loro stabilito. Come se
fosse un software, lo aggiornano ogni volta che lanciano sul mercato
un nuovo sistema operativo o un nuovo telefono». Il risultato,
concludono, è che «l’autonomia dell’individuo si riduce ad una scelta
acritica tra prodotti».
La corsa alla crittografia
Ma la guerra commerciale tra Apple e Google è anche spia di
profonde mutazioni che stanno investendo le fondamenta
giuridiche del concetto di sicurezza. «In passato questa
veniva considerata prioritaria rispetto alla privacy — spiega
l’avvocato Fulvio Sarzana, esperto di diritto dell’informazione -. Si
trattava di una nozione di tipo collettivo e la sua formulazione
era una prerogativa delle istituzioni statali». Dopo il Datagate
sono però intervenute trasformazioni di tipo tecnologico
e normativo che hanno messo in discussione la validità di tale
assunto. La corsa alla crittografia nell’industria tecnologica, la
sua adozione da parte di milioni di persone, l’acuirsi della crisi di
legittimità degli attori politici tradizionali; tutti elementi
che indicano come l’idea di sicurezza vada sempre più declinandosi
su un piano individuale. Essa non è più codificata dal
legislatore, ma erogata sotto forma di servizio da un’impresa
privata cui viene corrisposto un compenso economico. Stesso
discorso vale per la privacy. «Pensiamo a quanto accade intorno al
tema del diritto all’oblio — dice il giurista -. Anche in quel caso
Google svolge un ruolo monopolistico: è solo lui a stabilire come
e quando concederlo». Lo spostamento di competenze da entità
statali a sovrastatali si fa completo, «così come si
sposta anche la questione della tutela individuale del cittadino:
oggi è necessario capire come difendersi dagli abusi di potere delle
grandi corporation, oltre che da quelli dello Stato». Perso il
monopolio di privacy, perso anche quello della sicurezza, al
vecchio Leviatano, sostiene Sarzana, «non rimane che quello della repressione».
Il giornalista racconta come è cambiata la rivoluzione digitale e come funzionano le logiche dei nuovi colossi mangiatuttoPanorama 3 settembre 2014
La profezia nefasta del
giornalista: Internet, da infrastruttura collettiva a strumento di
controllo che ci ha resi “servi della gleba”Silvia Malnati Wired
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