di Ernesto Galli della Loggia Corriere 25.10.14
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Il premier alla Leopolda attacca la Cgil: non ci bloccano, quel tempo è finito
Lo scontro sulla manifestazione di oggi. «Nel 2011 capii che questo Paese era scalabile»
di Francesco Alberti Corriere 25.10.14
FIRENZE Si sono inventati perfino la parete antigufi. Una serie di poster dedicati alle previsioni clamorosamente smentite dalla storia: da quello sui Beatles («Non ci piace il loro sound e la musica con le chitarre è in declino» parole della Decca Recording Company quando nel 1962 rifiutò di metterli sotto contratto) a quello del direttore di giornale che licenziò Walt Disney («Manca d’immaginazione e non ha idee originali»). Storia di incompresi, che hanno poi fatto la storia. E naturalmente ogni riferimento alla cosiddetta «rivoluzione» renziana è assolutamente voluto.
La Leopolda numero 5, che si è aperta ieri sera nella ottocentesca ex stazione ferroviaria nella sua prima versione di governo (o di potere, come insinuano le solite malelingue), prima che «un’incubatrice di idee» o una sfilata di vip, vuole essere una risposta, e forte, alla piazza della Cgil che sfilerà oggi a Roma contro il Jobs Act. Matteo Renzi, sbarcato ieri sera a Firenze direttamente da Bruxelles, ha affrontato di petto la questione con toni volutamente duri: «La piazza della Cgil si caratterizza come protesta sindacale, ma anche politica contro di me e contro il mio governo». Chiaro lo schema messo in campo dal premier-segretario: loro e noi, due realtà distanti e diverse. «La Leopolda — ha proseguito — è un’altra cosa: qui non si protesta, ma si propone».
Le parole di Vendola, che si è augurato che la piazza romana sia l’antipasto di uno sciopero generale, sono la conferma — agli occhi del premier — della deriva sempre più politica che ha assunto la manifestazione di piazza San Giovanni. E allora, pur esprimendo «grande rispetto per la Camusso e la Cgil», il capo del governo ha affondato il colpo: «È finito il tempo in cui una manifestazione blocca il governo e il Paese. Così come ascoltiamo il milione di persone che saranno in piazza, così ascoltiamo anche i 60 milioni di italiani che non ci saranno».
È una Leopolda così, forse diversa da quella che sognava Renzi. Rottamato il rottamabile, ora il problema è portare il Paese fuori dalla secche. Lui fa professione di fede: «Eravamo un’allegra brigata di sognatori, ora siamo qui e non molliamo…». Volare alto è l’imperativo. Basta un’occhiata al palcoscenico in stile vintage — con tavoli da falegname, vecchie bici, tv anni 60, voliera e palloni — la cui ispirazione non è uno scantinato qualsiasi, ma il mitico garage di Steve Jobs e della sua Apple. Dal palco Renzi carica i suoi, anche se il pensiero resta fisso sulla Cgil: «Già nel 2010 c’era l’usanza, quando noi facevamo la Leopolda, di fare un evento di controprogrammazione. Quest’anno che siamo al vertice del Pd pensavamo non ci fosse nulla: e invece ecco la Cgil, che ringraziamo…». Quindi un pensiero per l’amico Civati, con il quale tutto ebbe inizio sotto queste volte: «Pippo, la Leopolda è comunque anche casa tua».
Per la verità, di tracce di Pd, nell’ex ferrovia, non se ne vede una neanche per sbaglio. «La verità — obietta Renzi — è che la nostra gente crede nella politica in modo diverso rispetto al passato». Sarà. L’unico collegamento con la tradizione del partito è la passione dei 500 volontari che tanto ricorda le mitiche «rezdore» delle Feste dell’Unità. Renzi ripercorre le 4 passate edizioni: «Quella del 2011 mi ha fatto capire che questo Paese era scalabile. Quella del 2012, perse le primarie, è stata una palata in faccia, ma salutare». Quindi un passaggio sul patto del Nazareno: «Lo difendo in tutte le salse: se avete dei dubbi sulla sua bontà, ricordate che Minzolini, Razzi e Scilipoti non l’hanno votato…».
Oggi sarà la giornata dei 100 tavoli. Renzi gigioneggia: «Un tempo venivo qui in bici, ora un po’ pomposamente dal vertice di Bruxelles: qualcosa la Leopolda ha davvero cambiato…».
Renzi e il mondo capovolto
di Giovanni Mazzetti Docente di Economia Politica. Università della Calabria il Fatto 25.10.14
La capacità di distinguere quello che ciascun individuo pretende di essere e ciò che realmente rappresenta è uno dei segni della raggiunta maturità personale. Cercherò di spiegare perché Matteo Renzi ha una visione capovolta della sua stessa azione, con la conseguenza che questa produce e produrrà effetti opposti rispetto a quelli positivi da lui immaginati, finendo con l’inguaiare tutti noi. Un capovolgimento che è ben espresso anche dal tema della Leopolda che recita: “Il futuro è solo l’inizio”.
Cominciamo dall’esordio. Matteo Renzi ha presentato se stesso sulla scena nazionale come un “rottamatore”. Questa figura allegorica è stata mutuata da una pratica mercantile in vigore negli anni passati, grazie alla quale chi aveva un’auto malandata poteva rivolgersi ai rivenditori facendosela valutare per un certo ammontare, che veniva poi scalato dal prezzo d’acquisto di una nuova. Ne è in qualche modo scaturita la convinzione che il rottamare corrisponda a nient’altro che al sostituire un’auto vecchia con una nuova fiammante. Ma questo è l’effetto di una distorsione dell’esperienza. In realtà il rottamatore non è né il concessionario che attua l’operazione di compravendita, né il produttore dell’auto nuova che va a sostituire la vecchia. Il rottamato-re è colui che riceve il sottoprodotto dei comportamenti altrui, in quanto si limita a far rottami del veicolo scartato. Dalle sue mani escono, pertanto, cose che non hanno più alcuna utilità. Ora, è certo che Renzi fantasticava di essere in grado di mettere magicamente nelle mani della società le chiavi di un futuro nuovo fiammante, ma nella realtà, come dimostra il disastro della fuga in massa degli iscritti dal Pd, si è limitato a smantellare quel poco di un organismo sociale con qualche residua capacità orientativa, che cercava maldestramente di sopravvivere nella bufera.
RENZI, LUNGI dal convenire che la fuga in massa dei militanti costituisce un problema, ha sciorinato subito la “giustificazione”: sarà pure sparito qualche centinaio di migliaia di militanti del suo partito, ma sono stati guadagnati alla sua causa milioni di elettori! Questi rappresenterebbero la “macchina nuova” che lui consegnerebbe alla società. Ma solo degli ignoranti possono considerare gli elettori come un qualcosa di equivalente ai membri di un organismo sociale come un partito, anche se le sue radici storiche si stavano rinsecchendo.
La differenza che passa tra l’appartenenza a un organismo sociale come un partito e il votare qualcuno è, ai nostri giorni, la stessa che passa tra il convivere o lo sposarsi con una persona per costruire un progetto di vita e lo sfogarsi con una prostituta per un piacere occasionale. Pertanto, quando Renzi e i suoi seguaci vantano i risultati delle elezioni europee, e minimizzano gli effetti devastanti delle loro iniziative sull’organismo del partito, ogni persona dotata di discernimento percepisce il millanta-mento e rifiuta di accodarsi alla processione dei consenzienti. Un secondo indizio del procedere capovolto di Renzi sta nella sua presunzione di “sapere perfettamente (!) quello che c’è da fare”, cosicché non dovrebbe confrontarsi con un problema, bensì imporre una soluzione che gli è nota. Come molti “giovanotti” rampanti, Matteo Renzi pensa veramente che ciò che ha in mente abbia natura diversa dalle proposte e dagli interventi di quelli che l’hanno preceduto negli ultimi decenni. Ma come recita un antico detto francese “plus ça change, plus c’est la même chose”. Se conoscesse un po’ di storia, Renzi saprebbe che nel 1929 dopo il crollo di Borsa, il presidente Hoover negli Usa abbatté le imposte per ridare fiato agli investimenti privati, ma non ottenne alcun effetto pratico; così come nel 1975 il premier Wilson in Inghilterra fece la stessa cosa, finendo a sua volta in un cul de sac che lo costrinse alle dimissioni. D’altra parte, il tagliare le tasse era lo slogan preferito di Reagan, della Thatcher e poi di Berlusconi.
È superfluo elencare qui gli altri mille indizi che testimoniano del fatto che ciò che Renzi cerca di presentare come novità mai pensate sono in realtà ferri vecchi culturali. Ma uno di questi indizi è particolarmente chiarificatore. Dopo cento anni di dibattito sul problema, la Costituzione italiana, come quelle di altri paesi europei, ha riconosciuto nel 1948 che “il lavoro è un diritto”. Poiché la vita sociale è fondata sul lavoro deve essere garantita a tutti la certezza di poter lavorare. Ma Renzi non è convinto di tutto ciò e ha proclamato apertamente che “il lavoro non è un diritto, bensì un dovere”! Da questo punto di vista la Costituzione ha le idee ben più chiare di Renzi, visto che non scinde affatto (art. 4) il diritto dal dovere.
È INFATTI proprio perché la Repubblica è fondata sul lavoro, che da un lato riconosce ai cittadini un diritto al lavoro, dall’altro li chiama al dovere di svolgere un’attività che arricchisca materialmente e culturalmente la società. Che nessuno, nella direzione del Pd, sia scoppiato a ridere di fronte all’affermazione, la dice lunga sull’amnesia sociale che ha colpito quel partito. E il fatto che Renzi abbia riscosso un successo elettorale nonostante i discorsi che fa ci dice che la società tutta è stata colpita da una sorta di Alzheimer, che le ha fatto rimuovere la propria storia e la propria cultura, con la conseguenza di una disintegrazione della sua stessa identità.
di Giovanni De Luna La Stampa 25.10.14
Il conflitto tra il governo e la Cgil spalanca intere praterie a sinistra del Pd. E’ la conseguenza della scelta di Renzi di puntare sul partito pigliatutto, spostandosi verso il centro, inglobando gli uomini di Alfano ed esercitando una fortissima attrazione verso
Forza Italia.
Di fatto, il partito a vocazione maggioritaria tende a svuotare di senso il bipolarismo su cui si è fondata la Seconda Repubblica, dilatando gli spazi del «grande centro», ma favorendo anche una radicalizzazione delle ali estreme del sistema politico.
A destra questo è puntualmente avvenuto con il ritorno in campo della Lega; un sussulto difficile da prevedere dopo gli scandali che avevano segnato il tramonto di Bossi. Il partito di Matteo Salvini sembra in grado di intercettare i consensi dei transfughi del centrodestra berlusconiano (e di una composita galassia di ex fascisti) rilanciando l’immagine conflittuale della Lega degli esordi (quando legò le sue fortune alla lotta contro i meridionali, contro il fisco, contro il centralismo statale) nel contesto di una crisi economica che, rispetto agli Anni 80 del tumultuoso successo del movimento di Bossi, ha accentuato in maniera dirompente le tensioni e lo scontro sociale.
A sinistra non è successo niente di tutto questo. Nel 1994 Rifondazione comunista rappresentava circa il 10% dell’elettorato. Da allora in poi, mentre gli uomini dell’ex Pci intraprendevano la loro lunga marcia verso il centro, scandita dalle sigle Pds, Ds, Pd, quel 10% è andato sgretolandosi fino a configurarsi oggi come una costellazione di piccoli partiti rinchiusi nel ghetto di un’opposizione impotente. E’ il prezzo pagato a una sorta di coazione a ripetere che ha sempre portato a raccogliere le bandiere lasciate cadere dagli altri senza mai trovarne di diverse e spesso mutuando dagli altri le derive personalistiche, la frammentazione in correnti, un modo narcisistico e autoriferito di far politica. Per anni è sembrato che il problema fosse quello di trovare una leadership autorevole. Le esperienze in questo senso, da Bertinotti a Vendola, sono sempre naufragate; il loro tentativo non è andato oltre la soglia di una «narrazione» seduttiva, ma incapace di incidere sulla realtà. C’è stata poi la stagione disastrosa dei leader chiesti in prestito alla magistratura: il flirt con Di Pietro, l’abbraccio a De Magistris, gli entusiasmi per Ingroia. Ora tocca a Landini, alla Fiom e al sindacato con un trasporto che ricorda quello per Cofferati e per i tre milioni di manifestanti che affollarono Piazza San Giovanni. Ma ha un senso guardare alla magistratura e al sindacato come ad ambiti in cui si forma oggi una leadership politica? Il sindacato degli Anni 70 fu quello che allargò la sua sfera di intervento dalla tutela del salario alla contrattazione complessiva di tutte le condizioni del lavoro, estendendo il suo raggio d’azione fino a interagire con il governo sulla scuola, la sanità, i trasporti, la casa. In quegli stessi anni la magistratura, finalmente, spezzò la continuità che aveva legato i suoi apparati ai codici del fascismo, aprendosi all’applicazione della Costituzione e ampliando gli spazi della nostra democrazia. Quel sindacato fu sconfitto nel 1985, con il referendum sulla scala mobile, perdendo da allora in poi rappresentanza e rappresentatività; e la magistratura in questi anni è stata chiamata ad esercitare un ruolo di supplenza nei confronti di una classe politica inadeguata, fino ad assumere un ruolo improprio, con uno straripamento che ha funzionato come un vero e proprio boomerang per la sua credibilità.
In questa coazione a ripetere è come se la fine del Novecento abbia provocato un lutto mai elaborato. Il Pd ha semplicemente rimosso quel passato. L’altra sinistra in quel passato è rimasta invischiata, limitandosi a contemplare attonita le macerie dei pilastri (Stato, Partito, Lavoro, tutti con la maiuscola) su cui si era fondata la sua tradizione novecentesca e incapace di trovare alternative alla dissoluzione di quella forma partito. Così, in attesa che si sviluppino le potenzialità intraviste nell’esperienza della lista Tsipras, si prospetta l’eventualità del vecchio gioco delle scissioni e delle fusioni, in un orizzonte che oggi guarda a Civati, domani a Bersani e poi ancora, forse a D’Alema. Non un presagio rassicurante per il futuro.
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