mercoledì 29 ottobre 2014

Il lunghissimo meticciato Neanderthal-Sapiens


A dire il vero, c'era il sospetto anche prima di queste ricerche... [SGA].

Lo studio su un femore di uomo ritrovato nel 2008 in Siberia
In europei e asiatici c’è meno patrimonio genetico neandertaliano di quanto finora ritenuto Il «mescolamento» avvenne probabilmente in Medio oriente

di Paolo Virtuani Corriere 24.10.14
Violento, ma anche più organizzato: nuove scoperte sull’Homo Sapiens
“Angeli o demoni? Di sicuro siamo la specie più invadente”
di Gabriele Beccaria La Stampa TuttoScienze 29.10.14
Visto l’uomo da questa prospettiva, ci si sente dèi. È la prospettiva dei paleoantropologi, per i quali i tempi sono lunghi, lunghissimi. Dilatati oltre l’immaginazione. E quindi ideali per essere raccontati al Festival della Scienza di Genova, che ha adottato «il tempo» come filo conduttore.
Giorgio Manzi, professore all’Università la Sapienza, ha il privilegio di essere uno di questi esploratori temporali e la sua lezione del 2 novembre chiuderà il Festival, parlando di noi stessi. E spiegandoci che siamo adulti dimezzati, privati del ricordo di buona parte del passato, antichissimo e stracolmo di eventi. Lui è uno di quegli scienziati che sta cercando di farcelo recuperare.
Professore, ci dia qualche numero per capire il tempo segreto della nostra specie.
«In effetti è difficile percepirne la vastità, anche se a volte, a noi del mestiere, centinaia di migliaia e milioni di anni sembrano “cose” quasi ovvie. Pensiamo alla coesistenza tra noi Homo Sapiens e i Neanderthal sul territorio europeo per almeno 5 mila anni, nella realtà estrema dell’ultima glaciazione: è un periodo enorme, paragonabile alla storia che intercorre tra i primi faraoni e noi che stiamo parlando adesso».
E questo è un frammento dei tempi che studiate voi paleoantropologi: non è così?
«Se ci mettiamo su questa scala temporale, vediamo come la nostra specie si sia originata 200 mila anni fa in Africa. Dobbiamo quindi moltiplicare i precedenti 5 mila anni per 40 volte, senza dimenticare che metà di tutto il periodo l’abbiamo trascorso in quel continente prima di diffonderci su scala planetaria. Allungando ulteriormente lo sguardo e spingendoci alle origini del genere Homo, poi, tra ominidi bipedi e capaci di costruire manufatti del primo Paleolitico, arriviamo a 2 milioni di anni. E oltre. È l’ordine di grandezza necessario per capire meglio le caratteristiche del nostro percorso evolutivo».
Un percorso così lungo da essere accidentato: tra un cambiamento e l’altro, di specie diverse e di caratteristiche all’interno di ciascuna, hanno prevalso gli «strappi» o i momenti di stasi?
«I secondi. Se ci addentriamo nei meccanismi evolutivi, studiando le testimonianze fossili, osserviamo periodi relativamente lunghi con poche variazioni e una variabilità analoga a quella “orizzontale” delle popolazioni di oggi. I cambiamenti significativi avvengono solo in alcune fasi cruciali, collegandosi a un determinismo ambientale che muove. o fa muovere. il primo passo di una trasformazione decisiva. E le date che ho citato. 200 mila e 2 milioni di anni fa. sono altrettanti momenti-chiave dell’evoluzione umana. E a questo punto bisogna ricordarne un terzo, che ci costringe a moltiplicare il tutto per tre, andando indietro fino a 6 milioni di anni, quando si verifica la separazione tra la nostra storia evolutiva e quella dei nostri parenti più stretti, gli scimpanzè».
Quindi questo passato è segnato da «salti» improvvisi?
«Sì. È la teoria, formulata già negli Anni 70 da Eldredge e Gould, degli “equilibri punteggiati”: alcuni grandi cambiamenti coincidono con una serie di strozzature della variabilità, seguite dall’esplosione della novità appena apparsa. Da un punto di vista demografico e anche geografico».
Abbiamo convissuto con altre specie, ma oggi siamo gli unici sopravvissuti: perché?
«Forse per la nostra invadenza ecologica: mentre le altre sono scese sotto una certa soglia quantitativa di sopravvivenza, noi abbiamo continuato a espanderci. Probabilmente non per motivi tecnologici. all’inizio condividevamo più o meno gli stessi strumenti. ma per merito di una plasticità cerebrale e anche sociale che ci ha permesso di sfruttare meglio l’ambiente. E così siamo rimasti soli sul Pianeta Terra».



Il melting pot della preistoria europeaFiorenzo Facchini Avvenire 31 ottobre 2014

E Dio creò l’uomo. Anzi cinque
Quelle scappatelle tra Sapiens e Neanderthal L’evoluzione non è stata un percorso lineareGiorgio Manzi Domenica 7 Dicembre, 2014 LA LETTURA © RIPRODUZIONE RISERVATA
C’è una specie umana estinta che si chiama Homo erectus . Venne proposta fra il 1944 e il 1950 dal grande zoologo Ernst Mayr sulla base dell’evidenza fossile disponibile allora. Mayr voleva mettere ordine nella tassonomia evoluzionistica del tempo, in quanto riteneva eccessivo il numero di denominazioni in latino e dunque troppe le specie estinte distribuite sul nostro cammino. Oggi, col senno di poi e sulla scorta di una documentazione straordinariamente più ricca, possiamo dire che Mayr si sbagliava e che l’evoluzione umana è invece caratterizzata da un vero groviglio di specie: molte le conosciamo (più o meno bene), altre le intravvediamo e altre ancora ci aspettiamo di scoprirne in futuro.
Ma torniamo agli anni Quaranta del secolo scorso. Mayr, in linea con la visione gradualista della teoria sintetica dell’evoluzione di quegli anni, si opponeva al frazionamento in diverse specie prospettato dai paleoantropologi dell’epoca. Suggerì così di raggruppare nel genere Homo e sotto la denominazione di Homo erectus alcune varietà umane estinte allora note, come Pithecanthropus erectus e Sinanthropus pekinensis . Un’unica specie umana arcaica venne dunque ammessa, conservando l’appellativo specifico erectus , attribuito ai primi resti rinvenuti nell’isola di Giava alla fine dell’Ottocento.
È stato così che, a partire dalla metà del secolo scorso, Homo erectus è venuto a rappresentare il riferimento unico per tutta l’umanità che precedette Homo sapiens (e anche questa specie venne intesa in un senso molto, troppo ampio). In questa prospettiva, Homo erectus rappresentava una sorta di contenitore nel quale riunire buona parte delle conoscenze su una documentazione fossile dalle fattezze arcaiche, sufficientemente diverse da forme successive e/o con un cervello più grande, come i Neanderthal e noi stessi.
All’impostazione dettata da Mayr si affiancarono influenti personalità sia nel campo della biologia generale, come ad esempio il grande maestro di anatomia comparata Wilfrid Le Gros Clark; sia nel campo più specifico dell’antropologia, come Franz Weidenreich, uno dei più eminenti paleoantropologi del Novecento. Col tempo, questo divenne il modello di riferimento per l’evoluzione del genere Homo e tale è rimasto fino a un paio di decenni fa. Anzi, sarebbe meglio dire fino a oggi, visto che in parte della divulgazione, in certi libri di scuola e, talvolta, anche nei manuali universitari il fantasma di questo modello tuttora aleggia nell’aria. In base a questo modo di vedere l’evidenza fossile, l’evoluzione del genere Homo è stata a lungo interpretata come un percorso graduale e lineare a carico di un’unica specie arcaica, la quale avrebbe condotto, quasi ineluttabilmente, attraverso una successione di forme, alla comparsa della nostra specie. Questo è quello che molti di noi chiamano il «paradigma della specie unica».
Se l’evoluzione umana viene vista così, si arriva alla conclusione che sia esistita una continuità biologica tra forme più arcaiche e forme moderne, una continuità che solo arbitrariamente può essere frazionata nel suo divenire. È una prospettiva che può piacere a chi interpreta la comparsa di una qualsivoglia creatura che possiamo definire umana, ancorché primordiale, come l’ineluttabile emergere di una forma di vita talmente speciale da confondersi con qualcosa di soprannaturale. Diventa allora quasi ovvio pensare a una indissolubile continuità che parte dalle prime forme del genere Homo e arriva fino a noi, Homo sapiens . In altre parole, se la teoria vuole interpretare il fenomeno, allora il «paradigma della specie unica» ci mostra un procedere dell’evoluzione che si risolve in un flusso evolutivo unico e continuo, come una sorta di grande fiume che, in modo graduale e progressivo, porta giù-giù, ovvero su-su (coerentemente con l’equivoco terminologico tra evoluzione e progresso) fino all’umanità attuale.
A partire all’incirca dagli anni Settanta del secolo scorso, però, tutto ha iniziato a cambiare. Di nostri antenati e parenti estinti se ne conoscono oggi almeno una ventina e questa tendenza al frazionamento della documentazione fossile non sembra arrestarsi: peraltro, risulta quantomeno utile a muoversi nell’intreccio di un albero evolutivo che appare ormai talmente intricato da essere stato chiamato (con termine che temo possa essere equivoco) il «cespuglio» dell’evoluzione umana.
Ma cosa è successo a partire dagli anni Settanta? In primo luogo c’è da considerare l’aspetto teorico. Nel 1972, due paleontologi del calibro di Stephen Jay Gould e Niles Eldredge proposero un’importante integrazione all’impalcatura della teoria sintetica dell’evoluzione che denominarono «equilibri punteggiati» (o intermittenti). Partirono da una critica al cosiddetto «gradualismo filetico» — quello che nell’evoluzione umana era il «paradigma della specie unica» — focalizzando l’attenzione sull’irregolarità del processo evolutivo così come viene documentato dalle testimonianze fossili. Suggerirono dunque che i fenomeni chiamati macroevolutivi, cioè quelli che riguardano la comparsa di nuovi rami filetici (dal livello di specie in su), seguano modalità differenti da quelli cosiddetti microevolutivi (all’interno delle specie).
La teoria di Gould ed Eldredge afferma pertanto che le forme di vita tendono a rimanere stabili per lungo tempo, evolvendo in modo esplosivo nel corso di brevi periodi e nel contesto di piccole popolazioni isolate.
Visto così, oltre che sulla base della documentazione fossile, l’andamento dell’evoluzione è fortemente discontinuo e potrebbe essere rappresentato da linee verticali intervallate da scarti laterali. Ci appare cioè come fatto di lunghi periodi di relativa stasi evolutiva, interrotti da accelerazioni del cambiamento che corrispondono alla formazione di una o più nuove specie. Le specie dunque non fluiscono l’una nell’altra, come vorrebbe il «paradigma della specie unica». È piuttosto in piccole popolazioni, isolate geograficamente dalle altre, che può formarsi e stabilizzarsi (anche in un tempo piuttosto rapido) un nuovo assetto genetico: solo occasionalmente, dunque, l’equilibrio si spezza e compare, quasi improvvisamente sulla scala dei tempi geologici, una nuova specie. È così che, almeno sul piano teorico, fiorisce la diversità interspecifica, mentre spariscono le traiettorie lineari dell’evoluzione.
C’è poi da prendere in esame la documentazione fossile e preistorica. Quando mi capita di raccontare la storia della paleoantropologia, è proprio intorno agli anni Settanta del secolo scorso che mi devo interrompere, a fronte dell’abbondanza e della varietà di informazioni che da quel momento in poi dovrei prendere in esame. In altre parole, se è possibile disegnare un percorso abbastanza lineare delle nostre conoscenze accumulatesi fino a poco oltre la metà del Novecento, il ventennio successivo rappresenta un momento di svolta, nel quale è successo qualcosa per cui il progresso delle ricerche sull’evoluzione umana ha letteralmente cambiato marcia, sviluppando un cespuglio (questa volta sì che la metafora funziona!) fatto di tante e nuove linee d’indagine sul terreno e in laboratorio.
Quasi che volessero assecondare il modello di Gould ed Eldredge, i paleoantropologi hanno quindi iniziato a scoprire molte più specie nascoste nel nostro passato e a interpretarle in accordo con la nuova teoria. Alcuni autori, in primo luogo Ian Tattersall dell’American Museum of Natural History di New York (un autore piuttosto noto anche in Italia), hanno potuto a questo punto affermare che in passato vi è stata una tendenza a sottostimare il numero delle specie estinte di nostri antenati; lo stesso Tattersall scriveva in un influente articolo del 1986: «Se proprio dobbiamo sbagliare, sarà meglio eccedere (entro limiti ragionevoli) nel riconoscere troppe specie piuttosto che troppo poche».
C’è un dato di fatto che comunque emerge dalle ricerche degli ultimi decenni. La documentazione paleoantropologica ci mostra, con sempre più evidenza, che forme umane diverse fra loro hanno convissuto per lunghi periodi di tempo in aree geografiche distinte o in parte sovrapposte, non succedendosi l’una all’altra, ma rappresentando i molti rami di un percorso evolutivo che non necessariamente porta fino a noi. Ad esempio, c’è stato un momento nell’evoluzione umana — neanche troppo lontano, diciamo intorno a 50 mila anni fa — nel quale di specie umane differenti fra loro ce n’erano almeno cinque e una sola includeva i nostri antenati diretti, cioè rappresentava il ramo di noi Homo sapiens .
Proviamo a dare un’occhiata. Fissiamo le lancette sull’orologio del tempo profondo intorno a quella data: 50 mila anni fa. La nostra specie ( Homo sapiens ) era comparsa in Africa da tempo e già intorno a 100 mila anni fa aveva iniziato come a traboccare fuori dal continente africano, con un cervello in grado di produrre inedite manifestazioni di pensiero simbolico, forte di una notevole capacità di adattamento e del conseguente successo demografico.
In Vicino Oriente i nostri antenati si sono dapprima confrontati con i Neanderthal ( Homo neanderthalensis ) diffusi in quelle regioni. Lì probabilmente le due specie si sono anche incrociate, come accade talvolta in natura fra forme di vita molto simili. Le «scappatelle» sono però durate poco, tanto che oggi solo un 2-3% di patrimonio genetico dei Neanderthal è ancora presente in tutti noi (tranne che negli africani). A partire da 60 mila anni fa i nostri antenati si sono poi ulteriormente diffusi, arrivando a confrontarsi più a nord con i Neanderthal dell’Europa mentre, più a sud, presto arriveranno in larga parte dell’Asia e fino in Australia.
Su questa rotta meridionale devono aver incontrato altre due specie umane che ancora esistevano in Estremo Oriente. La prima, ormai relegata nell’isola di Giava e forse in altre parti dell’Indonesia, è Homo erectus . Il binomio in latino da cui siamo partiti non è più visto come lo avevano interpretato Ernst Mayr e gli altri a metà del Novecento, cioè come l’unica specie umana arcaica che precedette Homo sapiens , ma piuttosto come una varietà invero periferica, discendente dei primi Homo diffusi in Asia già a partire da quasi 2 milioni di anni fa. Presente per svariate centinaia di migliaia di anni in gran parte delle terre a oriente dell’Himalaya, il suo areale si era nel tempo ridotto ai territori più meridionali. La seconda specie dell’Estremo Oriente la troviamo ancora più relegata in una piccola isola, a metà strada fra l’Indonesia e l’Australia: si tratta dei cosiddetti hobbit dell’isola di Flores. Appartenevano a una specie denominata Homo floresiensis , che mostra di essere rimasta per così tanto tempo separata dalle dinamiche evolutive che si svolgevano sulle masse continentali tanto da arrivare alle minute dimensioni corporee che le vennero imposte dal fenomeno noto come «nanismo insulare».
Ma non è finita: in altre parti dell’Asia continentale i nostri antenati si confrontano anche con un’altra specie. L’abbiamo individuata solo pochi anni fa sulla base dei dati genetici recuperati da una piccola porzione d’osso scoperta in una grotta dei Monti Altai in Siberia, quasi al confine con la Mongolia. La grande quantità di Dna estratto ha mostrato che questa specie era distinta sia da noi che dai Neanderthal, anche se pure in questo caso devono essersi verificate ripetute ibridazioni con entrambe le specie sorelle. I genetisti li chiamano Denisoviani (dal nome della grotta: Denisova), ma personalmente ritengo si tratti del ramo asiatico terminale di un’altra specie ancora: Homo heidelbergensis .
Insomma, come Ian Tattersall dice spesso: «Non eravamo soli su questa Terra». Intorno a 50 mila anni fa e ancora per alcuni millenni a seguire, di specie umane differenti ce n’erano almeno cinque. Soli sulla Terra lo siamo diventati! Se tutto ciò può rattristare, ci assegna comunque una grande responsabilità nei confronti delle forme di vita che (ancora) esistono su questo pianeta e che sono, come la nostra stessa storia dimostra, estremamente fragili. 


E Dio creò l’uomo. Anzi cinqueGiorgio Manzi Corriere

Svante Pääbo: L'uomo di Neanderthal, Einaudi, Torino, pagg. 304, € 32,00

Risvolto
In una notte del 1996 Svante Pääbo riuscí a decifrare le prime sequenze di dna provenienti dai frammenti d'osso di un uomo di Neanderthal. Lui e i suoi collaboratori quasi non ci credevano, erano diventati i protagonisti di un evento eccezionale: nessuno prima di loro aveva mai estratto e analizzato il dna di una specie umana estinta. Gli sviluppi di quei primi sorprendenti risultati diedero il via a un percorso di ricerca che culminò nel 2010 con il sequenziamento del genoma dell'uomo di Neanderthal. In questo libro Pääbo racconta in prima persona gli eventi, le vicissitudini, i fallimenti e i trionfi di trent'anni di ricerca, e soprattutto la nascita di una nuova disciplina scientifica: la paleogenetica. Basandosi su indizi genetici e fossili, lo scienziato ricostruisce le origini degli esseri umani moderni e il loro rapporto con i cugini di Neanderthal. Descrive l'aspro dibattito intorno alla natura della relazione tra le due specie, chiarendo perché una di esse si estinse. Le sue scoperte non solo ridisegnano il nostro albero genealogico, ma rimodellano i fondamenti della storia umana, identificando le origini biologiche dell'antenato diretto di ognuno di noi. Una storia avvincente che ha per protagonista un esploratore straordinario, impegnato in una ricerca scientifica tra le piú avanzate. Un libro che dà alcune risposte a una delle domande fondamentali della nostra esistenza: chi siamo?
«Nel 1856, tre anni prima della pubblicazione dell'Origine delle specie di Darwin, durante gli scavi in un piccola grotta all'interno di una cava nella valle di Neander, circa 11 chilometri a est di Düsseldorf, furono scoperte la parte superiore di un teschio e alcune ossa che sulle prime furono ritenute di orso. Ma nel giro di qualche anno si capí che i resti erano di una forma di essere umano estinta, forse antichissima. Fu la prima volta che venivano descritti resti di questo tipo, e la scoperta scosse l'ambiente dei naturalisti. Nel corso degli anni proseguirono gli studi di queste ossa e ne furono rinvenute molte altre: si cercò di appurare chi erano gli uomini di Neanderthal, come vivevano, perché scomparvero qualcosa come 30000 anni fa, come interagirono con loro i nostri antenati moderni nel corso delle migliaia di anni di coesistenza in Europa, e se furono amici, o nemici, nostri antenati o semplicemente cugini perduti. Dai siti archeologici emergevano indizi di comportamenti che ci sono familiari: curavano i feriti, avevano riti funebri e forse persino strumenti musicali. I Neanderthal erano quindi molto piú simili a noi di qualunque scimmia vivente. Quanto simili? Erano in grado di parlare? Sono un ramo secco dell'albero genealogico degli ominini? Parte dei loro geni è tuttora nascosta dentro di noi? Questi problemi sono parte integrante della paleoantropologia, la disciplina che si può dire sia nata con la scoperta di quelle ossa nella valle di Neander. E adesso pareva che da quelle ossa riuscissimo a trarre informazioni genetiche».
     

Gli occhi di Neanderthal Incontro con Svante Pääbo
La ricerca sul Dna antico ha fatto passi da gigante grazie al ricercatore svedese che qui racconta le sua storiadi Guido Barbujani Il Sole Domenica 4.1.15
Nel titolo italiano di questo libro va persa un'importante ambiguità di quello inglese. Neanderthal man è, ovviamente, l'uomo di Neanderthal, la forma umana che ha occupato l'Europa per 300mila anni, prima di estinguersi un 30mila anni fa, all'arrivo dall'Africa dei nostri antenati. Ma Neanderthal man significa anche l'uomo del Neanderthal, cioè l'autore di questo libro: Svante Pääbo, lo scienziato svedese che di Neanderthal (con o senza l'acca, va bene lo stesso; e Pääbo si pronuncia Peebo) ci ha rivelato, per dirla con Paolo Conte, molto, molto più di quanto apparisse. Fin dal titolo, quindi, questo libro ci conduce su un doppio sentiero: racconta sia come siamo arrivati a scoprire tante cose su un'umanità tanto diversa da noi e tanto vicina a noi, sia la vicenda, umana e professionale, della persona che più ha contribuito, negli ultimi vent'anni, a farcelo scoprire.
Si comincia, secondo la migliore tradizione thriller, con una telefonata nel cuore della notte, e ci vorrà mezzo libro per comprenderne l'importanza. Nel frattempo, Pääbo non è indulgente col lettore, e fin dalla prima pagina lo obbliga a destreggiarsi coi termini tecnici. In controtendenza con quanto si tenta di fare da noi, qui si mette subito in chiaro che per capire concetti complessi bisogna fare uno sforzo. La scienza produce osservazioni, ma per legarle insieme occorre un ragionamento. Se non abbiamo idea delle potenzialità e dei limiti delle tecniche sperimentali, non potremo poi valutare criticamente la bontà del ragionamento che ne deriva e delle conclusioni che andiamo a trarre.
Il libro ricompensa chi accetti questo impegnativo contratto con molte soddisfazioni intellettuali. Man mano che il cerchio si stringe intorno al DNA dei Neanderthal, la cui lettura ci obbliga a riformulare domande fondamentali sulla nostra vicenda evolutiva, seguiamo le vicende di Pääbo dalla passione infantile per le mummie egiziane agli inizi dello studio del DNA antico, fino al vero punto di svolta, la creazione del l'Istituto Max-Planck di Antropologia Evolutiva a Lipsia: un magnifico edificio a cinque piani, connessi da una rampa a spirale come quella del Guggenheim di New York. Lì oggi convivono paleontologi, genetisti, psicologi, primatologi e linguisti, tutti insieme in un posto che ridefinisce gli orizzonti dell'antropologia. Impressionante, per chi vi entra,il disordine creativo che vi regna. Appena meno stupefacente la parete da arrampicate che raggiunge il quinto piano e che (siamo pur sempre in Germania) è a disposizione di personale dell'istituto e visitatori secondo orari definiti in un apposito cartello. Certo, le biografie sono un genere letterario rischioso (e ancor più le autobiografie, e ancor più le cosiddette success stories), perché concentrano le luci dei riflettori su un solo protagonista, mettendo nell'ombra il fatto che la scienza è soprattutto una grande impresa collettiva. Ma su questo (e altro) vale la pena di sentire direttamente la voce dell'autore.
Per quanto mi riguarda, ho sempre desiderato chiedergli che faccia hanno fatto i responsabili finanziari dell'impresa, quando gli ha detto che voleva la parete. «Ah, è stato facile. Secondo la legge, l'uno per cento dei costi dell'edificio deve essere speso per oggetti d'arte. Ho solo dovuto convincerli che una parete da arrampicata fosse un'opera d'arte, il che in effetti è vero, è un'opera d'arte con cui si interagisce. È stato più difficile farci mettere la sauna…»
Sorprendente nel libro la sostanziale assenza di conflitti (appena uno all'inizio, e con un ex nazista), in una storia in cui vengono tirati in ballo interessi scientifici enormi. È andata davvero così? «Penso, – risponde Pääbo – di non aver mai permesso che i conflitti giocassero un ruolo importante nella mia vita. Molti nascono da incomprensioni, e facendo finta che sia così per tutti si riducono comunque le tensioni. E poi mia moglie Linda sostiene che sono così narcisista che riesco a ignorare gli altri, anche quando mi insultano».
Nessuno insulta Pääbo in questo libro, ma pochi sembrano insegnargli qualcosa. Si ha la sensazione di un cammino lineare, dalle curiosità infantili alle grandi scoperte della maturità, in cui molti gli sono stati utili, nessuno indispensabile. «Non è proprio così. Ho un padre scientifico, Allan Wilson, che ha lavorato su molti aspetti delle origini e della storia umana su cui io (e molti altri) ancora lavoriamo. Detto questo, però è vero che lo studio del DNA antico è qualcosa che ho cominciato per conto mio, da studente, in Svezia, e solo dopo ho saputo che anche Allan Wilson ci stava lavorando.
Un altro che mi ha molto influenzato è stato il mio supervisore in Svezia, Per Pettersson, che mi ha insegnato a controllare i risultati di ogni collaboratore ogni settimana, e a non lasciare nessun progetto in sospeso». Dunque, trenta anni fa uno studente intraprendente come Pääbo poteva lanciarsi, senza fondi, in una ricerca che sarebbe poi approdata sulle maggiori riviste scientifiche mondiali; oggi questo sembra francamente impossibile… «Non so se le cose siano davvero così diverse. Che uno studente arrivi a pubblicare sulle migliori riviste è raro oggi, ma lo era anche allora. Spesso le opportunità per grandi passi avanti emergono quando compaiono nuove tecnologie: la clonazione del DNA, le nuove tecniche di sequenziamento massiccio». Qui Pääbo si riferisce alle macchine che leggono il DNA. Nel 2003 la prima lettura del genoma umano, i sei miliardi di nucleotidi del DNA che in ogni cellula contengono le istruzioni per lo sviluppo e il funzionamento del nostro corpo, ha richiesto il lavoro di 2800 scienziati per 13 anni; oggi bastano pochi giorni e ci pensano tecnici che devono solo premere i pulsanti giusti. Sapremmo ben poco di Neanderthal (e di noi stessi, e di tante malattie) senza questi prodigiosi passi avanti tecnologici. Ma i progressi tecnologici producono risultati se dietro ci sono delle teste pensanti. Cosa si pensa di fare, adesso? Pääbo spera di arrivare a studiare una forma umana ancora più antica di Neanderthal, Homo heidelbergensis, che con ogni probabilità è l'antenato comune da cui noi e i Neanderthal discendiamo. «Spero anche che noi, e magari altri, riusciremo in qualche modo a risalire dalle nostre differenze genetiche all'aspetto fisico dei Neanderthaliani e denisovani». Già: nessun occhio o pelle Neanderthaliani sono arrivati fino a noi, ma sappiamo che erano, rispettivamente, azzurro e chiara, perché l'abbiamo letto nel loro DNA. Allo stesso modo, Pääbo e i suoi hanno identificato, nella grotta di Denisova, in Siberia, una nuova forma umana, geneticamente distinta sia da noi che dai Neanderthal. Dei denisovani ci rimangono solo della falangetta di un dito mignolo e due denti; come fossero fatti non lo sa nessuno: per ora, perché nel loro DNA stanno nascosti i dati che potranno dirci come erano i loro occhi e i loro capelli, la loro pelle e il loro gruppo sanguigno. È una storia ancora da scrivere, ma anche questa comincia, per chi vuole stare a sentirla, nelle pagine dell'Uomo di Neanderthal.


La prova del contattotra noi e i Neanderthal
Nei resti fossili trovati in una grotta di Israele la storia di quando vivevamo insiemedi Edoardo Boncinelli  Corriere 10.2.15

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