giovedì 30 ottobre 2014

La metropoli nella modernità: il libro di Vincenzo Trione

Vincenzo Trione: Effetto città. Arte cinema modernità, Bompiani

Risvolto
La città moderna: in continua trasformazione, priva di centro, crea un nuovo modo di vedere. Baudelaire è tra i primi a coglierne il senso. Nel corso del Novecento e oltre, pittori, registi, scrittori e filosofi cercano i mezzi adeguati a dire una realtà che mette in crisi i modi di rappresentazione tradizionali. Vincenzo Trione ripercorre una storia complessa e in perenne divenire, facendo dialogare teorie e opere: architettura e cinema, pittura e urbanistica. Parte da alcuni luoghi-simbolo (Parigi, Vienna, New York, Roma, Napoli...); e li analizza per il ruolo che hanno avuto nel riconfigurare lo sguardo degli artisti. Pone a confronto i classici delle avanguardie storiche e i videoclip, i concettuali e i writers. Da de Chirico a Warhol, da Boccioni a Ruttmann, da Ejzenstejn a Dario Argento, da Schwitters e Cornell ai film apocalittici hollywoodiani, rintraccia analogie impensate e illuminanti. Con un'idea di fondo: mettere in luce come le metafore, le invenzioni e le scommesse dell'arte siano indispensabili per trovare una strada nel caos della "città che sale". Trione mostra come la metropoli emerga nelle opere astratte di Mondrian, Rothko e Fontana. E come il cinema, da Antonioni a Wenders, sia spesso un'arte astratta. Si delinea così l'archeologia di un futuro possibile: una cartografia che conduce da spazi reali e riconoscibili a spazi immaginari, fantastici. 

Viaggio al cuore della modernità La metropoli come arte e finzione 
Giovedì 30 Ottobre, 2014 CORRIERE DELLA SERA © RIPRODUZIONE RISERVATA
E ffetto città: raramente uno studioso che dia alle stampe un’opera che sfiora le mille pagine è in grado di suggerire in sintesi, con un titolo così memorabile, il punto di vista e le coordinate del suo procedere. Effetto città (Bompiani), dunque, ha intitolato Vincenzo Trione il suo poderoso libro, rendendo un implicito omaggio all’effetto notte del capolavoro di Truffaut del 1973, nella versione italiana: in sostituzione dell’equivalente francese nel gergo tecnico del cinema, che è nuit américaine. Un effetto, dunque, un procedimento artigianale destinato non solo a creare una notte artificiale, ma anche ad essere riconosciuto in quanto tale dagli spettatori. Oggi che si impiegano mezzi molto più sofisticati e nessuno colora di blu le pellicole, possiamo apprezzare ancora più adeguatamente il vecchio trucco, per il semplice fatto che, mentre crea l’illusione, non nasconde se stesso. 
La città, nel pensiero di Trione, ha la stessa natura della notte dei registi. Finché non ne intendiamo dare una rappresentazione estetica, possiamo accettarne pacificamente una versione convenzionale. Per un tempo storico lunghissimo, tutte le città si sono assomigliate, come se non fossero altro che paesi di dimensioni più grandi. Erano il polo di un’opposizione morale alla campagna, intesa come luogo di libertà e purezza morale alternativo alla corruzione dei costumi urbani. In casi rarissimi, come quello di Roma, a questo tema umanistico trito e ritrito fino all’insignificanza si aggiungeva quello della città come scrigno di meraviglie, sacre e profane, che esigevano la compilazione di adeguati cataloghi, o guide. 
Ma a un certo punto della storia della modernità, alcuni spiriti particolarmente inquieti e percettivi hanno iniziato a considerare lo spazio urbano e la loro vita al suo interno come la fonte privilegiata del loro modo di comprendere il mondo. Fu un trauma, e insieme una rivelazione: ed è da questo evento capitale della storia di tutte le arti che inizia il lungo e labirintico racconto di Trione. Che non potrebbe prendere le mosse se non all’ombra delle poesie, dei poemi in prosa, dei saggi di Charles Baudelaire. 
Ovviamente, non sono pochi i precursori dell’autore dello Spleen di Parigi, primo fra tutti l’amatissimo Balzac. Ma nessuno, prima di Baudelaire, aveva fatto della città un criterio di conoscenza così potente e complesso. Dalla sua opera, si sprigiona un’energia capace di annullare ogni distinzione e gerarchia fra l’individuo, nella sua solitudine, e il mondo che lo circonda con la sua molteplicità che è quasi un’immagine dell’infinito. Si può dire che Baudelaire crea Parigi, e insieme profetizza ogni immagine di metropoli a venire. Ma il demiurgo (Trione coglie benissimo questo punto fondamentale) è a sua volta modellato dalla sua creazione, che è come un mostro sfuggito al controllo del mago che l’ha imprudentemente evocato. Tutto svanisce e si trasforma, nella città governata dal ferreo scettro della Moda. E nemmeno la sensibilità eccezionale del poeta che ha saputo cogliere questo ritmo è in grado di stargli dietro. Non è infatti un ritmo a cui sia possibile accordare un’esistenza umana, coi suoi limiti fisici e psicologici. 
«La forma di una città», si legge in una poesia dei Fiori del male , «cambia più in fretta del cuore di un mortale». È una constatazione spietata e razionale, ma Baudelaire ci inserisce un «ahimé!» che vale intere biblioteche di estetica e filosofia. È il lamento, impossibile da trattenere, di chi, pur non potendo vivere altrove, deve ammettersi sconfitto dallo stesso caos che ha formato il suo carattere. Ma ancora più importante della malinconia che deriva da questa ammissione, c’è l’irreversibile stato di eccezione che la città impone al mondo interiore di chi, invece che osservarla dall’esterno, si è calato nelle sue viscere come uno speleologo, un profanatore di tombe, un ladro di tesori. 
Nell’accostarsi alle innumerevoli esperienze artistiche di cui rende conto con l’abituale finezza mista ad empatia, Trione si tiene sempre fedele al criterio dell’«intensità massima» della rappresentazione, che T. S. Eliot riconosceva come la caratteristica più eminente dello stile di Baudelaire. Non potendo nemmeno lontanamente render conto della ricchezza di argomenti di questo libro, vorrei almeno ricordare la splendida serie di ritratti di città di Gabriele Basilico, che accompagna il discorso non in funzione di semplice illustrazione, ma come una specie di illuminante controcanto. Contemplando queste immagini, ci si rende facilmente conto come certe storie importanti siano sempre, in qualche modo, storie contemporanee. Tanto che, chiuso questo libro importante, potremmo azzardarci a definire la scienza praticata da Trione come una paradossale e seducente archeologia del futuro.

Quelle poesie a cielo aperto chiamate città 
Le metropoli hanno da sempre ispirato letteratura, arte, cinema e nutrito il nostro immaginario Lo racconta adesso il saggio di Vincenzo Trione
VALERIO MAGRELLI Repubblica 6 11 2014
NON capita spesso di maneggiare un libro che si avvicina alle mille pagine. Ma l’intento di Vincenzo Trione è di ampia portata. Il suo Effetto città. Arte cinema modernità ( Bompiani, pagg. 830, euro 58) mira infatti a gettare sul nostro habitat uno sguardo che includa le rappresentazioni offerte in ambito pittorico, cinematografico e architettonico nel segno, appunto, della modernità. Per questo, accanto a Vienna, Parigi e Napoli, spicca la prepotente presenza di un nome che da solo sembra valere tutti gli altri. Stiamo parlando di New York, capace di pesare nell’economia del libro quanto i tre centri europei messi insieme, quasi a voler ridistribuire il carico del nostro sistema culturale fra Vecchio e Nuovo Mondo.
Ma non è tutto, poiché il lavoro di Trione si apre con una citazione di E. B. White, che recita: «La poesia comprime molto in un piccolo spazio, aggiungete poi il ritmo e così si accentua il senso. La città è come la poesia: comprime tutta la vita, tutte le razze in una piccola isola e poi aggiunge la musica e l’accompagnamento dei suoi motori interni». Dice bene lo scrittore statunitense, ma da dove provengono le sue parole? Da un saggio intitolato non a caso Volet e sapere cos’è New York?
Il testo appena uscito si chiede dunque in che maniera rappresentare un tema quale la città contemporanea nei suoi più vari aspetti. Dopo gli studi dedicati a figure diverse quali Apollinaire (Il poeta e le arti, 1999), Ardengo Soffici ( Dentro le cose, 2001), Giorgio de Chirico ( Atlanti metafisici, 2005, e Le citta del silenzio , 2009), Alberto Savinio ( Scritti sull’arte, con Giuseppe Montesano, 2007) o Mimmo Rotella ( Anni di piombo , 2011), Trione affronta adesso un quadro assai più vasto, in cui fa convergere l’insieme delle precedenti indagini.
A questo punto, risulta pressoché inevitabile insistere sulla particolare composizione del suo ultimo testo, data la complicata, ingegnosa costruzione. Fra un prologo e un congedo, Effetto città. Arte cinema modernità si articola in due tempi di sei capitoli (ma forse sarebbe meglio chiamarli “stazioni”), dedi- cati alle quattro megalopoli di cui si è detto. Tuttavia, a scandire le tappe di tale itinerario, troviamo una ricca messe fotografica suddivisa in sette Passages, secondo un ordine che, seguendo lo sviluppo del testo, forma una specie di omaggio a Walter Benjamin. Autentico libro nel libro (che parte dalle sconvolgenti immagini della rivoluzione urbanistica condotta dal barone Haussmann nella Parigi di Baudelaire a partire dal 1852), questa notevole sezione iconografica si apre proponendo alcune illuminanti analogie tra la Shanghai fotografata da Olivo Barbieri e un quadro di Jackson Pollok, o tra i graffiti metropolitani e gli “strappi” di Mimmo Rotella. Non meno importante la presenza del cinema (dalla Metropolis di Fritz Lang alla Gotham City di Tim Burton, passando per le napoletane Mani sulla città di Francesco Rosi o le passeggiate russe di Dziga Vertov) e dell’architettura (vuoi nelle fotografie di grandi artisti, vuoi nella presentazione di progetti che hanno segnato la storia urbanistica). La grande protagonista, in ogni caso, rimane la pittura, con l’ampio spazio dedicato a de Chirico e Boccioni, Warhol e Schwitters, Piranesi e Hopper. Come si legge nell’introduzione, si tratta di un viaggio che predilige i sentieri obliqui, iscrivendosi nell’orizzonte dei visual studies , un viaggio che mira a far affiorare costellazioni sepolte, dialoghi a distanza: «Una cartografia nella quale sono state accostate grammatiche diverse: la pittura e il cinema. Una flânerie nella quale si sono combinati registri e codici. Un travelogue visivo , che aspira a rispettare le diverse competenze settoriali, ma vuole sondare anche confluenze, ibridazioni, interscambi, interferenze reciproche, condivisioni concettuali, connessioni tra sapere».
Ebbene, ad introdurci in questa spedizione pluridisciplinare, spiega Trione, non è un pittore né un regista, bensì un poeta: proprio quel Baudelaire poco fa menzionato come testimone della “distruzione” cui andò incontro l’antica Parigi. Amico del grande fotografo Nadar, l’autore dei Fiori del male appare radicato nell’inferno di un’epoca di transito, anticipando alcune forme comunicative destinate ad avere una funzione decisiva nella cultura del Novecento: il reportage fotografico, il documentario, il cinema di impianto realista.
Accanto a Baudelaire, si accennava, non poteva mancare la figura di uno fra i suoi massimi interpreti, ossia Benjamin. Già evocato a proposito dei Passages ( come si sarebbe dovuta intitolare una sua leggendaria opera), il pensatore tedesco viene chiamato in causa per un taccuino di memoria, consacrato a Berlino quale emblema della città moderna per eccellenza. Ed ecco in che maniera Benjamin racconta l’universo urbano come labirinto, spazio segnato da una radicale perdita del centro: «Non sapersi orientare in una città non significa molto. Ci vuole invece una certa pratica per smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta. I nomi delle strade devono parlare all’errabondo come lo scricchiolio dei rami secchi, E le viuzze del centro gli devono scandire senza incertezze, come in montagna un avvallamento, le ore del giorno». Con questo audace accostamento al paesaggio montano, “l’effetto città” ritrova tutta la sua forza, rivelandosi come l’affermazione, forse definitiva, di una nuova natura.

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