domenica 19 ottobre 2014

La Vera Fede e il libro di Michel Platini

Parliamo di calcioMichel Platini: Parliamo di calcio, Bompiani

Risvolto
“Parliamo di calcio è una commedia che sfiora l’inferno, affronta il limbo e sogna il paradiso. È l’esplorazione di un mondo che gli amanti del calcio non conoscono, vale a dire la storia vera di questo sport, il suo fascino mondiale, la sua universalità, le sue radici, le sue trasformazioni, il suo potere, i suoi limiti, le sue leggi, la sua naturale bellezza, i suoi inganni, le sue sofferenze, le sue tragedie, i suoi trionfi. Le pagine coinvolgono illustri protagonisti del gioco, da Kopa a Di Stéfano, da Puskás a Cruijff, da Maradona a Pelé ma anche da Camus a Montesquieu, a Pascal, abbracciando l’agone e la cultura, il letterato e il tifoso, il mondo che gioca e ha giocato con una palla e il suo mistero. È un’opera di studio e di scoperta, non un semplice racconto di cose di football. Ne risulta l’amore assoluto che Michel Platini ha per il pallone che è cosa assai differente dal calcio, un rapporto infantile, genuino, immediato, puro, che, tuttavia, deve fare i conti con una realtà aspra, quella del denaro facile, dei nuovi poteri che, comunque, non violenteranno mai lo spirito originario di questo sport unico. Il viaggio è lungo ma veloce e rapido. La storia del calcio non si conclude con l’ultima pagina, l’ultima parola. Si ferma lo spazio di un pensiero. E continua. Come la storia di Michel Platini.” dalla presentazione di Tony Damascelli

Platini Lezioni di calcio 
MICHEL PLATINI La Repubblica 19 10 2014

 DRIBBLARE, SEGNARE, DRIBBLARE, SEGNARE, dribblare, segnare. Ecco il calcio. Quando nel 1987 non ho più segnato sono rientrato a casa. Da quel giorno non avrei più messo la palla in rete. Non so se sono mai stato quel che tutti chiamano Michel Platini. Dal mio ritiro in poi, tutti gli impegni che hanno occupato i successivi venticinque anni mi hanno fatto dimenticare un po’ quello che ero stato da calciatore. Il destino mi ha dato la possibilità di passare da una passione all’altra. E di dire che vi è un’età per ogni passione: a vent’anni si gioca, a trenta ci si allena, a quaranta si comanda, a cinquanta si presiede e a sessanta... si legge. Per certi versi sicuramente mi diverto più oggi. Penso di poter fare di più oggi per il calcio di quanto abbia saputo fare trent’anni fa. Ho approfittato della vita. Dal principio, in gioventù. Il calcio non era tutto. Mio padre me lo aveva insegnato: “Gioca per giocare”, dunque ho giocato per divertire e divertirmi: questa è stata la mia forza. Ho sviluppato quasi naturalmente, di fronte ai più grandi avversari, il tempo dell’anticipo, la malizia, l’astuzia. E l’arma migliore: il dribbling. Con il passare degli anni ho cercato maggiormente la semplicità. Si può risolvere un problema senza avventurarsi in uno scenario complicato e individualista. Io dribblavo per andare in porta quando non disponevo di un’altra soluzione facile. Il mio dribbling era “lungo” per ragioni di efficacia. Una finta breve non ti assicura il superamento definitivo dell’avversario, che può sempre prenderti la maglia, i pantaloncini, starti addosso. Quando lo superi con un dribbling lungo è come un “ciao e arrivederci”. L’erba dove sei passato non cresce più, ma per il tuo avversario. Ripensandoci, avrei potuto essere più veloce nella corsa. Fisicamente non ero così male, anche se non ero né Cruijff né Maradona né Pelé. E se dicono che ero un giocatore completo tecnicamente, io non smentirò. L’insieme era al servizio di una visione, di una percezione o, piuttosto, di una capacità di registrare tutti gli elementi che compongono il paesaggio, il panorama, che ti danno una proprietà di controllo che, secondo me, è il primo vantaggio, a volte decisivo, nel gioco.

BISOGNAVA SOPPORTARMI
Avrei potuto giocare come Pirlo. Con il binocolo. Ma non concepivo una partita senza cercare il gol. A dieci anni avevo segnato ventiquattro gol nella stessa partita tra i due alberi di castagno della scuola. Era una vocazione, ero nato attaccante, diventai numero 10 per caso. Dovetti sostituire un numero 10 e così feci, diventando un 9 e mezzo.
Ho amato tutte le maglie, tutte le squadre nelle quali ho giocato. Le ho amate non come un felice imbecille, anche se a volte questo mestiere lo suggerirebbe. Non ci si abbraccia o ci si bacia sulla bocca dovunque e comunque. Ci si spia, si è gelosi, ci si detesta anche. Bisognava sopportarmi e bisognava che io sopportassi gli altri. Le squadre sono collettivi che non si scelgono uno con l’altro ma devono vivere e agire in comunità. Le squadre lavorano come in un patto sociale. È il rispetto di questo contratto che costituisce il valore di una squadra. Non ci sono squadre che se la vivono e se la giocano facilmente.
I calciatori sono intelligenti nel gioco senza esserlo nella vita quotidiana, civile; questa li sorprende in uno stato di “imbecillità” per le straordinarie facilitazioni che vengono loro offerte e alle quali non sono preparati. Il calcio è entrato nella società per i suoi meriti ed entrando dalla porta principale, non ha messo la pistola alla tempia di nessuno; è diventato un fenomeno mondiale e non mi stupisco se i più grandi calciatori approfittino di questo momento di gloria. Oggi i calciatori sono dei passanti, il tifoso invece è un residente. Il tifoso si rende completamente conto di essere il superstite di una continuità smarrita. La sua richiesta è quella di essere riconosciuto come tale, un sopravvissuto. Il telespettatore è uno spettatore invisibile. È il tredicesimo uomo che ha un passo diverso dal dodicesimo uomo. Lui cerca più il gioco, lo spettacolo che esclusivamente il risultato. Questo vuole la televisione. Il dodice- simo uomo è partigiano, il tredicesimo uomo è consensuale. Lui non influisce sul risultato e nemmeno sul gioco. La televisione, mandando in onda a getto continuo ogni partita, dovunque e comunque, rende banale un match importante e importante un match banale. E non credo che sia opportuno ringraziarla per questo. Comunque, se il futuro è la televisione in campo, significa che vedremo l’arbitro all’inferno dal primo all’ultimo minuto: da sempre lui è il sospettato numero uno. Per me non sarà uno spettacolo. Sarà anzi uno spettacolo al quale io non parteciperò.
IL CIELO NERO DI BRUXELLES
Sul mio comportamento all’Heysel uno potrà pensare quello che vorrà, ma sulla purezza no, no, no. Ho già rivelato un giorno che, sapendo che c’erano dei morti e avendoli come cancellati dal mio spirito o respinti, ecco che il mio gesto mi sembrava oggetto di psichiatria. L’ho ribadito a Marguerite Duras qualche mese dopo. Se il mio comportamento era sintomo di una “scienza” particolare, questa era più la psichiatria che la filosofia. Se si va sul terreno della psichiatria si scopre che gli uomini non sono degli eroi, figuratevi gli sportivi. Senza dubbio non sei un grande sportivo se non ti lasci andare in un grande avvenimento senza dimenticare tutto ciò che ti circonda e al tempo stesso ribellandoti a ciò che ti circonda. Il senso di colpa più palpabile, più duraturo, non è tanto nel gesto inappropriato, quanto nel fatto che la partita si sia svolta in una situazione così luttuosa.
La morte di uno spettatore francese, un mio tifoso venuto a vedermi, mi ha ossessionato. Lui era il riassunto di tutti gli altri morti. Lui era per me, prima dell’Heysel, un tifoso come tanti che avevo conosciuto, quelli che mi parlavano, che mi chiedevano gli autografi e posavano con me nelle fotografie, ma all’Heysel era diventato il volto del dramma. Il volto della mia colpa, anche.
Due ricordi mi perseguitano. Una percezione incompleta, molto incompleta, quasi una nebbia di una vita esterna che si racchiude nella nostra vita interiore, nello spogliatoio, nella partita, nelle ultime consegne, nel ritiro, nel silenzio. In quale partita, in quale avvenimento ci ritroviamo? Poi arriva l’ordine di giocare, in contrasto con il nostro desiderio di non giocare, facen- doci intendere che ci sono due, forse tre morti.
Alcuni di noi vogliono giocare, non perché si trattava del nostro lavoro, ma perché era il nostro dovere se volevamo evitare che lo stadio e forse la città andassero a ferro e fuoco. Così Jacques Georges, allora presidente dell’Uefa, ci ha illustrato la situazione. Abbiamo incominciato a giocare, a livello emotivo, come se nulla fosse accaduto, senza un attimo di pausa, football immediato, duro, totale, esattamente quello choc tattico e mentale che ci si poteva aspettare fra due squadre pronte a darsele in una finale. Quasi automi alla ricerca di una normalità. Noi tutti eravamo calati in pieno rituale, più o meno meccanico, e nell’oblio di certe circostanze. E mi domando: è un oblio cosciente o incosciente? Ho voluto vendicare i tifosi della Juventus? Ho voluto, malgrado tutto, approfittare, un momento, un momento solo, di una schiarita nel cielo nero di Bruxelles? Esorcizzare il dramma, rubando un momento di non dramma? Dimostrare che il gioco è più forte della morte? Oppure ho soltanto voluto “qualcosa”? Che cosa, esattamente? Trent’anni dopo, non è ancora chiaro nel mio spirito ciò che è accaduto, forse non lo sarà mai, e trent’anni dopo vorrei dire che non lo rifarei. Non avrei dovuto attendere trent’anni, trenta minuti sarebbero stati sufficienti.
Non sono mai tornato all’Heysel. Ma con il tempo ho cambiato idea. Lo sento sempre di più necessario. Ma vorrei che questa visita non avesse alcuna cornice di stampa e fotografi. Vi andrò per raccogliermi in preghiera in quel cimitero che è lo stadio, per me, il cimitero di tanti bambini, donne, uomini. Credo che nel silenzio avrò da dire molte parole a tutti loro. E a me stesso.
UN VIAGGIO SENZA FINE
Il calcio sarà quel che sarà e questo non mi coinvolge molto, ma quello che resterà sarà il pallone. E lui tornerà davanti alla saracinesca di un garage, ai suoi sabati e alle sue domeniche. Non c’è l’ultima parola, il calcio è un viaggio senza fine. Da tempo immemore il pallone rotola, rotola, rotola dovunque nel mondo. Così rotola la vita. E il calcio ne segue la traccia. Come può. © 2-014 Hugo & Cie Editions © 2-014 Bompiani / R-CS Libri S. p. A. © RIPRODUZIONE RISERVATA

2 commenti:

M Z ha detto...

Non ho mai capito come si possa essere comunisti e giuventini.
Questione di fede o di compensazione?

materialismostorico ha detto...

Ci vorrebbe una seduta spiritica, per chiederlo a Gramsci e a Togliatti...