mercoledì 29 ottobre 2014
Luciano Gallino fa rima con massimodalemino
Dobbiamo voler bene a Luciano Gallino e leggerne i libri. Ma alla fine della fiera, nessuna indulgenza verso chi ha legittimato i progenitori della Bestia [SGA].
La differenza visibile tra destra e sinistra
Il contrasto tra lo scenario della Leopolda e quello di piazza San Giovanni non poteva trovare una sintesi in modo più efficace
di Luciano Gallino Repubblica 29.10.14
NON si sa chi sia, il regista delle due manifestazioni contemporanee
della scorsa settimana, piazza San Giovanni e Leopolda. Di certo è un
grande talento. Il contrasto tra lo scenario dei due eventi non poteva
venire realizzato in modo più efficace. Da un lato un gran sole, il
cielo azzurro, uno spazio amplissimo, una folla sterminata, brevi
discorsi su temi concreti. Dall’altra un garage semibuio dove non si
riusciva a vedere al di là di una decina di metri, un centinaio di
tavoli dove si parlava di tutto, un lungo discorso del presidente del
Consiglio in cui spiccavano acute considerazioni sull’iPhone e la
fotografia digitale, e non più di sei-settemila persone — giusto 140
volte meno che a San Giovanni.
Il duplice scenario e la composizione dei partecipanti sono stati quanto
mai efficaci per chiarire che a Roma sfilava un variegato popolo
rappresentante fisicamente e culturalmente la sinistra, sebbene del
tutto privo di un partito che interpreti e difenda le sue ragioni.
Mentre a Firenze sedeva a rendere omaggio al principe un gruppo della
borghesia medio-alta orientato palesemente a destra — a cominciare dal
Principe stesso. Vi sono due condizioni che fanno, oggi come ieri, la
differenza tra destra e sinistra.
Una è la scelta della parte sociale da cui stare: in politica, nell’economia, nella cultura.
Il che significa o sostenere che le disuguaglianze non hanno alcun peso
nei rapporti sociali, o magari negare che esistano; oppure darvi il peso
che moralmente e politicamente meritano, e adoperarsi per ridurle.
L’altra condizione è la capacità di capire in che direzione si sta
evolvendo la situazione economica e sociale del momento. Perché se non
lo capisce uno sta uscendo, senza rendersene conto, dal corso della
storia.
Nel caso della prima condizione la differenza tra Roma e Firenze era
evidente. Alla manifestazione di Roma non c’erano (o erano poche) le
persone che dovevano scegliere se stare o no dalla parte dei deboli,
degli svantaggiati, delle classi inferiori di reddito, di quelli il cui
destino dipende sempre da qualcun altro. Erano loro stessi, la massa dei
partecipanti, a essere deboli, svantaggiati, poveri, perennemente in
balia del parere e della volontà di qualcun altro. Collocati, in altre
parole, al fondo delle classifiche delle disuguaglianze di reddito, di
ricchezza, di potere politico ed economico; disuguaglianze il cui
scandaloso aumento negli ultimi vent’anni, nel nostro paese come in
altri, accompagnato dalla scomparsa del tema stesso nel discorso delle
socialdemocrazie, ha fatto parlare più di uno studioso di nuovo
feudalesimo.
Invece nel garage semibuio di Firenze c’erano soprattutto persone a cui
l’idea di stare dalla parte dei più deboli e magari di dichiararlo
appariva semplicemente repellente, o quanto meno fastidiosa, non meno
che mettersi a parlare “in un mondo che è cambiato” di lotta alle
disuguaglianze. Al massimo i più deboli si possono aiutare a soffrire di
meno, non certo a diventare meno deboli, o a salire un gradino nella
scala delle disuguaglianze, grazie a un sindacato o un partito. Per non
dire che la parola “partito” significa appunto “aver preso parte” — idea
demolita a Firenze dall’idea di un partito- nazione (ma l’ha detto
qualcuno a Renzi che la parola “nazione” o “nazionale” figuravano tempo
addietro nel nome di un paio di partiti che molti guai procurarono
all’Italia e all’Europa?).
Anche per l’altra condizione non c’era confronto tra i partecipanti di
piazza San Giovanni e quelli della Leopolda. Per i primi era evidente
che quello che sta succedendo da parecchi anni è una “guerra
dell’austerità”, per usare la dizione di un noto economista americano.
Una guerra di classe in cui la destra si prefigge di distruggere le
conquiste sociali degli anni 60 e 70, che furono un tentativo riuscito
di sottoporre il capitalismo a una ragionevole dose di controllo
democratico. Le misure imposte da Bruxelles, di cui il governo Renzi, a
parte qualche battuta, è fedele esecutore, sono precisamente espressione
di tale guerra o conflitto di classe, nella quale le classi dominanti
hanno negli ultimi decenni conseguito una grande vittoria. Equivalente a
una dolorosa sconfitta per i manifestanti romani. A Firenze
l’interpretazione predominante della crisi è stata quella canonica delle
destre europee: lo stato ha un debito troppo alto, dovuto all’eccesso
di spesa; il problema è il costo eccessivo del lavoro; per rilanciare la
crescita bisogna ridurre le tasse alle imprese; i dettati di Bruxelles
sono onerosi, ma bisogna pur mantenere gli impegni, ecc. Ciascuno di
questi slogan è falso quanto dannoso — e si noti che a dirlo sono ormai
dozzine di economisti, compresi perfino alcuni esponenti delle dottrine
neoliberali. A parte l’interpretazione ortodossa della crisi, che non
sta in piedi, chi vi aderisce non si rende conto che ci si avvicina a un
momento in cui o si modificano i trattati europei e si adottano
politiche economiche opposte a quelle del governo Renzi (che sono poi
quelle degli ultimi tre o quattro governi, prescritte dalla Troika e da
noi passivamente messe in atto), o ci si avvia ad un lungo periodo di
grave recessione e di rapporti intereuropei sempre più difficili, nonché
dagli esiti imprevedibili.
Un’ultima nota: a saperlo interpretare (non che ci voglia molto), la
massa dei partecipanti di Roma ha lanciato un messaggio chiaro. Ha detto
in sostanza “siamo tanti, non contiamo niente, vogliamo essere
qualcosa”. Tempo fa, un messaggio analogo ebbe effetti rilevanti.
Ignorarlo, o parlarne con disprezzo, potrebbe rivelarsi un serio errore,
a destra come a sinistra.
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