giovedì 23 ottobre 2014

Missione compiuta! Repubblica festeggia la mutazione definitiva della sinistra italiana

Ci hanno messo diversi decenni - tanto era potente quella tradizione che si proponevano di stravolgere - ma ci sono riusciti [SGA].


Il documentario. Viaggio nelle sezioni sulle orme del film di Nanni Moretti. I militanti di allora si ritrovano dopo 25 anni per fare un bilancio della Svolta: "Sognavamo una cosa più grande e più bella". L'appello dei giovani del Pd: "Pensate a noi, altrimenti saremo una generazione senza futuro". Con un'intervista all'ex leader del Pci che nel novembre 1989 decise di cambiare nome al partito: "La mia rivoluzione è stata tradita".



Quelli della Bolognina venticinque anni dopo “Così abbiamo smesso di essere comunisti”
Che fine hanno fatto i militanti del film di Nanni Moretti? Nell’anniversario della Svolta siamo tornati a Francavilla, Roma, Bologna per interrogarli sul futuro della sinistra
di Concetto Vecchio 
Repubblica 23.10.14

SOLO una vecchia foto in bianco nero, ingiallita dal tempo. Quattro ragazzi addossati a un muro di Testaccio. Ma sembra la locandina di un film sugli anni Settanta. «Ecco — dice Roberto Martini, puntando l’indice sul primo da sinistra — questo ero io, e son l’unico che si è salvato: gli altri sono morti tutti, per eroina. Io invece sono vivo grazie al Pci, per aver fatto la militanza, ogni giorno venivo in sezione, anche la domenica venivo, per distribuire l’Unità, questo quartiere era povero e noi l’abbiamo reso ricco; soprattutto la politica riempiva di senso la mia vita. Questi anni non sono passati invano. Quando vedevo la bandiera rossa mi venivano i brividi, mi vengono anche adesso».
Nel film “La Cosa” di Nanni Moretti, che raccontava lo spaesamento delle sezioni comuniste alle prese con il cambio del nome proposto dal segretario Achille Occhetto, nell’inverno del 1989, Martini è il più fiducioso di tutti, il più ottimista: «Finalmente c’è una strada nuova. Compagni, non fermiamoci ai risentimenti. Vediamo la sostanza politica: ora potremo finalmente creare l’alternativa in Italia ». Che fine aveva fatto, Martini? Le aspirazioni di quei giorni lontani sono andate deluse? Un giorno di giugno siamo riusciti a scovarlo. E poi lo abbiamo messo a confronto con un altro compagno, nella Casa della sinistra di Testaccio, Michele Crocco, che nel film invece si batteva con sarcasmo contro il cambio del nome: «Io sono comunista perché come ideale ho l’abolizione della proprietà privata, a me l’iniziativa privata non me sta bene manco per il cazzo!». Ne è nato un documentario, “La Bandiera Rossa”, che potete vedere sul sito di Repubblica.
Crocco ha i capelli tutti bianchi, e al furore è subentrata la dolcezza della maturità. Discutono tra loro, incuranti della telecamera. A un certo punto Martini dice: «Non avrei mai pensato che poi una parte della Dc sarebbe confluita con noi. Non ci sarei mai arrivato. Mi hanno detto: proprio tu non aderisci al Pd? Sì, proprio io. Voglio stare in un partito chiaramente di sinistra, non in un’accozzaglia di anime». E Crocco, stupefatto: «Ma guarda che strano! Tu che hai tutta questa storia». Martini tifa per Sel, Crocco guarda con simpatia a Renzi. Le posizioni si sono rovesciate. Chi l’avrebbe mai detto, allora? Crocco lo incalza: «Perché abbiamo il dovere di governare subito, con i problemi che ci sono adesso. Non è più possibile aspettare. Qual è stato sempre il problema storico della sinistra, da quando è nata? Che c’è sempre qualcuno che sta più a sinistra di te, che è più puro di te». «Hai ragione», gli dice Martini. Ma non pare convinto. «Vedi, io sognavo un partito socialista, come in Germania, come in Svezia, un partito che avesse al suo centro la lotta per il lavoro». «Sì, ma non è possibile pensare che non si cambia più niente, sono anni che non si cambia», si fa concitato Crocco. «Eh, e che te devo dì!». E alla fine i due compagni ritrovati si abbracciano ridendo: «Meno male che questo famoso comunismo non è mai arrivato in Italia».
Poco prima di Francavilla di Sicilia ci fermano i carabinieri. «Chi siete? Che fate?» «Un documentario sui comunisti». Il brigadiere ci squadra con occhi ironici, increspa le labbra. All’istante ci sottopone all’alcoltest.
«Partendo da questo, da questo grande patrimonio, si pone l’obiettivo di costruire una cosa — una cosa — che è più grande, e se mi consentite l’espressione, più bella». “La Cosa” si apre così, con questa petizione di Luigi Savoia, detto Gino. Aveva 39 anni. Ci aspetta davanti alla sede della Cgil. Allora, l’avete fatta più grande e più bella? Scuote la testa, amaro. «No, no». La piccola sala è piena, molti di loro non si vedevano da quei giorni, fioriscono i ricordi, contro Scelba nel ‘72, la mattina che trovarono morto Moro nel ‘78, ma non è un raduno di reduci, sono venuti anche i più giovani. Mettiamo a confronto Nino Silvestri, 90 anni, tutti spesi nelle lotte a sinistra, con Doriana Anzalone, la figlia del segretario della Cgil, nata proprio alla vigilia della Svolta. Silvestri era analfabeta, mangiava solo finocchi bolliti, «mi diedi al Pci con tutta la sua forza, ho quattro figli e otto nipoti, tutti laureati, noi abbiamo portato il benessere in questo paese» e Anzalone, sfiduciata: «Sì, ma per quelli della mia generazione non c’è speranza, non c’è futuro, questa politica non la riconosciamo, ci sa dire solo “andate all’estero”, ma io all’estero non ci voglio andare ». È un confronto drammatico. Ci sono quasi 70 anni di differenza tra i due, ma ora la storia sta andando all’indietro. «Il comunismo almeno ci indicava una via, un modello», è il rimpianto di Oreste Siciliano. «Voto Tsipras». Savoia era migliorista, la destra del partito. Ora consegna questo paradosso: «Ho la tessera del Pd, ma alle Europee non l’ho votato. Renzi non mi rappresenta. È stato un errore mortale puntare tutta sulle riforme istituzionali, prima veniva il lavoro, la lotta alla povertà ».
Poi prende la parola Carmelo Riolo. È un uomo alto e robusto, ma timidissimo. La voce è appena un sussurro. «Era difficile essere comunisti in questo paese governato dai democristiani. Fino agli anni Sessanta c’erano quattro capitalisti che la mattina radunavano i lavoratori in piazza, e dicevano, “tu vai a lavorare in quella contrada”, “tu in quell’altra”, noi comunisti eravamo sempre gli ultimi a essere chiamati: eravamo come servi, come schiavi». E come stelle gli devono esplodere i ricordi. Di quella Sicilia dove i padroni la domenica mattina facevano attendere i contadini curvi sotto il sole della Matrice («il barone deve fare colazione»), e solo a sole ormai alto il barone scendeva e distribuiva la sua magra paga: “Cia pizzu i soddi” («Ci perdo i soldi con voi»). Questa era la Sicilia, nel Dopoguerra. E all’improvviso Carmelo si azzittisce. Non sa più andare avanti, è come se quella reminiscenza lo paralizzasse. Nessuno osa incoraggiarlo, né rimproverarlo. Che facciamo? Niente facciamo, dobbiamo solo aspettarlo. E poi, come ridestandosi da un sogno, Carmelo ritrova il filo, trova le parole che cercava. E le parole che cercava sono queste: «Poi abbiamo alzato la testa grazie al Partito comunista».
«Segretario, siamo qui per un viaggio, un viaggio nella sinistra italiana».
«Ah, bene, e per caso l’avete trovata?» Questo è stato il primo approccio con Achille Occhetto, un pomeriggio di settembre nella sua casa nel centro di Roma. C’è in quel gesto che fece alla Bolognina — un gesto complesso, l’atto di un attore shakesperiano che gioca la carta della vita sul proscenio della Storia — un mistero che il tempo non ha mai diradato. Perché mise fine a una vicenda collettiva che durava da quasi 70 anni senza avvertire nessuno, con un dire cifrato? Aveva annunciato il cambio del nome del Pci — il cambio del nome di un partito che aveva ancora 1 milione e 450mila iscritti — e nessuno lo capì veramente. L’incontro con i partigiani avviene alle undici del mattino, dura appena cinque minuti. L’ Ansa fa un unico lancio alle 15,44. Titolo: “Occhetto: bisogna inventare strade nuove”. All’indomani l’ Unità, diretta da Massimo D’Alema, che allora vendeva 140mila copie, copiò la notizia d’agenzia relegandola a pagina 8, fotocopiando in copertina perfino il titolo dell’ Ansa. Appena in un occhiello, il riferimento ipotetico alla possibilità del cambio del nome. Solo all’indomani, lunedì, quando Occhetto riunisce i colonnelli della segreteria, la notizia esplode in tutta la sua portata. Diego Novelli incontra Pietro Ingrao a Montecitorio: «Scusa, tu sapevi nulla?», e quello scuote la testa sconcertato; Lucio Magri chiama Alessandro Natta: «Ma davvero cambiamo nome?» E Natta: «Sto pensando ad altro». Occhetto riempie meticolosamente la pipa. Era il Re Sole della sinistra. Alla fine aveva tirato fuori dalle macerie del comunismo internazionale il Pci, e nell’inverno del ‘94 pareva avviato alla più sicura delle vittorie. E invece, a scompigliare le carte, ecco il sassolino che s’infila negli ingranaggi della sorte: Silvio Berlusconi. L’alieno giunto da un pianeta lontano. A un certo punto Occhetto dice: «Se Martinazzoli avesse detto sì all’alleanza con noi Progressisti avremmo vinto noi».
A Bologna, nella mitica sezione della Bolognina, tutti si fanno attorno a Maria Della Lama. Ha 79 anni. I ragazzi si affollano dinanzi al telefonino dove scorrono le immagini della “Cosa”. «Quanto eri bella, Maria», le dicono. Maria si schermisce, e poi attacca a raccontare di quando lei e Bologna erano più giovani di adesso. «Ho creduto in Bersani, ma poi mi ha deluso. Renzi non sarà la perfezione, però ha coraggio. Anch’io devo pensare al futuro, sa, ho dei figli, dei nipoti, non è un tempo facile per nessuno». La sezione ha 284 iscritti, dice Rolando Rocchetti, che ci ha passato l’intera esistenza. Erano mille negli anni d’oro. Il segretario, Mario Oliva, viene dal Pci, ma è un renziano della prima ora. I giovani litigano sull’articolo 18. È una discussione vera. «Guarda che io ho perso due volte il lavoro» s’infervora un ragazzo con la consigliera Daniela Vannini, che esprime dubbi sul Jobs Act. «Oh, l’articolo 18 l’ha cambiato anche il Pd quando era al governo con Monti, di cosa stiamo parlando?» rincara la dose un signore con la Lacoste. Maria osserva tutto, in silenzio. Nel film di Moretti diceva: «Ho tanta confusione, dolore, tante domande».
Sì, Occhetto, la sinistra c’è ancora, in queste sezioni, in queste domande. Torniamo a Roma dondolati dal vagone, il cuore di simboli pieno. Prima di andarcene un militante, Mario Del Balzo, ci prende in disparte: «Venga con me». A duecento metri, in via Tibaldi 17, c’è la sala dove Occhetto parlò ai partigiani in quella lontana domenica. È diventata una sala di parrucchieri, gestita da cinesi, anche le scritte sono in cinese, la signora smette di fare i bigodini, si affaccia. E Del Balzo, con un lampo di soddisfazione: «Come vede, da questo posto i comunisti non se ne sono mai andati».


Il premier corona il sogno di Veltroni e si intesta il modello americano
Tutto (e tutti) dentro lo stesso contenitore, e basta liti di coalizione
di Mattia Feltri La Stampa 23.10.14

Da una decina d’anni qualche osservatore sottolinea il paradosso che gira attorno al Pd e alle coalizioni di sinistra, che si chiamassero Gad, Unione o roba simile: che senso ha mantenere la struttura del partito se la legittimazione al leader discende dal voto popolare attraverso le primarie? Cioè, che senso ha l’intermediazione del partito se il rapporto con l’elettore è diventato diretto, ed è l’elettore a scegliere il candidato sindaco, il candidato governatore, il candidato premier? Se ne discusse un poco fra il 2007 e il 2008, quando il Pd nacque con l’investitura (mediante primarie) di Walter Veltroni, che al partito voleva consegnare una vocazione maggioritaria. Si parlava di partito liquido - con le conseguenti ironie di chi soprattutto non pareva attrezzato a cogliere l’aria mutata - cioè di un partito che abbandonasse l’armamentario di tessere, quadri, sedi, e si muovesse agilmente in un mondo dall’andamento frenetico. Si impegnavano paragoni con i partiti americani, quello repubblicano e quello democratico, che tessere e quadri e sedi non sanno che siano, e hanno giusto un’organizzazione da comitato elettorale permanente. Poi Veltroni non ce la fece, troppe opposizioni interne, non poche titubanze, e mediazioni disastrose come quella che lo condusse a metà del guado fra la sua idea di bipartitismo e quella prodiana di grande ammucchiata: si alleò con Antonio Di Pietro, che subito dopo le elezioni istituì in Parlamento il gruppo dell’Idv, e si portò con sé i radicali, con cui il filarino non andò benissimo.
Però la direzione era giusta e se n’è avuta conferma alla direzione del Pd, quando Matteo Renzi ha appoggiato l’ipotesi di attribuire alla lista e non alla coalizione il premio di maggioranza, e non per caso lo ha notato e sottolineato Europa. Se il premio di maggioranza va alla lista, e dunque al partito, la coalizione non ha più ragioni sociali: inutile mettere insieme quella carovana fracassona con comunisti, verdi, cattolici, giustizialisti, garantisti, società civile, professionisti della sezione, tutti concentrati sull’impresa di dare un senso al loro simboletto, se necessario con la guerriglia. Invece di aprire la coalizione, l’idea di Renzi è di aprire il partito: dentro chi vuole, lo spazio c’è, dentro gli ex vendoliani di Sinistra e libertà, dentro i cattolici di Per l’Italia, dentro Scelta civica, e se vuole benvenuto a Marco Pannella, a ex grillini e, per gli amanti del prontuario medico della politica, benvenuti a ex Api, Centro democratico, socialisti, popolari di centrosinistra... Tanto ora si può fare perché la vera novità del dominio renziano è che dal partito si è esteso al governo e si è preso tutto. Pareva l’errore madornale, mai nessuno aveva conservato da Palazzo Chigi la leadership del partito. Una cosa era il segretario e un’altra il premier. E invece Renzi si è preso il modello americano per cui il candidato alla presidenza (sempre via primarie) è automaticamente il leader del partito, lo sarà anche dalla Casa Bianca e, finché dura, spadroneggia. E Renzi spadroneggia di già, e lo teorizza, perché ha vinto le primarie e ha preso il 41 per cento alle Europee.
E’ sempre complicato paragonare la nostra politica con qualsiasi altra, ma il Pd che frulla nella testa di Renzi ha sempre più l’aria del partito americano: un capo indiscusso, che decide priorità e dottrina, e una lista sostenuta e finanziata da gruppi di varia ispirazione, religiosa o economica o sociale o generazionale, e infatti nei democratici di Barack Obama convivono liberisti, pro-gay, antiabortisti, apostoli irriducibili del possesso privato di armi, interpreti di interessi territoriali. Un’organizzazione del genere qui è ancora improponibile, perché c’è una solida tradizione partitica e di fazione, e perché prevede una totale assenza di mandato parlamentare: senatori e deputati americani rispondono soltanto all’elettore, non certo al Matteo Renzi di passaggio e alle sue esigenze. E però si guarda da quella parte. Nei prossimi giorni, Renzi sarà a due cene in cui il posto a tavola costa mille euro, e il cui obiettivo dichiarato è raccoglierne un milione per il Pd, un sacrilegio berlusconiano per la sinistra, una strategia anticamente americana per il premier: si comanda se ti danno il voto, e se ti danno di che campare si comanda anche meglio.

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