mercoledì 29 ottobre 2014

Università pubblica: Renzi pronto a tagliare anche questo ente ormai inutile. La professione dell'insegnante è la prosecuzione della baby sitter con altri mezzi

Bisogna dirlo una volta per tutte: basta con la retorica della cultura, della scuola e dell'università, ecc. ecc. L'università serve ai paesi che vogliono svilupparsi. Se un paese non vuole e non può farlo e ha deciso di competere tagliando il costo del lavoro, l'università pubblica non serve a nulla ed è solo un costo. Bastano poche università d'elite e per il resto fanculo.
Saltato qualunque rapporto tra formazione e mercato del lavoro (perché non esiste un mercato del lavoro degno di questo nome) il lavoro del docente, in Italia, è la prosecuzione con altri mezzi di quello della baby sitter [SGA].

Università, addio al posto fisso: ricercatori sempre precari 

Spending review. La legge di stabilità 2014 sarà un vero affare per gli atenei? Le prime analisi della bozza hanno scovato il diavolo nel dettaglio: Renzi ha bloccato i tagli per un biennio, ma li farà pagare con gli interessi nei prossimi otto anni. Vediamo come
Roberto Ciccarelli, il Manifesto ROMA, 28.10.2014 
Il dia­volo si nasconde nei det­ta­gli. E la legge di sta­bi­lità fir­mata dal pre­si­dente della Repub­blica Napo­li­tano con­ferma il pro­ver­bio. Par­liamo delle norme sull’università. Il governo ha festeg­giato l’aggiunta da 150 milioni di euro ad un bud­get tagliato di 1,1 miliardi di euro da Tre­monti. Que­sti soldi dovreb­bero azze­rare quasi del tutto il taglio da 170 milioni pre­vi­sto. La mini­stra dell’Università e della ricerca Ste­fa­nia Gian­nini ha ipo­tiz­zato l’assunzione imme­diata di 7–800 ricer­ca­tori nelle uni­ver­sità cosid­dette «vir­tuose», 2 mila a regime. Un vero affare, dun­que. Qual­cosa allora si muove!
Non è così. Per­ché la ridu­zione della spesa è pre­vi­sta solo per i primi anni e lo stan­zia­mento annun­ciato vale solo per i primi anni. Una volta esau­rite le risorse, con­ti­nuerà la ridu­zione delle risorse del fondo per il finan­zia­mento ordi­na­rio degli ate­nei. Sul sito Roars​.it Anto­nio Banfi ha fatto qual­che cal­colo: da oggi al 2023 i tagli ammon­te­reb­bero a 1.431 milioni di euro. In media, ogni anno, agli ate­nei ver­reb­bero sot­tratti 159 milioni di euro, una cifra dun­que di poco infe­riore al taglio voluto da Tre­monti (-170 milioni).
Renzi e Gian­nini avreb­bero così bloc­cato i tagli solo per un bien­nio, pren­dendo le risorse dai fondi «Fsra». Al futuro non pen­sano. A par­tire dal 2023, infatti, i tagli annuali aumen­te­reb­bero addi­rit­tura del 64%, pas­sando da 170 a 278 milioni di euro (+108 milioni). L’impresa di Renzi ver­rebbe dun­que pagata, con gli inte­ressi, dalla pros­sima gene­ra­zione. «Il Governo sta riu­scendo nell’impresa para­dos­sale di peg­gio­rare le già dispe­rate con­di­zioni di vita degli ate­nei — sostiene Alberto Cam­pailla, del coor­di­na­mento uni­ver­si­ta­rio Link — Si sot­trag­gono infatti al Fondo per gli ate­nei 234 milioni di euro nei pros­simi 8 anni, cui si aggiun­gono gli oltre 25 milioni di euro tagliati con il Decreto Irpef e i 173 milioni di decre­mento rela­tivi al man­cato rifi­nan­zia­mento del piano straor­di­na­rio di reclu­ta­mento dei pro­fes­sori asso­ciati». Ci sono anche novità impor­tanti sulla tipo­lo­gia dei ricer­ca­tori che dovreb­bero essere assunti. 
Il ricer­ca­tore tori­nese Ales­san­dro Fer­retti su un blog de «Il Fatto Quo­ti­diano» segnala che nella bozza della mano­vra (arti­colo 28, comma 29) c’è l’abolizione del ricer­ca­tore «tenure track», quella figura creata dalla riforma Gel­mini, anti­ca­mera all’assunzione da pro­fes­sore asso­ciato a tempo inde­ter­mi­nato. Dun­que, i 7–800 ricer­ca­tori che dovreb­bero essere assunti saranno tutti pre­cari. Una volta con­cluso il loro con­tratto a ter­mine, rico­min­ce­ranno il giro della ruota del cri­ceto. «Sulla ricerca, oltre ai 42mln di tagli al Fondo ordi­na­rio per gli enti di ricerca, il governo peg­giora il piano “libere assun­zioni” — sosten­gono gli stu­denti di Link — Con un colpo di mano Renzi eli­mina il comma che impo­neva un minimo di assun­zioni a tempo inde­ter­mi­nato e punta sull’estensione totale del pre­ca­riato nella ricerca».

Grandi riforme: i ricercatori precari a vita
Lalegge di stabilitù cancella con un comma l’obbligo delle Università di fare nuove assunzioni stabili
di Carlo Di Foggia il Fatto 30.10.14
Il colpo di grazia è servito: via una lettera da un comma e l’università non cambia verso, dà la volata finale verso il precariato. Con un tratto di penna, infatti, la legge di stabilità traduce nel mondo accademico quella “fine del posto fisso” certificata alla Leopolda dal premier: estingue, di fatto, la figura del ricercatore precario ma con prospettive di assunzione. Come? Semplicemente cancellando la parte delle prospettive. Breve riassunto: con la scusa di premiare il merito, nel 2010 la contestata riforma voluta da Mariastella Gelmini ha abolito il ruolo del ricercatore a tempo indeterminato, sostituendolo con quello a termine (Rtd). Ne esistono di due tipi, quello A (senza sbocchi) - che dura fino a cinque anni non rinnovabili - e quello B (la vera e unica figura di ingresso prevista dalla riforma), con contratto di tre anni dopo i quali si viene convertiti in professore associato. Questa tipologia costa di più in termini di punti organico - cioè le risorse per le assunzioni assegnate dal Miur a ogni ateneo - e visto che continua la carriera conserva la quota, senza restituirla per essere poi riassegnata come capita invece con l’altra tipologia, quella di tipo
A. Per evitare che atenei e dipartimenti assumessero solo questi ultimi, nel 2012 il ministro Alessandro Profumo stabilì che per ogni professore ordinario, l’ateneo dovesse assumere anche un ricercatore di tipo B. Un obbligo che ora viene eliminato dalla legge di stabilità (articolo 28) e con esso l’unica speranza di un’assunzione a tempo indeterminato.
TANTO PIÙ CHE questa tipologia è già stata decimata dal blocco del turnover: sono solo 200 a fronte dei 2000 Rtd attualmente in servizio. Tecnicismi a parte, la novità rischia di avere un effetto gigantesco sul sistema di reclutamento, di fatto bloccandolo. Secondo la rete dei ricercatori precari, così facendo cresceranno solo le promozioni, quelle che aumentano la base elettorale dei rettori. Stando ai dati del rapporto Ricercarsi (Cgil), dei 65 mila ricercatori precari impegnati nell’ultimo decennio nelle università il 93 per cento non è stato assunto. Peggio ancora va con gli assegnisti di ricerca, più precari dei precari visto che la Gelmini gli ha imposto un limite di quattro anni: dei 15.300 in servizio, il 96 per cento lascerà l'università. Il trend è disastroso, dal 2003 il numero di contratti a termine è passato da poco meno di 18 mila a 31 mila. Per mascherare la misura, il ministro Stefania Giannini ha annunciato che la ex Finanziaria permetterà agli Atenei di assumere nuovi ricercatori sbloccando al 100 per cento il turnover (“700-800, circa duemila a regime”). Peccato, però, che stando al testo, questo potrà avvenire solo dal 2018, quando lo sblocco sarebbe arrivato lo stesso. Un bluff che fa il palio con quello dei tagli al fondo di finanziamento delle Università. Secondo la rivista Roars, l’incremento delle risorse sbandierato dal governo vale solo per il 2015, dopo di che la limatura da qui al 2023 ammonterà a quasi un miliardo e mezzo di euro. Per gli enti di ricerca è previsto invece un taglio di 42 milioni.
Ieri, i lavoratori dell’Inea, un istituto pubblico di ricerca in campo alimentare hanno occupato la sede nazionale del Pd. La legge di stabilità accorpa infatti l’Ente (commissariato e sotto inchiesta per la gestione dissennata dei vertici, vicini al’'ex ministro Gianni Alemanno) lasciando a casa 210 ricercatori. Dulcis in fundo, lo Sblocca Italia.
COME DENUNCIATO dalla rete Link, il testo che verrà licenziato oggi dalla Camera mette a rischio 150 milioni di euro di fondi regionali per il diritto allo studio. Le Regioni avevano promesso di inserirli nelle maglie del patto di stabilità, in cambio della promessa del Governo di cancellare tagli per 560 milioni. E invece, nel decreto è finita solo la prima parte: a rischio ci sono 46 mila borse. Solo due mesi fa, a settembre, Matteo Renzi aveva spiegato al Sole 24 Ore: “Investirò nei settori strategici, come l'istruzione e la ricerca”.

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