martedì 25 novembre 2014

Crociata o massacro? Le contraddizioni della Chiesa cattolica nella Prima guerra mondiale


don Bruno Bignami: La Chiesa in trincea. I preti nella Grande guerra, Salerno editrice

Risvolto
Il cattolicesimo europeo ha reagito in maniera contraddittoria alla Grande Guerra. Da una parte, Benedetto XV, e con lui la Santa Sede, sposa una linea neutrale, dall’altra ogni episcopato nazionale giustifica l’intervento armato. La Grande Guerra fa tornare alla ribalta il tema del rapporto della chiesa con il mondo. Infatti, l’impegno in prima linea di circa 25mila tra pretisoldato e cappellani militari che offrono un contributo alla guerra, ha avuto conseguenze inimmaginabili sulla loro vita. Per la prima volta i preti si trovano immersi nel mondo con i relativi drammi umani. Mentre nella formazione seminaristica del tempo prevale la logica di creare istituzioni isolate dal mondo nel conflitto, l’incontro-scontro con la cruda realtà fa emergere un senso profondo di condivisione verso l’umanità sofferente. Niente è più come prima. La Grande Guerra modificherà infatti il rapporto tra «Chiesa e mondo» visti in contrapposizione, imponendo la nuova concezione di «Chiesa nel mondo» che troverà piena consapevolezza solo nel Concilio Vaticano II.  


Uomini di dio nelle trincee I cattolici divisi dalla grande guerra tra patriottismo e volontà di pace

di Paolo Mieli Corriere 25.11.14

Papa Benedetto XV (al secolo Giacomo Della Chiesa) diede la celebre definizione della Prima guerra mondiale come un’«inutile strage» in una «Nota ai capi dei popoli belligeranti» resa pubblica il 1° agosto del 1917, in occasione dei tre anni dall’esplosione del conflitto. «Nessuno può immaginare» — scriveva il Pontefice esortando i governanti dei Paesi in armi a cercare immediatamente «una pace giusta e duratura» — «quanto si moltiplicherebbero e quanto si aggraverebbero i comuni mali se altri mesi ancora o peggio se altri anni si aggiungessero al triennio sanguinoso». Per poi esortare i «capi dei popoli belligeranti» a giungere «quanto prima alla cessazione di questa lotta tremenda, la quale, ogni giorno di più, apparisce inutile strage». Parole che attestavano uno stato d’animo diverso da quello che aveva pervaso la sua allocuzione al concistoro, il 22 gennaio 1915. Nel 1915 il Papa si era limitato a fare riferimento ai criteri di un esercizio della forza «proporzionale» e della giusta causa di una guerra. Aveva chiesto che le regioni invase non venissero «devastate più di quanto sia strettamente richiesto dalle ragioni dell’occupazione militare», e che non fossero «feriti, senza vera necessità, gli animi degli abitanti in ciò che han di più caro, come i sacri templi, i ministri di Dio, i diritti della religione e della fede». 
Trentuno mesi dopo — mette bene in evidenza lo storico e sacerdote don Bruno Bignami in La Chiesa in trincea. I preti nella Grande guerra di imminente pubblicazione per i tipi di Salerno editrice — Benedetto XV «evitava (volutamente) due termini: l’espressione “guerra giusta” e il concetto di patria». E parlava di «inutile strage» dopo aver già definito il conflitto «suicidio dell’Europa civile» (4 marzo 1916) e «la più fosca tragedia della follia umana» (4 dicembre 1916). Don Giovanni Minzoni, il prete romagnolo che sarà ucciso dai fascisti il 23 agosto del 1923, testimoniò che la Nota pontificia dell’agosto 1917 aveva suscitato un «gran nervosismo». Padre Giovanni Semeria, cappellano militare presso il Comando supremo del generale Luigi Cadorna, nelle Nuove memorie di guerra (Amatrix), a proposito di quel documento, scrisse che «i Francesi lo trovarono troppo poco antitedesco e i Tedeschi troppo poco severo colla Francia anticlericale». 
Il cattolico Tommaso Gallarati Scotti riferì che la parola del Papa aveva sollevato una «tempesta di ire» all’interno del Comando supremo dell’esercito italiano. La Santa Sede «fu vista come nemica dell’Italia», qualche generale, «solitamente non ostile alla Chiesa e di temperamento moderato», usò frasi minacciose all’indirizzo del Pontefice: «Bisogna impiccarlo!». Don Carmine Cortese, cappellano militare dell’ottavo reggimento Alpini Val Natisone, prese nota nel suo diario della discussione con un maggiore che aveva definito Benedetto XV «delinquente, tisico, deforme, che non tarderà tanto a scendere nella tomba». Per poi passare ad accuse dal carattere più marcatamente politico: Giacomo Della Chiesa sarebbe stato, a giudizio di quel maggiore, un «austrofilo» che faceva «gli interessi della Germania». E non furono accuse affidate esclusivamente alle pagine segrete delle lettere o dei taccuini personali. In un discorso pronunciato il 23 ottobre 1917 (il giorno prima della disfatta di Caporetto) il ministro degli Esteri italiano, Sidney Sonnino, disse esplicitamente che il Papa aveva stilato una Nota di «ispirazione germanica». 
Fino a quel momento il fenomeno dei cattolici favorevoli all’intervento era stato di una qualche entità. Dall’ottobre del 1914 la Lega democratica cristiana di Eligio Cacciaguerra, Giuseppe Donati ed Eugenio Vaina de Pava si schierò dalla parte degli interventisti. Furono soprattutto Donati e Vaina, scrive Bruno Bignami, «a vedere nella guerra l’occasione per affermare la democrazia nella vita interna dell’Italia e a livello internazionale». Il tutto sarebbe dovuto passare attraverso l’umiliazione dell’Austria, «cancrena d’Europa». E alla Lega si avvicinarono molti giovani cattolici tra cui don Primo Mazzolari, futuro cappellano militare che poi però avrebbe duramente criticato la condotta degli ufficiali: «l’esercito, non c’è scampo, è il rifugio degli imbecilli», scrisse sul suo diario. Fu cappellano militare anche Angelo Roncalli, futuro Papa Giovanni XXIII. Tra i preti che si arruolarono ce ne fu uno, don Annibale Carletti, che nel 1916 guadagnò la medaglia d’oro per aver partecipato alla difesa eroica di Passo Buole. Interventista fu — dopo qualche incertezza iniziale — Filippo Meda, il primo esponente politico cattolico ad assumere (nel 1916) un incarico ministeriale nell’Italia unita. Meda e i suoi collaboratori giustificarono il loro passaggio dal neutralismo all’interventismo con la riprovazione dell’ingiusta aggressione dei tedeschi al Belgio, la scoperta degli sproporzionati metodi bellici usati dagli Imperi centrali, e del «valore della guerra come strumento di maturazione dei popoli», nonché l’interesse della patria «che non poteva vedere indifferenti i cattolici». Così il vescovo di Recanati, monsignor Alfonso Maria Andreoli, diede alle stampe una «Notificazione al clero e al popolo» dai toni iper patriottici: «Oh! Che questa cara patria così privilegiata da Dio, raggiunga altresì il primato delle armi e della vittoria, nel duro cimento di quest’ora fatidica, perché siano rese all’Italia le terre italiane, che per noi sono fatte». E il cardinale Pietro Maffi, arcivescovo di Pisa — che già nel 1911 aveva esaltato la guerra di Libia — adesso, nel 1915, pubblicava un opuscolo intitolato Fede e patria , il cui sottotitolo, Discorsi patriottici per una più grande Italia , stava a testimoniare un’adesione incondizionata alla causa dell’intervento. Grande interprete di questa corrente cattolica a favore dell’entrata in guerra fu don Illemo Camelli (ex socialista), ispiratore dei giornali «La Provincia» e «La Squilla». Oppositore dell’ingresso nel grande conflitto fu invece il deputato Guido Miglioli, con il suo giornale «L’Azione». E i due, Camelli e Miglioli, furono coprotagonisti del «caso Cazzani» che mise in luce un forte contrasto nel mondo cattolico. 
Monsignor Giovanni Cazzani, vescovo di Cremona, ebbe l’onore di una citazione da parte di Benedetto XV il quale, in un’intervista rilasciata nel giugno del 1915 (poco dopo l’entrata in guerra dell’Italia) al giornale francese «La Liberté», rivelò che il presule lombardo lo aveva informato del fatto che l’esercito italiano aveva preso in ostaggio diciotto preti austriaci. Secondo il Papa quella cattura dei sacerdoti rientrava nella categoria degli «eccessi» da riprovare, visto che non era «permesso a nessuno, per qualsiasi motivo, di violare la giustizia». Il presidente del Consiglio Antonio Salandra andò su tutte le furie per questa sortita di Benedetto XV. Monsignor Cazzani a quel punto rivelò che la notizia gli era stata data dall’autorità militare di Cremona, che si era rivolta a lui per chiedere indicazioni a proposito di una ventina di preti goriziani prigionieri che chiedevano di poter celebrare la messa. 
Negli anni successivi Cazzani prese le distanze prima da Camelli (per i suoi supposti legami con i massoni della Lega patriottica) e poi dall’«Azione» di Miglioli, che il 9 settembre del 1916 fu da lui sconfessata «per la sua vicinanza alle posizioni socialiste». Ma i dissidi proseguirono anche dopo la fine della guerra, allorché «La Provincia» (ispirata, come si è detto, da don Camelli) il 31 dicembre 1918 riferì dell’«animata discussione di monsignor Cazzani con i parroci di Cremona durante i tradizionali auguri natalizi»: alcuni preti avevano accusato il vescovo di «tradimento del sentimento patriottico attraverso il sostegno all’opera di Miglioli». Gli avevano altresì rimproverato di aver finanziato «L’Azione» con soldi della Cassa ecclesiastica, e soprattutto di aver «spostato i preti della diocesi non con la preoccupazione della cura spirituale delle parrocchie, ma con un occhio alle necessità elettorali dell’onorevole Miglioli». L’articolo concludeva con queste feroci parole: «Ogni crisi di clero è crisi di pastore: l’attuale crisi cattolica è crisi del vescovo». Un’esortazione quasi esplicita alla rimozione di Cazzani dalla sede vescovile di Cremona. E lui, dai suoi, fece rispondere per le rime: «L’amor di patria non è monopolio dei signorotti della democrazia della “Provincia”, della “Squilla” o dei preti da esse lodati (riferimento quasi esplicito a don Camelli, ndr ); e se questi giornali non credono all’amor patrio del vescovo e di quanti stanno con lui, noi siamo da ciò autorizzati a dire che nessuna fede merita quelli che da essi millantano». Cazzani rimase poi al suo posto, non si compromise con il fascismo e, anzi, difese in più occasioni don Primo Mazzolari che con il fascismo si scontrò e divenne in seguito partigiano. 
Quello di monsignor Cazzani non fu l’unico caso di dissidio nel mondo della Chiesa. «Il Messaggero» avviò una campagna contro il vescovo di Nepi e Sutri, monsignor Giuseppe Bernardo Doebbing, un francescano di origini tedesche, accusandolo di aver invitato i suoi preti a pregare per la vittoria della Germania e di aver addirittura «promosso attività di spionaggio». Il consiglio comunale di Nepi e una rappresentanza dei cittadini di Sutri chiesero al governo la revoca de ll’ exequatur (formula con cui lo Stato, prima del Concordato, concedeva l’esecutività ad atti della Santa Sede) e l’allontanamento di Doebbing. Il collegio dei parroci lo difese, invece, con veemenza. Un magistrato inoltrò al ministero di Grazia e giustizia la richiesta della sua rimozione. E il caso era già all’analisi degli organi ministeriali competenti quando, il 14 marzo 1916, giunse all’improvviso la notizia della morte di Doebbing. Simile il caso del vescovo di Tivoli, monsignor Gabriele Vettori, denunciato per antipatriottismo dal sindaco della sua città, secondo il quale avrebbe «esiliato» alcuni sacerdoti perché, essendo «patriottici», la pensavano in modo diverso dal suo. Si occupò del caso il procuratore generale di Roma, che, dopo un accurato esame, assolse il vescovo con formula piena: i «sacerdoti patriottici» in realtà erano stati mandati via perché «ricevevano in canonica donne con troppa frequenza creando scandalo tra la gente». Ma il Papa si sentì in dovere di tornare sulla questione, il 6 dicembre 1915, «promuovendo» monsignor Vettori alla diocesi di Pistoia e Prato. Venne trascinato in giudizio con capi di imputazione assai somiglianti anche il titolare della diocesi di Albenga, monsignor Angelo Cambiaso, che, dopo una complessa istruttoria, fu assolto per insufficienza di prove. E il vescovo di Portogruaro, monsignor Francesco Isola, accusato di «austriacantismo», fu cacciato dalla diocesi a furor di popolo. Il capo di imputazione era interamente basato sulla sua predica di Natale del 1917 nella quale aveva parlato di «valoroso esercito austriaco». Ma anche nel suo caso il processo che ne seguì si concluse con un’assoluzione. 
Il parroco di Soresina — la patria di Miglioli, in provincia di Cremona — don Zaccaria Priori, fu sospettato di attività disfattiste per essersi uniformato alle critiche alla guerra di Benedetto XV. Il procuratore generale di Brescia propose addirittura di sequestrare le rendite del beneficio parrocchiale di cui don Priori era titolare. Don Carlo Gamba, parroco di Casalbuttano, fu accusato di aver dato sostegno a Miglioli e di aver provocato quelli che il decreto del Guardasigilli Ettore Sacchi (4 ottobre 1917) definiva «fatti pregiudizievoli all’interesse nazionale». Così come don Michele Favero, insegnante presso i barnabiti di Cremona. E anche laddove non poteva esserci l’influenza di Miglioli, piovvero accuse su preti e parroci. Il parroco di Poppi (Toscana), don Luigi Sereni, fu accusato di «apologia di reato» e di «diffusione di notizie false intorno alla guerra». Nel Lodigiano, don Luigi Salamina e don Giorgio Savoldelli furono ritenuti responsabili di una manifestazione antimilitarista che si era tenuta a Codogno il 23 aprile del 1917. Altri preti furono accusati di aver dato una mano all’organizzazione di proteste delle mogli che avevano mariti alle armi: a Castiglione d’Adda, Fombio, Guardamiglio, S. Rocco al Porto, Castelnuovo Bocca d’Adda. Simili manifestazioni si ebbero in quello stesso periodo a Busto Arsizio per concludersi con una due giorni a Milano (1° e 2 maggio), nel corso della quale, racconta Bruno Bignami, «gruppi di donne provenienti dalla campagna, percorsero le strade della circonvallazione e scagliarono sassi contro le fabbriche di armi». Al grido di «abbasso la guerra», costrinsero gli operai ad abbandonare il lavoro e sfilarono per le vie del capoluogo lombardo con una manifestazione davvero imponente che non passò inosservata. Il socialista Filippo Turati sospettò (con qualche ragione) che vi fosse lo «zampino dei preti» e scrisse ad Anna Kuliscioff: «Vogliono far cessare la guerra subito; rivogliono i loro uomini, ce l’hanno con Milano che volle la guerra e che ora porta via loro tutto… e vogliono fare la pelle ai signori, fra i quali — beninteso — siamo anche noi». 
Poi la guerra finì e tra i sacerdoti che si erano arruolati, trecentocinquanta furono sospesi a divinis perché sotto le armi erano «cambiati». Qualcuno lasciò la Chiesa (o fu spinto a farlo) come quel don Carletti che avevamo incontrato come eroe decorato nel 1916. Don Mazzolari ed il vescovo Cazzani fecero l’impossibile per indurlo a restare tra loro. Ma quella guerra interiore don Carletti ormai l’aveva perduta. 

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