mercoledì 26 novembre 2014

Fassina che abbaia non morde e tratta per aver voce sul Quirinale

Circola la leggenda che la mitica sinistra PD stia facendo un abilissimo e machiavellico giochino a Renzi: Civati, Fassina e qualcun altro se ne vanno ora per preparare un nuovo centrosinistra con Vendola e Grassi, mentre Bersani e D'Alema lavorano ai fianchi Renzi dall'interno e si aggiungerebbero semmai dopo.
Sarebbe uno scenario catastrofico. Ma a naso si tratta appunto di una leggenda e alla fine uscirà solo Civati. Ma senza saper né leggere né scrivere Renzi farebbe bene a stroncarli tutti prima. Così quando alla fine lui stesso cadrà, farà ancora più rumore [SGA].


La sintonia tra il dissidente azzurro e il big democratico potrebbe pesare sulla corsa al Colle

Laura Cesaretti - il Giornale Mer, 26/11/2014

Politica 2.0 La vera partita dei dissidenti Pd
di Lina Palmerini Il Sole 26.11.14
La minoranza Pd ha scelto l'astensione e non si capisce perché. Se davvero – come dicevano – il Jobs act determina «l'arretramento di milioni di lavoratori» era più logico un no. Ma ieri l'obiettivo era più Renzi che la precarietà.

La scelta di non partecipare al voto finale è un equilibrismo politico perché se è vero che Renzi «incita alla sovversione» – come ha detto Fassina – e se è vero che il Jobs act è «lavoro sporco» – come ha detto Vendola – sono ragioni talmente forti da determinare un logico e conseguente voto contrario. Soprattutto quando in gioco c'è il tema che più di tutti identifica la sinistra e quell'area del Pd: il lavoro. Non a caso nessun leader di centro-sinistra è mai riuscito a fare una riforma dell'articolo 18 e adesso che è fatta, che quell'argine si è rotto, sarebbe stato più coerente strappare davvero. E non riconoscersi più in un partito che quella «libertà di licenziare» l'ha approvata. E invece il limbo del non-voto fa pensare che i 30 – con il Jobs act – vogliano aprire un'altra partita che guarda al Quirinale.
Una tattica per negoziare altro, insomma. Non sul lavoro perché la riforma è ormai fatta ma per trattare su chi sarà il successore di Giorgio Napolitano e diventare gli altri interlocutori di Renzi oltre all'area bersaniana che invece ieri, con coerenza, ha votato sì al Jobs act. Un avvio di guerriglia parlamentare che si muoverà tra la piazza sindacale e il braccio di ferro con Renzi su tutti i prossimi tavoli: Colle, legge elettorale, legge di stabilità. Una navigazione a vista perché il progetto politico non c'è ancora.
C'è una via di mezzo. Un Aventino ma non ancora una opposizione politica di sinistra. Il risultato delle elezioni in Emilia Romagna non pesa solo per l'astensionismo che ha colpito il Pd ma anche per il calo di consensi per la sinistra «radicale», da Sel a Rifondazione alla Lista Tsipras. Nonostante Renzi, nonostante il Jobs act e gli scioperi Fiom-Cgil, le forze della sinistra – variamente distribuite – hanno complessivamente perso l'11% di consensi rispetto al voto europeo e il 13,6% sulle regionali del 2010. E l'Emilia è la seconda Regione per numero di tessere Cgil, più di 822mila, è la terra di Maurizio Landini e delle imprese tra le più sindacalizzate. Segno che non basta parlare di malessere sociale per trovare elettori e consensi.
Servirebbe quello che è accaduto alla Lega. Un leader riconosciuto che la sinistra finora non ha. E un programma declinato in tutte le sue conseguenze. Matteo Salvini è contro la riforma Fornero, contro la «macelleria sociale» del Jobs act – anche se il primo a tentare la riforma dell'articolo 18 fu Maroni da ministro del Welfare nel 2002 – ma è anche contro l'Europa e l'euro da cui queste riforme derivano. È una strada politica lineare, difficilmente realizzabile, ma senza contraddizioni. 
Alla minoranza Pd di ieri tutti questi passaggi mancano. Dopo aver combattuto per portare il Pd nei socialisti europei ora sono pronti a voltare le spalle all'Europa? Il Jobs act arriva da lì, da Bruxelles e da Francoforte ma il gruppo del non-voto preferisce scaricare su Renzi e sull'altra minoranza la responsabilità della riforma che è invece uno dei tasselli per stare in Europa. Non in quella vagheggiata dall'area dei 30 che cancella il fiscal compact ma quella di oggi. Quella con cui l'Italia fa i conti. A meno che i dissidenti – da Cuperlo a Boccia – non firmino anche un altro documento: l'uscita cooperativa dall'euro di Fassina.



Democratici. La maggioranza di Area riformista vota sì ma molti escono dall'Aula
La minoranza del Pd si divide: nasce la corrente dei dissidenti

di Emilia Patta e Giorgio Pogliotti Il Sole 26.11.14

ROMA La presa di distanza della minoranza più radicale del Pd sul Jobs act è arrivata. È stata una decisione lunga e travagliata, presa in una riunione convocata da circa una quarantina di dissidenti, e alla fine il segnale al premier e segretario del Pd Matteo Renzi è giunto forte e chiaro. Che Pippo Civati e i 5 deputati a lui vicini votassero no era noto. La novità, piuttosto, è rappresentata dai trenta (ben oltre, quindi, i 17 che già lunedì sera avevano dato dei segnali in tal senso votando un emendamento di Sel per ripristinare l'articolo 18) che hanno deciso di uscire dall'Aula, non partecipando al voto in segno di protesta. «L'impianto della delega non è soddisfacente nonostante le modifiche approvate dalla Camera», hanno spiegato in un documento comune firmato dall'ex sfidante di Renzi alle primarie Gianni Cuperlo e firmato da Stefano Fassina a Francesco Boccia, da Davide Zoggia a Alfredo D'Attorre a Rosy Bindi. Certamente la decisione di saltare il guado da parte di molti di questi dirigenti del Pd di epoca bersaniana è strettamente legata al risultato delle elezioni di domenica in Emilia Romagna, che hanno visto un impressionante aumento dell'astensione e la perdita di oltre 600mila voti democratici rispetto alle europee nonostante la vittoria del candidato del Pd Stefano Bonaccini. Un calo della partecipazione che la minoranza addebita appunto allo scontro ingaggiato da Renzi contro la Cgil. Un effetto diretto del voto, dunque. Visto che a metà della scorsa settimana il compromesso tra governo e minoranza raggiunto con la mediazione del capogruppo alla Camera Roberto Speranza e del presidente della commissione Lavoro Cesare Damiano aveva soddisfatto un po' tutti, tranne i soli Cuperlo e Civati.
Con il voto di ieri sul tema caldo del lavoro si forma quindi una sorta di corrente dentro la corrente Area Riformista che ha come riferimenti i giovani Speranza e Maurizio Martina (ministro dell'Agricoltura): 30 su un centinaio di deputati accreditati alla minoranza. Un numero che se non riesce a bloccare del tutto i provvedimenti, dal momento che alla Camera il premier può contare sul sostegno della grande maggioranza dei 307 deputati del Pd, certamente può funzionare da freno e da disturbo. E le prossime partite saranno quelle campali della legislatura. Intanto le riforme costituzionali (poi sarà la volta dell'Italicum di ritorno dal Senato). E non è un caso se Bindi ha già presentato un emendamento per reintrodurre l'elettività dei senatori e D'Attore un altro per ridurre a 500 i 630 deputati. Ma soprattutto le Camere dovranno occuparsi presto in seduta comune dell'elezione del prossimo presidente della Repubblica se – come molti segnali invitano a credere – Giorgio Napolitano darà le dimissioni a fine anno.
Sulle posizioni di Speranza e di Damiano, in favore del Jobs act renziano, sono comunque restate personalità di peso come gli ex segretari Pier Luigi Bersani e Guglielmo Epifani. Anche se Bersani ha voluto precisare che, nonostante alcuni «miglioramenti», il Jobs act «non convince» del tutto. «Voto le parti che mi convincono con piacere e convinzione – ha detto – e le parti su cui non sono d'accordo per disciplina, avendo fatto per quattro anni il segretario del Pd». Ma per molti deputati della minoranza questo richiamo alla disciplina di partito potrebbe vacillare in occasione dell'elezione del Capo dello Stato.


Il Jobs act passa in Aula senza 40 voti del Pd

Renzi: non mi freneranno Il grazie via Twitter «ai deputati che l’hanno approvato»

di Dino Martirano Corriere 26.11.14

ROMA La legge delega sul lavoro (che il premier Matteo Renzi ha ribattezzato Jobs act) ha compiuto alla Camera il secondo giro di boa, lasciandosi dietro una scia densa di veleni e un’aula vuota per metà: 40 deputati del Pd non hanno partecipato al voto e buona parte di loro si è unita alle opposizioni (M5S, Sel e Forza Italia) abbandonando l’emiciclo in segno di protesta. Il governo ha dovuto richiamare in fretta e furia ministri e sottosegretari in Aula perché il totale dei votanti rischiava di non superare il numero legale. L’illusione delle opposizioni, e della minoranza del Pd, è durata però una manciata di minuti: alla fine i voti favorevoli sono stati 316, i contrari 6 (tra i quali Civati e Pastorino del Pd) e 5 astenuti. Totale 327 votanti, una buona spanna sopra il numero legale calcolato ieri a quota 294 (la metà del plenum al netto dei deputati in missione che erano 42). 
Ora il provvedimento torna al Senato: oggi parte l’iter in commissione Lavoro e la prossima settimana arriverà in Aula per l’approvazione definitiva in modo da consentire al governo di esercitare (con i decreti attuativi) la delega che riscrive i meccanismi sui diritti dei (futuri) lavoratori dipendenti. 
Matteo Renzi, che ha l’ obiettivo di rendere operativi i decreti dal 1° gennaio 2015 insieme alla legge di Stabilità, non ha cambiato rotta e ha rivendicato la bontà della riforma che cambia anche l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970 («Reintegro nel posto di lavoro»): «La Camera approva il Jobs act. Più tutele, solidarietà e lavoro...Grazie ai deputati che hanno approvato il Jobs act senza fiducia. Adesso avanti con le riforme. Questa è #lavoltabuona», scrive su Twitter. La sua idea su chi nel Pd non ha votato il testo non cambia: lo fanno «per frenarmi», per calcoli politici hanno ignorato una mediazione «che ha convinto ex sindacalisti come Damiano ed Epifani». 
Diametralmente opposta l’analisi dei dissidenti del Pd: «Renzi alimenta tensioni sovversive e corporative», attacca Stefano Fassina. Più tranciante ancora il leader di Sel, Nichi Vendola: «Tradotto in italiano Jobs act vuol dire lavoro sporco, precarizzare, demansionare, licenziare». Forza Italia che ha scelto l’uscita dall’Aula insieme ai grillini: «Il voto sul Jobs act ha certificato lo stato confusionale della maggioranza che sostiene questo moribondo governo. Il provvedimento è un imbroglio che peggiorerà il mercato del lavoro». 
Ma è la minoranza del Pd che è entrata in fibrillazione. Dopo il voto è stata convocata una conferenza stampa (Stefano Fassina, Rosy Bindi, Alfredo D’Attorre, Davide Zoggia, Michela Marzano, Gianni Cuperlo, Roberta Agostini, Ileana Argentin, Barbara Pollastrini, Francesco Boccia, Alessandra Terrosi e altri) per presentare un documento intitolato «Perché non votiamo il Jobs act». 
In totale i dissidenti del Pd che hanno messo la faccia e la firma sul documento contro il Jobs act sono 29 mentre quelli che hanno votato a favore sono 250. Il fronte del no boccia per la sua genericità la delega al governo sul lavoro: «La parte che dovrebbe allargare diritti e tutele è generica e senza risorse. Il disboscamento della giungla dei contratti precari viene rinviato a valle di una ricognizione da svolgere in tempi indefiniti e senza identificare obiettivi impegnativi. All’avvio di ammortizzatori per gli “esclusi” si dedicano solo 200 milioni di euro contro una promessa iniziale di 1,5 miliardi per il 2015». 
Nel Pd, 29 su 307 hanno sottoscritto il documento. Tra gli altri 11 dem che non hanno partecipato al voto ci sono 6 «assenti giustificati» (tra i quali Enrico Letta e Rosa Villecco). E poi vanno conteggiati i 13 parlamentari dem in missione (in buona parte della squadra di governo). Per arrivare a quota 307, il totale del gruppo del Pd, bisogna sommare i due contrari (Pippo Civati e Luca Pastorino) e i due astenuti Paolo Gandolfi e Giuseppe Guerini.



La minoranza alza la voce. E cerca una linea

Bersani: il mio sì per disciplina E D’Alema: alle urne si è visto che senza radici a sinistra ci indeboliamo

di Alessandro Trocino Corriere 26.11.14

ROMA «Confidiamo nelle nuove norme sul licenziamento disciplinare». Gianni Cuperlo scherza, alludendo alla possibilità di provvedimenti dopo il voto di ieri sul Jobs act. Lo fa durante la conferenza stampa serale che sancisce, con una foto di gruppo che vede riuniti una ventina di deputati, un dissenso che cresce e spaventa i piani alti democratici: 2 voti contrari, 2 astenuti e ben 40 deputati che non hanno partecipato al voto (almeno sei, spiegano dalla segreteria, «assenti giustificati»), nonché 13 in missione. Un pacchetto di mischia rilevante, che ha rischiato di far mancare il numero legale e che Francesco Boccia chiama «un nuovo punto di partenza». 
Partenza verso dove, si chiedono in molti. Il livello dello scontro è altissimo, come mai era stato da quando Renzi è salito al potere. Pier Luigi Bersani ha votato a favore, ma solo per «disciplina» e in omaggio al suo ruolo di ex segretario di partito. Ma non ha fatto mancare le critiche a quella che considera «un’impostazione difettosa»: «L’articolo 18 si poteva anche toccare, ma su cose di dettaglio». E per il resto, avverte Renzi e i suoi: «Non mi diano del conservatore, sennò mi incazzo». Non è l’unico a perdere serenità. Stefano Fassina si rivolge direttamente al segretario: «Le parole di Renzi non aiutano la pace sociale. Alimenta le tensioni sovversive e corporative». 
Renzi sovversivo? Dopo il Bersani che in direzione denunciava il «mobbing» contro di lui e che più tardi spiegava come «il Patto del Nazareno fa salire Mediaset in borsa», aumentano le voci che rendono plausibile (ma non probabile) uno sbocco traumatico. Se Bersani rassicura «il legno storto si raddrizza nel Pd» , sono in diversi a guardarsi intorno. Quelle di ieri sono state prove tecniche di scissione? «Dipende da Renzi», dice Pippo Civati. Che preconizza: «Dopo il voto di oggi, se si mette male, Renzi si fa un giro al Quirinale». Davide Zoggia, bersaniano, spiega che si è trattato solo di «segnalare un disagio»: «Non vogliamo certo far cadere il governo. Se ci fosse stata la fiducia avremmo votato a favore». 
Fa sentire la sua voce anche Massimo D’Alema, che analizza il voto delle Regionali: «C’era l’illusione che si potesse buttare via l’elettorato di sinistra per prendere quello di centrodestra. Non è stato così: alla crisi di Berlusconi corrisponde la crescita della Lega. Se perdiamo le radici a sinistra, ci indeboliamo seriamente». L’ex premier non ha apprezzato neanche le polemiche con la Cgil: «L’asprezza dello scontro, l’insulto e il disprezzo del sindacato sono stati un errore». 
I numeri di ieri hanno sorpreso persino i dissidenti. Il documento che sanciva la scelta di uscire dall’aula, è stato firmato da 29 deputati. Alla fine, non hanno partecipato al voto in 40 (alcuni impossibilitati, anche causa guai giudiziari, come Marco Di Stefano e Francantonio Genovese). 
Matteo Orfini — leader dei Giovani Turchi che ha cercato e trovato una mediazione insieme a Roberto Speranza, Cesare Damiano e Guglielmo Epifani — minimizza e chiama i dissidenti «primedonne»: «Sono vittime di protagonismo a fini di posizionamento interno. Ma alla fine si sono autoisolati. E poi quanti sono, 30? Il 10 per cento del gruppo pd, bel risultato: vi ricordo che contro Renzi all’inizio c’era la maggioranza dei deputati. E poi questa è tutta gente che ha ingoiato senza dar cenni di sofferenza il voto sul pareggio di bilancio in Costituzione e la legge Fornero». 
Solo fini di posizionamento interno, con la ricostituzione delle correnti? O c’è di più? Torna la domanda sul possibile sbocco della dissidenza. Per Alfredo D’Attorre c’è «un’area di critica molto vasta» nel Pd. Pippo Civati si prepara a fare le valigie, ma il resto del gruppo pare intenzionato a dare battaglia dentro il Pd. Spiega Cuperlo: «La nostra è un’opposizione costruttiva, sul merito». «Se ci buttassero fuori — aggiunge Fassina — sarebbe surreale».




Pierluigi Bersani “La nostra gente non vuole scissioni ma Matteo non faccia finta di nulla”
“Ho votato sì sul Jobs act per disciplina di partito ma nessuno, anche chi è uscito, può negare i passi avanti compiuti” “Il messaggio del voto emiliano è chiaro: Restate lì. Infatti la sinistra alternativa prende lo zero virgola”

intervista di Goffredo De Marchis Repubblica 26.11.14

ROMA Pier Luigi Bersani vota a favore del Jobs Act. Per disciplina di partito, spiega. Perché chi ha fatto il segretario del Pd per quattro anni non può tirarsi fuori tanto facilmente. La solita storia della ditta in cui Bersani crede davvero. Non crede invece che questa riforma «vada al cuore del problema ovvero la produttività». Ma di fronte alla spaccatura profonda consumatasi ieri nell’aula di Montecitorio, c’è qualcosa di più nel suo sì. È un rifiuto netto della scissione, un appello alla minoranza interna a pensarci bene prima di fare mosse azzardate. Tutto muove dal dato emiliano, da quell’astensione «inedita e impressionante ». «Il messaggio di quel voto – spiega Bersani in un corridoio della Camera – o meglio di quel non voto per me è chiarissimo. Significa “restate lì. Noi elettori del Pd ci siamo come autosospesi ma non vogliamo andare da nessun’altra parte”. Non a caso le forze della sinistra alternativa prendono poco o niente, percentuali dello zero virgola. Le cose cambiatele dentro al Partito democratico, è il senso di quella delusione profondissima e che nessuno dovrebbe sottovalutare. Per questo è ancora più grave che Renzi faccia finta di niente».
Forse se il premier aprisse oggi una riflessione sull’astensione e sui voti persi rischierebbe di dare fiato ai tanti dissidenti dentro al Pd e nelle piazze.
«Può darsi che sia questo il punto. Renzi non riconosce un problema, ha paura che se offre un dito poi qualcuno si prende tutto il braccio. Ma negare l’evidenza, non abbassarsi alla discussione può essere un pericolo ancora maggiore per lui. Può fare un volo dall’ottavo piano e il botto sarà ancora più grande. Il dato dell’astensione è agghiacciante e Renzi non dovrebbe temere nulla da un’analisi seria della situazione. Perché io penso che il messaggio di quegli elettori non sia “uscite dal Pd”, bensì risolvete tutti insieme ».
Che è successo in Emilia?
«Un sacco di cittadini, di elettori anche nostri, ha una sensazione di estraneità, la voglia di chiamarsi fuori, un elemento di rifiuto. Non sono andati da altre parti ma hanno detto no e io credo di capire perché. Lo ha scritto bene Michele Serra su Repubblica. Il centrosinistra in quella regione ha sempre avuto il compito di dare un senso alle cose che si fanno e se si perde il senso, cioè un messaggio di coesione a partire da un tema di equità, perché questo è il senso fondamentale della sinistra, non si interpreta quella gente ».
Disincanto o messaggio voluto?
«Messaggio intenzionale. Non pensiamo che la gente si sia distratta, perché quello è un posto dove gli elettori ragionano e fanno quel che hanno deciso di fare. Io li ho visti con le lacrime agli occhi scegliere di non votare».
Per questo si è espresso a favore del Jobs Act? Per non sfasciare tutto?
«Ho votato a favore perché nessuno, nemmeno quelli che sono usciti dall’aula o che hanno detto no, nega i passi avanti che ci sono stati. È il discorso del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. In questo caso ci sono tutti e due».
Però la minoranza si è di nuovo divisa e non vi siete rafforzati.
«Ci sono diverse sensibilità. Ho parlato con tanti di noi. Alcuni hanno problemi a mantenere ferma la barra dentro la loro area. Li capisco benissimo. Altri hanno problemi con i territori, con la loro base elettorale perché sono parlamentari che hanno un loro elettorato vero, autentico. Ma non mi sembra un dramma, ognuno fa quello che può per dimostrare al governo che sta sbagliando, che va corretta la linea».
Anche sul lavoro?
«Certo. Con il Jobs Act non si va al cuore del problema che è la produttività del lavoro. Ci sarà un recupero su quel terreno? Non credo. Ci avvitiamo sull’articolo 18, che aveva bisogno al limite di qualche ritocco, ma non era certo il cuore di una questione drammatica. Io la penso così. E non mi chiamassero conservatore sennò è la volta che mi incazzo».
Cosa bisognava fare di diverso?
«È stato tutto sbagliato fin dall’inizio. Ma spero che si possa dire ancora cosa bisogna fare, perché c’è tempo per correggere. La vera sfida al mondo del lavoro, sindacati compresi, doveva venire dal lato della produttività e quindi da una flessibilità dell'organizzazione aziendale, da una sfida sul tema decentramento e partecipazione. Avere invece affrontato cose minori come l’articolo 18 o altro, o avere creato un ulteriore canale che differenza la situazione dei lavoratori sullo stesso banco di lavoro è un approccio negativo».



Bindi: si torni all’Ulivo o noi usciamo Matteo ha deluso, è già in caduta

L’esponente della sinistra: se il Pd non cambia ci sarà bisogno di una nuova forza Un soggetto alternativo dovrebbe essere competitivo con il Partito della Nazione

intervista di Monica Guerzoni Corriere 26.11.14

ROMA «Non ci siamo divisi...». 
La minoranza si è spaccata in tre, presidente Rosy Bindi. 
«Gli obiettivi di chi ha votato no e di chi ha lasciato l’Aula, come me, erano gli stessi. Marcare la distanza netta da un provvedimento che, eliminando il diritto al reintegro, considera il lavoro come una merce». 
L’indennizzo non basta? 
«È un passo indietro profondo, secolare, rispetto alla dignità del lavoratore richiamata dal Papa. Oltre a non condividere il merito io ho voluto prendere le distanze dal messaggio che il premier ha costruito in questi mesi. Le sue parole hanno scavato un solco tra il governo, il segretario del Pd e il mondo del lavoro, la parte più sofferente dell’Italia. Abbiamo visto la delegittimazione del sindacato e una provocazione davvero lontana dalla situazione reale degli italiani». 
Pensa che l’astensionismo nasca da qui? 
«Tra Emilia e Calabria il Pd ha perso 750 mila voti. Se alle Regionali avessero votato gli stessi elettori delle Europee dovremmo dire che oggi il Pd è tornato al 30%, un numero più vicino al 25 di Bersani che non al 41 di Renzi». 
L’astensionismo è ininfluente, secondo lui. 
«Affermazione molto grave. L’astensionismo è un problema per la democrazia di un Paese, per il Pd e anche per il governo. Il premier ha fatto campagna in prima persona e ha lanciato dal podio dell’Emilia uno dei messaggi piu gravi quando ha detto che lui crea lavoro, mentre il sindacato organizza gli scioperi. Con le Regionali Renzi si è unito ai tanti salvatori della patria a cui gli italiani amano affidarsi, per poi sperimentare la cocente delusione». 
Rimpiange Enrico Letta? 
«Il paragone non è con Letta. È con Grillo, con Salvini, con il Berlusconi dei primi anni. La rottura della politica col Paese reale è profonda e sembra rimarginarsi quando gli italiani si affidano al salvatore di turno, per poi delusi andare a ingrossare l’unico partito che vince, quello dell’astensione. Il voto di domenica dimostra che è iniziata la parabola discendente, anche di Renzi». 
Gufa perché rottamata? 
«Sono stati rottamati 750 mila elettori in un colpo solo, non la Bindi. Questa categoria è servita a Renzi per vincere, ma ora, per continuare a governare, deve prendere per mano la povertà, le periferie, il dissesto del territorio, la crisi industriale. Chi guida i processi politici deve indicare il cammino, la speranza, e responsabilizzare tutti nella fatica della paziente ricostruzione». 
La minoranza chiederà il congresso anticipato? 
«Il gioco interno al Pd non interessa agli italiani, figuriamoci a me. Quel che mi interessa è che ci sia una forza politica che abbia il coraggio di ricostruire il tessuto democratico e affrontare una crisi economica sempre piu grave».
Progetta la scissione? 
«Dico che questa è la funzione del Pd, se ha memoria delle origini, se non vagheggia l’idea del partito unico della nazione e se è un partito riformista, ma di sinistra. Quello sul Jobs act è stato un primo passaggio di merito, ma ora ce ne sono altri non meno importanti». 
La riforma costituzionale? 
«Appunto. Così è irricevibile, umilia il Parlamento e lo rende subalterno al governo». 
La legge di Stabilità? 
«Non può essere una mera, finta restituzione delle tasse, c’è bisogno di sostegno vero al lavoro e agli investimenti». 
E l’Italicum, lei lo vota? 
«Se il patto del Nazareno non ha più futuro, nessuno pensi di portare avanti quella legge elettorale con sostegni diversi in Parlamento. C’è da dare al Paese una legge che assicuri il bipolarismo, non attraverso i nominati e il premio di maggioranza al partito unico». 
E se Renzi va a votare? 
«Questo risultato dovrebbe farlo riflettere, non è tempo di facili ricorsi alle urne. Voglio sperare che al di là del messaggio grave, sbagliato e pericoloso che ha mandato all’Italia, Renzi abbia un momento di ripensamento serio. Spero cambi stile e accetti il confronto. E si ricordi che il segno di chi ha la responsabilità più alta è unire, non dividere». 
Perché non uscite per fondare una forza alternativa, guidata da Landini? 
«Se il Pd torna a essere il partito dell’Ulivo, che unisce e accompagna il Paese, non ci sarà bisogno di alternative. Ma se il Pd è quello di questi ultimi mesi, è chiaro che ci sarà bisogno di una forza politica nuova». 
Una forza minoritaria? 
«Tutt’altro che minoritaria, una forza di sinistra, competitiva con il partito della nazione. E allora servirà, oltre alle idee, la classe dirigente». 
La sinistra fuori dal Pd non è un ferro vecchio? 
«Renzi sbaglia quando si paragona al partito a vocazione maggioritaria di Veltroni, che prese il 33% e ridusse la sinistra radicale a prefisso telefonico. Quello era collocato nel centrosinistra e non ambiva a fare il partito pigliatutto. Se il Pd è quello di questi mesi una nuova forza a sinistra non sarà residuale, ma competitiva. E sarà un bene per il Paese, se non vogliamo che il confronto si riduca ai due Matteo. Sarà una sinistra riformista e plurale, ma sarà una sinistra. Sarà il Pd». 
Il voto sul Quirinale sarà una resa dei conti? 
«Quando dovremo confrontarci su quella scelta, spero più tardi possibile, io auspico che venga fatta ricercando l’unità del Paese. Fu un bene bocciare la riforma del centrodestra, che riduceva il capo dello Stato a portiere del Quirinale». 
Perché Renzi dovrebbe cercare un nome non condiviso? 
«Ci sono molti modi per ridurre il ruolo del Colle, come rinunciare alla ricerca della personalità più autorevole per considerarla strumentale alla politica del governo. Sarà fondamentale trovare la persona che più unisce e la cui autorevolezza sia considerata indiscussa, da tutti». 



Voglia di fuga. Giuseppe Civati

Civati avverte: “O rottama il Patto col Cav. o faccio il nuovo centrosinistra”

intervista di Giampiero Calapà il Fatto 26.11.14

Adesso è “possibile”, dice il dissidente anti-renziano per antonomasia Pippo Civati: “Non posso infilare ancora altri voti contrari al governo e restare nel Pd, Renzi rottami subito il Patto del Nazareno per un nuovo Patto del centrosinistra, un patto dei cittadini: l’iniziativa della mia associazione Possibile, il 13 dicembre a Bologna, sarà l’embrione di un nuovo centrosinistra, vedremo se il Pd andrà nella stessa direzione”.
Civati, ma alla fine a votare contro il Jobs act siete rimasti in due, lei e Luca Pastorino, gli altri dissidenti sono “solo” usciti dall’aula...
Non lo nego, mi aspettavo qualche voto contrario in più perché con un segnale di astensione come quella arrivato da Emilia Romagna e Calabria sarebbe stata una risposta più forte e decisa, più comprensibile. È da un mese che annuncio il mio voto contrario, lo dovevo al mandato elettorale e ai delegati della Fiom che abbiamo incontrato proprio ieri... Neanche i grillini, che mi davano del pirla, hanno avuto la forza di votare “no”. Ma diciamo che registro positivamente anche la loro di uscita dall’aula.
Non si sente sempre più isolato?
No, questo no. Paradossalmente considero positivo un fatto: l’area del dissenso si è allargata. Il dissenso annunciato era circoscritto a 29 deputati del Pd, alla fine sono stati 40. Non è un dato da poco. Iniziano a essere numeri importanti, che dovrebbero far riflettere il capo del governo e segretario del partito.
Allora vede ancora un futuro per il Pd?
Ho passato due mesi a farmi dare del pirla... il solito Civati, dicevano. Invece, il voto delle regionali in Emilia Romagna e Calabria e quello in aula sul Jobs act rappresentano con forza che un problema nel Pd c’è.
Come si traduce questo problema?
Ma come si deve tradurre. È incredibile in aula ascoltare la dichiarazione di voto di Massimo Corsaro, Fratelli d’Italia, uno che più a destra non si può, mio storico rivale dai tempi del Consiglio regionale lombardo: ha detto di riconoscersi pienamente nel Jobs act del governo Renzi. Per me questo è un problema enorme.
Insomma Civati, rompe col Pd?
Ora nel Pd c’è un fatto politico gigantesco, l’area del dissenso si è allargata. Fino a ieri ero solo, oggi no. Voglio ricostruire il centrosinistra. È chiaro che siamo al limite, non posso infilare altri voti contrari al governo del Pd. Ma Renzi deve rottamare il Nazareno. Serve un nuovo Patto del centrosinistra, un patto dei cittadini. Lo chiederemo ufficialmente a Bologna il 13 dicembre in un’iniziativa dell’associazione di sinistra che ho fondato la scorsa estate a Livorno, “Possibile”. Perché adesso è possibile davvero.




Gianni Cuperlo. Li si nota di più se escono
“Fuga di elettori, non convince più”

intervista di Wa. Ma. il Fatto 26.11.14

Onorevole Cuperlo, perché siete usciti dall’aula sul Jobs act?
Abbiamo tenuto una linea molto chiara in queste settimane. Non eravamo contro una riforma del lavoro, ma doveva essere una buona riforma.
Quali sono i punti indigeribili?
Rispetto al Senato, nel passaggio alla Camera, sono state apportate modifiche positive. Ma il testo finale contiene delle norme per noi sbagliate, sul demansionamento, sul controllo a distanza dei lavoratori, sull’utilizzo dei voucher e sui licenziamenti.
Però avete messo in difficoltà il vostro governo.
No. Non credo. Il problema drammatico dell’Italia oggi non è la poca libertà di licenziare. La nostra priorità è come assumere.
Se in Senato il governo metterà la fiducia la minoranza voterà contro?
Mi auguro che il governo sappia raccogliere il messaggio che è arrivato non solo oggi alla Camera, ma l’altroieri dalle urne.
State pensando di uscire dal partito?
Nessuno di noi ha questa intenzione. Il Pd è il partito che abbiamo voluto con passione e con impegno.
Cosa pensa del dato dell’astensionismo?
Quando in Emilia Romagna da un’elezione regionale alla successiva c’è un calo del 30% non puoi dire che dipende dalla disaffezione dovuta alle indagini. Il Pd dalle europee a oggi ha perso 700mila voti, che vanno prevalentemente nell’astensione. Significa che il grande cambiamento di cui parla il governo non ha ancora un consenso dal basso. Non ho dubbi che Oliverio e Bonaccini saranno due ottimi presidenti, ma dire che l’astensione è un problema secondario è una frase consolatoria, che non tiene conto della qualità della democrazia.
Però non riuscite a mettervi d’accordo neanche tra voi. Bersani ed Epifani hanno votato a favore del Jobs act.
Abbiamo scelto una linea di condotta coerente non partecipando al voto.
I renziani dicono che la vostra posizione è scorretta, che allora dovreste avere il coraggio di andarvene. E che sarebbe il caso di votare con il Consultellum domani mattina, senza mettervi in lista.
Allargo le braccia. Io ho un’idea diversa di partito. Oggi mi preoccupo non di chi dovrei o potrei mettere in lista, ma di centinaia di migliaia di voti che non sono riuscito a far arrivare alle mie liste.
Crede che le elezioni si avvicinino?
Ho sempre dato credito a Renzi, quando diceva “siamo qui per fare le riforme”.

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