domenica 9 novembre 2014

La mostra su Secessione e avanguardia a Roma



Avanguardie e socialismo umanitario
Alla Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea di Roma, fino al 15 febbraio 2015, la mostra Secessione e Avanguardia. L’arte in Italia prima della Grande Guerra 1905-1915

di Lauretta Colonnelli Corriere 9.11.14
Ci sono non solo capolavori dei grandi artisti del 900, ma anche un’infinità di storie, tra le 170 opere esposte nella mostra Secessione e Avanguardia , alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma. 


C’è innanzitutto il Girasole di Gustav Klimt, in prestito dalla Österreichische Galerie Belvedere di Vienna. Il dipinto rappresenta un grande girasole sullo sfondo di un giardino fiorito. Ma si intravede nel fiore anche una figura umana: la corolla delinea il viso, il fogliame un abito. Fu interpretato come il ritratto ideale della signorina Flöge, che Klimt aveva fotografato ripetutamente, nell’estate del 1906, sullo sfondo di un giardino di girasoli. La posa ieratica della modella è la stessa del fiore antropomorfo. 
Esposto nel 1910 alla Biennale di Venezia, diffuse il klimtismo in Italia. Ne fu travolto Felice Casorati, che riprese i motivi floreali dell’artista austriaco nella Preghiera , tempera su fustagno. E Vittorio Zecchin trasferì la sua sovrabbondanza decorativa nel Convegno mistico . Mario Cavaglieri si ispirò alle sue suggestioni orientali in Vasi cinesi e tappeto indiano e in Giulietta nell’atelier di Padova . 
Klimt era stato uno dei fondatori della Secessione, il movimento dei giovani artisti che si vollero contrapporre alle Accademie. Si accese nel 1892 a Monaco, nel 1897 a Vienna, nel 1898 a Berlino. Proviene dalla prima mostra della Secessione a Monaco il Peccato di Franz von Stuck, con la torbida Eva avvolta in un gigantesco pitone nero. Opera che ebbe un tale successo da essere replicata ben undici volte dall’autore. 
A Roma la prima mostra della Secessione si inaugurò nel 1913, quando nel resto d’Europa il movimento era quasi spento. E si intrecciò con le tendenze artistiche ispirate al socialismo umanitario che l’avevano preceduta e con le avanguardie che avevano appena cominciato a ribollire, soprattutto quella rappresentata dal Futurismo. 
La mostra curata da Stefania Frezzotti racconta, attraverso le opere arrivate da tutta Europa e quelle provenienti dai depositi della Gnam, il clima di fervore innovativo che animò il decennio breve, compreso tra il 1905 e il 1915, a ridosso della Grande Guerra. 
«L’idea della mostra nasce dal desiderio di rievocare un momento in cui l’arte fu veramente europea, cosmopolita, senza confini», racconta Maria Vittoria Marini Clarelli soprintendente della Galleria. «Si confrontavano le idee e i nuovi linguaggi. Nacquero nuove riviste, come «La Voce» di Prezzolini e «Lacerba» di Papini e Soffici. 
Si crearono nuovi circuiti per allestire mostre al di fuori dei canali ufficiali che rifiutavano le avanguardie. Picasso, che aveva mandato un quadro alla Biennale di Venezia del 1905, se lo vide tornare indietro dopo tre giorni». Balla lesse lo scritto di Tolstoj Che cos’è l’arte , in cui si metteva in evidenza il ruolo morale e sociale che l’arte può rivestire, e realizzò il bellissimo ritratto in bianco e nero dello scrittore russo. Scoprì le teorie pedagogiche di Maria Montessori e copiò per le figliolette i banchi-giocattolo che l’educatrice aveva disegnato nel 1907 per l’asilo dei figli degli operai. 
Pellizza da Volpedo dipinse il Quarto Stato , di cui sono esposti i disegni preparatori, mentre Cambellotti organizzava, con lo scrittore filantropo Giovanni Cena, scuole per i contadini della campagna romana. Medardo Rosso scolpì il suo Bambino malato dopo la degenza in un ospedale parigino. Boccioni dipinse l’ Idolo moderno , immagine simbolo della mostra, ritraendo i riflessi della luce elettrica sul volto allucinato di una cocotte. 
Carrà sorprese un tram in corsa scagliato sulla folla in piazza Duomo a Milano. Si entra in mezzo alle fanciulle di Edoardo Gioia, dipinte per l’Esposizione internazionale del 1911 e restaurate per questa mostra. Si esce tra le «linee di velocità» di Balla, che acquistano volume e rendono con colori accesi il movimento a ondate delle masse interventiste e delle bandiere. Siamo nel 1915. La visione inebriante del futuro che aveva abbagliato l’inizio del secolo sta per frantumarsi in macerie. 


Schiaffi, stroncature e ironie E la poesia finì in prima lineadi Roberta Scorranese Corriere 9.11.14
Nell’infanzia di un Novecento ancora intorpidito dalle promesse della Belle Epoque, l’avanguardia deve farsi largo a suon di schiaffi. Nel 1911 Boccioni prende a ceffoni Ardengo Soffici in un caffè di Firenze, perché reo di aver criticato le opere dei Futuristi a Milano; l’anno prima lo stesso Boccioni aveva dipinto Rissa in galleria , raffigurazione compiaciuta di una zuffa tra donne, e due anni prima Marinetti aveva minacciato di morte quel chiaro di luna che solo nel 1819 Leopardi rimirava «pien d’angoscia». 
Il terreno teorico era stato ben coltivato: per fare due esempi, Sorel aveva scritto Considerazioni sulla violenza e Freud indicava nel parricidio la nascita dei legami sociali adulti. Fatto sta che il Novecento si apre nel segno della violenza, dell’impeto, della rottura. Accanto ai primi esperimenti linguistici «incendiari» come quelli di Palazzeschi, ecco le stroncature sonore che riempiono le riviste letterarie come «La Voce» (fondata nel 1908 da due incendiari veri come Papini e Prezzolini); ecco Scoperte e massacri , il titolo che Ardengo Soffici volle dare alle sue stilettate scritte tra il 1908 e il 1915 contro gli artisti a suo dire «fuori dal tempo», mentre indicava la nuova strada in Cézanne e Picasso; la rubrica di critica letteraria che Giovanni Boine tiene sulla rivista «La riviera ligure» si chiama Plausi e botte . Quante botte animano questo scorcio del XX secolo. È nel segno del parricidio (come ha più volte osservato Walter Pedullà nei suoi bellissimi saggi sul Novecento) che si apre la modernità e Boccioni e Severini si vestono da «rifiutati» e incendiano la Secessione. È nel segno del parricidio che Einstein azzarda un capovolgimento totale della visione del mondo. Ma come tutte le adolescenze che si ribellano all’autorità genitoriale, anche i linguaggi primonovecenteschi crescono cercando un’identità. 
In una varietà di stili, dal simbolico all’astratto al futurista. Alcuni non ce la fanno a correre veloci come le prime automobili che sfrecciano per le strade e ripiegano su un intimismo intriso di ironia. E allora la convivenza tra passato e presente si fa interessante e cuce nella letteratura (soprattutto nella poesia) italiana dell’epoca uno splendore innocente, stupefatto. Ancora oggi vivido. 
L’avanguardia, alla fine, convive con la tradizione. Convive e si integra a volte con un’armonia così sottile e perfetta che rintracciarne i contorni è difficile: meglio leggere gli scritti, dunque. Meglio leggere le poesie di Guido Gozzano, così rivoluzionario nella sua ironia leggerissima, nascosta nelle «buone cose di pessimo gusto» dei Colloqui . Meglio leggere Aldo Palazzeschi e il suo Codice di Perelà (1908-1910) dove decreta: «Io sono leggero… un uomo leggero… tanto leggero». Perelà è il simbolo di un’impalpabilità corrosiva, risposta all’aggressività insita nelle avanguardie. 
La poesia, dunque. La poesia come nuovo laboratorio di linguaggi, straordinaria fucina di innovazioni stilistiche Nel suo bel saggio nel catalogo della mostra di Roma, Andrea Cortellessa parte dalla tensione della violenza inesplosa nei versi di Clemente Rebora pubblicati nel 1913, in una inquietudine «insostenibile, costantemente rilanciata e mai risolta». Una forma espressionistica singolare che non trova sfogo e per questo è viva, guizzante. 
E andrebbe riletto (con gli occhi di oggi) anche Dino Campana, sedotto dalle suggestioni oscure al pari di Cézanne e che nei Taccuini scrive: «Si sente suon di tamburi alle porte della città/ Al Pasckowki è un dolce noioso sereno sulla vecchia pietra/ col vento che mette in follia le bandiere». Gli orfismi di Campana hanno convissuto con il realismo magico di Massimo Bontempelli ma ben più interessante convivenza (sebbene anagraficamente diversi) è stata quella tra due grandi Luigi dell’epoca: il Pirandello dell’incomunicabilità esistenziale e il Capuana del verismo più efficace. Su tutti, Ungaretti che visse quasi un secolo (1888-1970) e che del secolo raccontò contraddizioni, bellezze, coraggio e codardie. 
La Secessione italiana e le avanguardie si sono nutrite di questo cibo così variegato e fecondo. Eppure, nell’aria resta un verso di quel Palazzeschi così leggero, giunto a noi forse grazie a questa insondabilità: «E lasciatemi divertire!» 

L’eterna sfida tra giovani e anziani E l’Italia entrò a folle velocità nel ’900
Arbasino Domenica 30 Novembre, 2014 CORRIERE DELLA SERA © RIPRODUZIONE RISERVATA
«In preda allo stesso ribellismo contro gli anziani al potere… Che poteva la gioventù, se l’avara paurosa prepotente gelosia dei vecchi la schiacciava così, col peso della più vile prudenza e di tante umiliazioni e vergogne?». Sembrano faccende recenti, ma risalgono al Pirandello de I vecchi e i giovani , nel 1913. E ancora, ai primi del tremendo Novecento, Papini e Soffici: «Questa povera Italia non ha nessuno che scenda al suo popolo, che tragga fuori con violenza profetica i segreti della sua terra».
Ma codesti «segreti della sua terra» non sono poi i caratteri antropologici tipici della sua gente? Con una identità basata sul suolo, sul popolo, sul lavoro, sul sangue, sull’abominevole disfattismo di cui ci si lagna oggidì?
«Povera Italia», tuttora, tra vecchi peggiori e giovani pessimi?... Si ripresenta il tormentone solito, fra quadri sovente bellissimi, alla mostra «Secessione e Avanguardia», sull’arte italiana nel decennio che precede la Grande guerra, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, a Roma.
«Maggio radioso!... Tutti soldati!... Guerra sola igiene del mondo!»... E non solo per i Futuristi che arrivavano a Milano in treno, e trovavano una eccellente «busecca» in via Senato, con l’eccellente cuoca di casa Marinetti.
Ce lo si chiede, altresì, nella mostra dei cartoni per i murales di Mario Sironi, al Vittoriano. Tipici, mitici, classici veri o falsi, gloriosamente italici... Monumentalismi caratteristici, oggi forse deplorevoli, ma inconfondibili, riconoscibili da qualunque straniero?
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«Stanotte è morta una mia vecchia zia». «Basta: dovrò ormai affrontare la crisi e il trauma d’un bagno». «Chi vive, disse, non potrà morire». «Quando la morte era certezza, anzi l’idea della certezza». «Io vorrei fare il pensionato sulla Costa Azzurra». «Ieri al mortorio». «Sì, vissi e sono morto». «Vago su questo scrimolo, solingo»... Leggendo o rileggendo Il Tradimento di Tommaso Landolfi, ci si può domandare se il Solingo e lo Scrimolo non appartengano piuttosto a Montale...
Ma eccolo! Nell’ Elegia di Pico Farnese (Pico è accanto a Pontecorvo...) , ecco Zendadi, anfratti, litanie, salmodie... Androne gelido, soffitta tetra, raduna brulla, messaggere accigliate, donne barbute, orde d’uomini-capre, un vero farnetico... Spicchi di muraglie, forse anche cocci di bottiglie, dopo gli squallori irrimediabili di quella sconfortante e mitizzata magione...
Un bagno in Costa Azzurra?... O «Tacere bisognava, e andare avanti»... Fra inutili stragi, radiose giornate, disumane sofferenze, igiene del mondo futurista, sovrumane epopee, peccati di gioventù, eroismi e rabbie, ordini suicidi, sacrifizi inutili, squallori di dormitori, commilitoni, milioni di morti, sepolture sotto la neve, poi riemergenze di cadaveri dai ghiacci, inesattezze in declino, in sfacelo, in trincea... Altro che «cretini con lampi di imbecillità»...
Trasgressioni alternative?... Contaminazioni dissacranti?... Fibrillazioni controcorrente? Quale anticonformismo sarebbe più cool ?
Niobidi assorte, lavoratori all’aratro, solitudini tristi di Sironi? O le bellissime «dimostrazioni» interventistiche di Balla? Vedendo che questo «Idolo moderno» sulla copertina del catalogo viene dalla Collezione Estorick di Londra, si potrebbe rammentare vecchie storie sul signor Estorick che invece di star seduto in un ufficio andava in giro con la sua macchinetta e comprava per poco questi dipinti, anche dalle sorelle figlie impoverite di Balla.
E magari qualche raffronto con questo Aereo di Sironi, accolto da Marinetti tra i futuristi, in sostituzione di Ardengo Soffici...
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Qui alla Gnam , per aria, fregi decorativi di Edoardo Gioia, con vigorose chiappe di eroi e vergini. Sotto, tutta una fantasmagoria di vortici simultanei e compenetrazioni iridescenti. Chini, Severini, Spadini, Prampolini, Nomellini. E magari già Piacentini. Mamme cucitrici, vecchiette in riposo. Ecco però qui anche Depero, Carrà, Cambellotti, Cardorin, Carena, Casorati, Cavaglieri, Chiattone, Sant’Elia, Zecchin, Oppo, i Bugatti, Martini, Martinuzzi, Gino Rossi, Medardo Rosso, Pellizza da Volpedo... Nonché un San Sebastiano sfacciatamente dannunziano di Aroldo Bonzagni, tante volte riprodotto. Elitismi? Etilismi?
Quante vecchie storie. La domenica, certe famiglie signorili andavano a Volpedo, per vedere l’Artista.E lui regalava ai piccini qualche suo dipinto, che poi veniva buttato dai finestrini della carrozza spensieratamente... Qualche principessa viennese venne dileggiata perché desiderava un ritratto di Franz von Stuck alla moda, però «senza peccato» («ohne Sünde») giacché l’artista bavarese era celebre appunto per il suo «Peccato»... Anche qui, sul catalogo.
Rimane «di proprietà privata» — ma si vedeva nell’anticamera , vistando Gianni e Marella Agnelli, ai tempi del loro pianterreno laterale nel Grand Hotel di Roma — il ritratto di Marinetti eseguito da Carrà, e dedicato alla «grande futurista Marchesa Casati». Ecco però qui alla Gnam il famoso Boldini sulla «divina marchesa». Tutta una turbo-velocità con penne di pavone dietro.
Nella mostra a lei dedicata, nel Palazzo Fortuny veneziano, si nota soprattutto la sua bravura nello sgranare gli occhioni. Sopra indumenti dannunziani e talvolta deplorevoli.
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Torna piccina mia, Torna a fiorir la rosa, Torna caro ideal, Nessuno torna indietro, Ritorno alla terra, Sarà triste la sera, Sul mio triste destino, Tornerà? Chissà, Ella m’ha giurato nel partir che non sarebbe ritornata mai più... Partire è morire un po’... D’altronde; se lungi sia la meta, che fa? la strada ancor più lieta, presso te sarà... Non c’è fretta d’arrivare, canta allegro il postiglione! ué!
All’interno di una piccola Italia ferroviaria dove ca-te-go-ri-ca-men-te fischia il vapor sulla strada ferrata! quale fragor nella notte stellata! Oh come vorrei, con lui poter partire! Ma poi tornar! per la gioia di star con te!... Dark, hard, funk, junk?... 

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