sabato 24 gennaio 2015

Dalla critica dei partiti all’antipolitica: la delegittimazione della democrazia in Italia

S.G. Azzarà, Democrazia cercasi, Imprimatur Editore, pp. 363, euro 16: in libreria e in e-bookUn estratto da "Democrazia Cercasi" [SGA].

... Chiediamoci, a questo punto: la critica del parlamentarismo, del sistema dei partiti, delle regole, dei tanti «lacci e lacciuoli» che appesantirebbero la democrazia e l’economia italiana - sfociata più di recente in una delegittimazione complessiva del sistema politico che ha facilitato l’exploit del Movimento 5 Stelle e che viene spesso esorcizzata con il nome infamante di «populismo» o di «antipolitica» dalle stesse centrali informative che l’hanno diffusa - ha avuto a che fare soltanto con Berlusconi o si tratta piuttosto del sintomo estremo di una tendenza più profonda ed antica? É solo di recente che è cambiato l’atteggiamento del funzionariato politico professionale verso i vincoli che le regole costituzionali della democrazia moderna impongono al potere delle élites e degli apparati alle loro dipendenze21? Non è proprio la tradizione di «antipolitica dall’alto»22 - tipica del sovversivismo delleclassi dirigenti del nostro capitalismo e del ceto politico a questo collegato - ad aver generato un’inevitabile reazione emulativa dal basso?
E se c’è davvero una divergenza antropologico-morale tra gli schieramenti politici e le loro alleanze sociali di riferimento, come per lungo tempo è stato dato per scontato, come è possibile che a realizzare il sogno decisionista e plebiscitario di Craxi e dell’ex Cavaliere sia oggi proprio il segretario del partito della sinistra – presto divenuto oggetto di un culto della personalità grottesco, vista la mediocre statura politica del personaggio -, sebbene egli stesso cerchi di farlo dimenticare presentandosi come un Robinson estraneo alle ideologie e alle appartenenze novecentesche come a tutto il «teatrino della politica»?
In realtà le cose non stanno affatto come il centrosinistra e i suoi organi di informazione – primo fra tutti quel giornale, «la Repubblica», che Antonio Gramsci non avrebbe esitato a identificare come il vero Comitato centrale ombra di un intero blocco politico-sociale – le hanno raccontate al proprio elettorato, nel tentativo di consolarlo e di rafforzarne il senso di superiorità morale. Il discredito delle istituzioni e delle regole non è figlio di Berlusconi. Né tantomeno la «presidenzializzazione della politica», con la sua concomitante «spettacolarizzazione» e assimilazione ad un processo di «storytelling»23, è figlia di Beppe Grillo, il fenomeno politico-mediatico del momento – anzi, di un momento fa… -, prima pompato e ora demonizzato e bastonato dall’intero sistema industriale dell’informazione.
Posto che è completamente diverso il leaderismo personalistico contemporaneo dal culto della funzione del capo che era tipico della tradizione comunista (nella quale il Segretario generale del partito era l’incarnazione della ragione nella storia e non faceva che dare voce a quella visione del mondo marxista senza la quale non sarebbe nemmeno esistito), è meno personale di quello di Berlusconi il potere di Vendola con le sue «narrazioni», o quello di Renzi con i suoi «hashtag» giovanilistici24? E non sono diffuse ormai anche all’estrema sinistra forme di spettacolarizzazione della politica in precedenza sperimentate a destra, come dimostra il caso della lista per le elezioni europee che prende il nome dal giovane leader greco Alexis Tsipras? Non è stata proprio la sinistra radicale ad importare in Italia con Fausto Bertinotti lo spettacolo all’americana delle primarie? É solo uno il «capo» che fa del proprio «corpo» un uso mediatico così spregiudicato da poter essere accostato comparatisticamente a quello che a suo tempo Mussolini faceva del proprio25? Non è lo stile populista in politica trasversale agli schieramenti e persino capace di travalicare la distinzione tra istituzioni e movimenti26?
Il declino della politica e della democrazia in Italia non può essere dunque imputato ad una sola persona, per quanto potente e influente, ma è l’esito prevedibile di trasformazioni molto complesse. Di sommovimenti che hanno a che fare non con la superficie della rappresentazione e della comunicazione politica alla quale siamo abituati e che occupa i discorsi da bar o da format televisivo, né con la persistenza di un fantomatico statalismo oppressivo del quale cianciano tuttora i liberali immaginari di casa nostra27, bensì con gli spostamenti molecolari avvenuti nell’oscurità dei rapporti di classe e di produzione nel corso di lunghi anni. Così come hanno a che fare con una dialettica concomitante, che da un secolo e mezzo contrappone la democrazia moderna a quel particolare tipo di regime - apparentemente simile ad essa ma in realtà molto diverso - che dai tempi di Marx viene chiamato con il nome oggi desueto di «bonapartismo»28. Trasformazioni, tra l’altro, che non possono minimamente essere comprese senza chiamare in causa il ruolo e la responsabilità storica del gruppo dirigente postcomunista dopo il 1991. Come ha spiegato Alberto Burgio, «negli anni Novanta è entrato a pieno regime un modello sociale costruito tra gli anni Settanta e Ottanta»29.
Dagli anni Settanta ad oggi, senza quasi che ce ne accorgessimo, è avvenuta in effetti una metamorfosi molto profonda di quella cosa che chiamiamo democrazia. É un fenomeno che ai giorni nostri viene vagamente percepito ed espresso in termini tutt’altro che rigorosi, senza che l’opinione pubblica sia in grado di afferrarlo per intero: crescente distanza tra «la politica» e «la gente», ovvero venir meno della centralità della politica nella società e per gli individui, con conseguente deideologizzazione e caduta delle fedi politiche; mutazione della natura del conflitto, ridotto a competizione per il governo e per l’amministrazione e a procacciamento personale di sinecure; mutazione dei partiti, che non sono più agenzie formative e di partecipazione ma comitati elettorali più o meno provvisori al seguito di leader nazionali o locali; personalizzazione, spettacolarizzazione, mediatizzazione, semplificazione (presunta) del quadro politico; subordinazione all’economia e alla ricchezza personale30…
É insomma quella brutta cosa che Alberto Asor Rosa, in un intervento sul quale dovremo tornare, aveva chiamato qualche tempo fa «corruzione» della politica e del suo rapporto con la società31. Ma che «corruzione» non è affatto, perché – senza nessun bisogno di chiamare in causa la P2 o chissà quali trame oscure - costituisce a guardar bene la normalità del programma e della prassi politica liberale nel momento in cui gli interessi delle classi dominanti non trovano più un’efficace risposta nel conflitto organizzato e consapevole delle classi subalterne... [continua].

21 É la variante italiana del processo efficacemente descritto in Lasch 2001.
22 Mastropaolo 2011, p. 159 sgg.
23 Ventura 2012, pp. 11 sgg., 27 sgg.
24 Cfr. Calise 20102, dove il processo di personalizzazione del potere viene
legittimato ed è legato all’evoluzione “inevitabile” delle democrazie moderne.
25 Cfr. Belpoliti 2011.
26 Tarchi 2003.
27 Fubini 2014.
28 Su queste questioni rimangono fondamentali due libri scritti negli anni
Novanta, quando le trasformazioni qui descritte erano nel vivo: Losurdo
1993a, e Losurdo 1994.
29 Burgio 2009, p. 43.
30 Cfr. Mastropaolo 2011, p. 116 sgg.
31 Asor Rosa 2008.

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