lunedì 19 gennaio 2015

La sinofobia nella nuova Guerra Fredda culturale

Book CoverChristopher Frayling: The Yellow Peril Dr. Fu Manchu and the Rise of Chinaphobia, Thames & Hudson
 
Risvolto
A hundred years ago, a character who was to enter the bloodstream of 20th-century popular culture made his first appearance in the world of literature. In his day he became as well known as Count Dracula or Sherlock Holmes: he was the evil genius called Dr. Fu Manchu, described at the beginning of the first story in which he appeared as “the yellow peril incarnate in one man.”
Why did the idea that the Chinese were a threat to Western civilization develop at precisely the time when China was in chaos, divided against itself, the victim of successive famines and utterly incapable of being a “peril” to anyone even if it had wanted to be? Even the author of the Dr. Fu Manchu novels, Sax Rohmer, acknowledged that China, “as a nation possess that elusive thing, poise.”
And what do the Chinese themselves make of all this? Is it any wonder that they remember what we have carelessly forgotten–the opium wars; the “unfair treaties” that ceded Hong Kong and the New Territories; and the stereotyping of Chinese people in allegedly factual studies?
Here cultural historian Christopher Frayling takes us to the heart of popular culture in the music hall, pulp literature, and the mass-market press, and shows how film amplifies our assumptions.

This history of racism shows how scaremongering cliches about the Chinese have prevailed from Dickens to today
Julia Lovell Guardian 30 10 2014 
 
Hai paura dell’uomo giallo? È la sindrome di Fu Manciù Domenica 18 Gennaio, 2015 LA LETTURA © RIPRODUZIONE RISERVATA
Era giallo. E cattivo. Tanto cattivo. Architettava piani, rapiva potenti soggiogandoli grazie ai suoi funghi magici (non i magic mushrooms proposti ai turisti sulle spiagge del Sud-est asiatico...). Sadico e megalomane, Fu Manchu, Fu Manciù all’italiana, apparve per la prima volta nel 1912 in un racconto dello scrittore inglese Sax Rohmer, al secolo Arthur Henry Sarsfield Ward (1883-1959). Da allora dilagò in romanzi e film, colonizzando lo scomparto dell’immaginario chiamato «paura dell’altro» o meglio «paura della Cina». Fu Manchu è diventato uno stereotipo, condensando a sua volta, in un gioco circolare, un secolo di stereotipi negativi sull’Oriente. 
Padre ideale di cattivi come il Ming di Flash Gordon e il Dr. No di 007 , nessuno meglio di Fu Manchu può raccontare l’ossessione dell’Occidente per il «pericolo giallo», oggi rappresentato dalla Corea del Nord, come rivela la questione del film The Interview , con la sua grottesca eliminazione del leader Kim Jong-un. È per questo che Christopher Frayling, che alla storia culturale ha dedicato la sua insigne carriera, ha intitolato il suo saggio più recente The Yellow Peril , affrontando Fu Manchu come incarnazione della paura della Cina e il ruolo che la cultura popolare ha avuto in questo processo. Anzi: «Io preferisco il termine Chinaphobia al pretenzioso “sinofobia”. Chinaphobia è più pop. E funziona!», spiega.
E dunque sia: «cinafobia». Però, prima di arrivare a questo, l’Europa nel Settecento visse una stagione di ammirazione, di sinofilia... 
«La sinofilia si è trasformata in fosca cinafobia all’inizio dell’Ottocento. Nel Settecento la Cina suggeriva l’immagine di una forma di governo illuminata e sofisticata, evocava porcellane bianche e azzurre, architettura raffinata, forniva un pretesto e uno strumento per esercitare una critica dei Paesi europei, vedi anche testi come le Lettere cinesi (di Jean-Baptiste de Boyer, marchese d’Argens, 1704-1771, ndr ). Ecco, io credo che abbia a che fare con i tentativi di penetrazione economica dell’Occidente in Asia, con il fallimento di missioni diplomatiche, con la ricerca di mercati su cui piazzare i propri prodotti industriali e con il sorgere di idee imperialiste. La cinafobia che sorse allora dava corpo a timori basati su motivazioni di tipo razziale». 
Oggi però i timori sono di tipo economico. O politico. 
«Ma secondo me il repertorio di stereotipi è rimasto sorprendentemente costante. E questo stesso repertorio ha ora a sua disposizione tutt’un altro genere di strumenti e mezzi». 
Perché la cultura popolare è stata così efficace nel promovere questa sinofobia o cinafobia? 
«In Orientalismo , del 1978, Edward Said affrontava con grande efficacia il tema dell’orientalismo nel quadro della cultura alta e del mondo accademico europei. Io ho esteso la ricerca alla cultura popolare. In parte perché riflette temi sollevati dalla cosiddetta cultura alta, in parte perché a sua volta genera e amplifica certe attitudini. In particolare, mi riferisco al giornalismo e al music hall , che agli inizi hanno reso il dibattito più estremo e fragoroso. Certi atteggiamenti sono stati poi ripresi e ancora elaborati dal cinema muto e dai primi film sonori di Hollywood». 
Ma i timori riguardo la potenza della Cina e i suoi comportamenti sono ragionevoli. 
«Attenzione: io non dico che non ci siano fatti reali dei quali preoccuparci, no. Però è un dato di fatto che noi, anche oggi, vediamo la Cina attraverso lenti di una cinafobia di un’altra epoca. Così com’è vero che la stessa Cina guarda a noi, all’Occidente, attraverso stereotipi, come il “secolo di umiliazione” evocato così spesso. Inoltre a volte tendiamo ad angosciarci nel modo sbagliato, facendoci travolgere da esagerazioni e miti dei quali invece dobbiamo essere consapevoli per affrontare i problemi. Bisogna poter arrivare, alla fine, ad abbassare le armi. Su entrambi i fronti». 
Intelligente, moderno ma al contempo profondamente immerso nella cultura cinese. Così fu concepito il personaggio di Fu Manchu. 
«È un esempio perfetto della nostra tendenza a personificare gli stereotipi nella figura del “cattivo”. Fu Manchu agisce attraverso un culto malefico, annuncia in anticipo ai media cosa farà, ha accesso alle tecnologie più aggiornate: una specie di Osama Bin Laden fittizio e in anticipo sui tempi. Tutto questo in romanzi, fumetti, radiodrammi, racconti, cartoni animati. È tuttora una specie di sinonimo per “cattivone”: un po’ come Dracula, il Moriarty di Sherlock Holmes , il mostro di Frankenstein, mister Hyde e altri villain . Cinese, però. E gli hanno dato il volto attori non cinesi come Karloff, Oland, Christopher Lee, persino Peter Sellers». 
Chi sono i Fu Manchu di oggi? 
«Nella cultura pop Bin Laden da una parte, Mao dall’altra. Nella letteratura e nei film, il cattivo non è più la Cina, che è ormai un mercato per Hollywood e a Hollywood investe». 
C’entra l’avvento del comunismo nell’affermazione di Fu Manchu e dei suoi derivati nel dopoguerra? 
«La guerra fredda ha rinvigorito i vecchi stereotipi, ricollocandoli dietro la cortina di bambù, almeno fino alla visita di Nixon a Pechino. Prima di allora, in assenza o quasi di turismo, era quasi impossibile vedere cinesi in situ . La mia analisi offre uno schema di interpretazione, che può essere trasferito ad altri Paesi: dalla Corea, con il feroce Oddjob di 007 , al Giappone, specialmente subito dopo la Seconda guerra mondiale» 
Non serve essere cinese per venir rappresentato come Fu Manchu... 
«Negli anni Quaranta Hollywood è passata dai cattivi cinesi ai cattivi giapponesi, specie nei B-movie , spesso impiegando gli stessi attori di prima. Oggi la demonizzazione si è spostata sulla Corea del Nord, per ovvi motivi. Ma il repertorio di stereotipi resta sempre quello, adattabile a ogni “orientale”, un po’ come, a un livello più alto, mostra Said nel suo libro. Lui si era limitato al Medio Oriente, io l’ho esteso alla Cina: ma il mio metodo è applicabile altrove».

Nessun commento: