lunedì 19 gennaio 2015

L'intervista di Lanzmann a Murmelstein

L’ultimo degli ingiusti
Claude Lanzmann: L'ultimo degli ingiusti, Skira, Milano, pagg. 138, € 15,00


Risvolto
  Dopo il capolavoro Shoah, nel 2013 Lanzmann decide di realizzare un film su Benjamin Murmelstein, l’ultimo decano del Consiglio Ebraico del ghetto di Theresienstadt (o Terezin) recuperando la lunga intervista filmata che gli aveva fatto quando era esule a Roma. Theresienstadt, detto anche il “ghetto modello”, apparentemente era una stazione termale che Hitler aveva “regalato” agli ebrei. In realtà era uno specchietto per le allodole per le potenze straniere e la Croce Rossa Internazionale e un campo di concentramento e di smistamento.
Murmelstein fu a lungo accusato di collaborazionismo e non poté mai mettere piede in Israele. Lanzmann, con le sue domande risolute, ottiene da Murmelstein una confessione sincera e talvolta quasi politicamente scorretta, ma mai in contraddizione con una vita di raro coraggio e con la decisione di non fuggire quando avrebbe potuto, restando invece tra la sua gente per fare tutto il possibile.
Claude Lanzmann (1925), regista, sceneggiatore e produttore cinematografico francese, come autore ha pubblicato Shoah (1987), Un vivo che passa. Auschwitz 1943 - Theresienstadt 1944 (2003) e La lepre della Patagonia (2010).
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Dopo il capolavoro Shoah, nel 2013 Lanzmann decide di realizzare un film su Benjamin Murmelstein, l’ultimo decano del Consiglio Ebraico del ghetto di Theresienstadt (o Terezin) recuperando la lunga intervista filmata che gli aveva fatto quando era esule a Roma. Theresienstadt, detto anche il “ghetto modello”, apparentemente era una stazione termale che Hitler aveva “regalato” agli ebrei. In realtà era uno specchietto per le allodole per le potenze straniere e la Croce Rossa Internazionale e un campo di concentramento e di smistamento.
Murmelstein fu a lungo accusato di collaborazionismo e non poté mai mettere piede in Israele. Lanzmann, con le sue domande risolute, ottiene da Murmelstein una confessione sincera e talvolta quasi politicamente scorretta, ma mai in contraddizione con una vita di raro coraggio e con la decisione di non fuggire quando avrebbe potuto, restando invece tra la sua gente per fare tutto il possibile.
Claude Lanzmann (1925), regista, sceneggiatore e produttore cinematografico francese, come autore ha pubblicato Shoah (1987), Un vivo che passa. Auschwitz 1943 - Theresienstadt 1944 (2003) e La lepre della Patagonia (2010).

Claude Lanzmann I panni dell'ultimo degli ingiusti
di Sergio Luzzatto Il Sole Domenica 18.1.15
Dove collocarlo, verso l'alto o verso il basso, nella «vasta fascia di coscienze grigie che sta fra i grandi del male e le vittime pure»? «È difficile dire: lui solo lo potrebbe chiarire se potesse parlare davanti a noi, magari mentendo, come forse sempre mentiva; ci aiuterebbe a comprenderlo, come ogni imputato aiuta il suo giudice, e lo aiuta anche se non vuole, anche se mente, perché la capacità dell'uomo di recitare una parte non è illimitata».

Così scriveva Primo Levi – sulla «Stampa» del 20 novembre 1977 – a proposito di Chaim Rumkowski. Il più equivoco fra gli ebrei d'Europa coinvolti e travolti dalla Soluzione finale. Il presidente del Consiglio degli Anziani di Lodz, che dal 1939 al '44 resse il ghetto della città polacca quale improbabile «Re dei Giudei» prima di finire a sua volta gasato ad Auschwitz, come i miserevoli suoi sudditi. Colui di cui Levi avrebbe fatto, ne I sommersi e i salvati, l'incarnazione stessa della «zona grigia». Ma c'era qualcosa che Levi, interrogandosi su Rumkowski nel 1977, non poteva sapere e forse neppure immaginare. Che appena due anni prima, nel 1975, l'equivoco presidente di un altro ghetto ebraico, quello boemo di Theresienstadt, aveva effettivamente parlato.

Il rabbino Benjamin Murmelstein, già enfant prodige della comunità israelitica di Vienna, era l'unico fra i decani dei ghetti d'Europa che fosse sopravvissuto alla Shoah. Processato dalle autorità cecoslovacche all'indomani della Liberazione, assolto nel 1946, si era stabilito a Roma con moglie e figlio. Entro la sorda ostilità della comunità ebraica locale, si era rifatto una piccola vita non più da guida spirituale, ma da commerciante di mobili. E nel 1975 un Murmelstein ormai settantenne era stato lungamente intervistato da un giovanile cinquantenne parigino, un giornalista arrivato a Roma dritto dritto dalle redazioni buone della Rive gauche: Claude Lanzmann, che iniziava allora a preparare il suo epocale documentario del 1985, Shoah. Senonché si è dovuto attendere altri quarant'anni o quasi perché le parole di Benjamin Murmelstein diventassero infine ascoltabili; perché questo superstite Re dei Giudei potesse infine (secondo la formulazione di Primo Levi) «chiarire» parlando «davanti a noi», «magari mentendo, come forse sempre mentiva». Si è dovuto attendere il documentario di Lanzmann uscito in Francia nel 2013, Le dernier des injustes, di cui Skira pubblica ora – primo editore al mondo – il testo integrale.

L'ultimo degli ingiusti suona come una provocazione fin dal titolo. Ed è Murmelstein stesso a definirsi così, rovesciando il titolo di un romanzo di André Schwarz-Bart, L'ultimo dei giusti. È Murmelstein che decide di interpretare davanti alla cinepresa di Lanzmann un ruolo faustiano e mefistofelico insieme: quello del l'ebreo che ha venduto l'anima ai nazisti per scoprire il modo di salvare gli ebrei, oltreché per salvare se medesimo. Senz'altro contraddittorio che qualche blanda replica dell'intervistatore (diversamente che nel coro di testimonianze raccolte in Shoah, questa tragedia è un monologo), l'intervistato si lancia in un'apologia che non lascia spazio al minimo dubbio né alla minima autocritica.
Secondo Murmelstein, Murmelstein ha avuto sempre ragione. L'ha avuta fin dagli anni di Vienna, 1938-41, quando da dirigente della comunità israelitica è stato il principale collaboratore di Adolf Eichmann nell'organizzare l'emigrazione di decine di migliaia di ebrei (tra cui Sigmund Freud) verso l'Inghilterra o altrove, comunque fuori dal Terzo Reich. E ancora Murmelstein ha avuto ragione – assicura Murmelstein – negli anni di Theresienstadt, 1943-1945, quando prima da dirigente poi da presidente degli Anziani ha gestito con mano di ferro il ghetto-modello di Boemia, un'anticamera di Auschwitz spacciata dai nazisti come buen ritiro per ebrei della terza età.
Il suo scopo era quello, semplicemente, di far durare le cose il più possibile: fino all'inevitabile sconfitta di Hitler e al sospirato arrivo dei liberatori. A costo di allestire insieme con le SS, periodicamente, convogli di deportati verso i lager della vicina Polonia. A costo di organizzare un «abbellimento» del ghetto per gettare fumo negli occhi ai delegati della Croce Rossa internazionale. A costo di assistere i nazisti nella produzione di un film di propaganda sulla vita libera e serena dei morituri (il film che W.G. Sebald porrà al centro, oltre mezzo secolo dopo, della memorabile sua discesa agli inferi del Novecento, Austerlitz).
Alle orecchie di Claude Lanzmann, già nel 1975 gli argomenti di Benjamin Murmelstein riuscirono talmente persuasivi da meritare all'ex decano di Theresienstadt – è la scena finale dell'Ultimo degli ingiusti – un abbraccio sotto l'Arco di Tito. Decenni più tardi, per riabilitare Murmelstein agli occhi della posterità Lanzmann ha scelto di costruire un documentario che per molti aspetti, dall'uso di immagini d'archivio all'onnipresenza del regista sullo schermo, fino al tono generale del film, meno scabro che polemico, appare l'opposto di Shoah. E oggi, nella pagina da lui premessa al libro di Skira, Lanzmann sceglie di attaccare frontalmente gli ebrei italiani detrattori di Murmelstein, denunciando senza mezzi termini «la stupidità delle accuse dei suoi correligionari». «Questa vergognosa idiozia toccò il suo apice quando, alla morte di Murmelstein nel 1989, il rabbino capo di Roma Elio Toaff rifiutò di dargli sepoltura nel cuore del cimitero ebraico della Città Eterna, relegandolo al limitare delle tombe come si faceva un tempo con i suicidi».
L'adesione di Lanzmann alle ragioni di Murmelstein è così piena e totale che anche le sparate più grosse dell'ex decano di Theresienstadt restano qui non contraddette, invendicate. Come quando Murmelstein arriva a sostenere che nulla si potesse sapere nel ghetto boemo, neppure alla fine, sul funzionamento di Auschwitz quale campo di sterminio. Né Lanzmann si preoccupa di ricordare, nella loro asciutta eloquenza, i numeri finali di Theresienstadt. Trentatremila ebrei morti di privazioni all'interno del ghetto (tra loro, Dolfi Freud: sorella di quel Sigmund beffardamente evocato da Murmelstein nella scena finale); ottantottomila deportati ad Auschwitz o nei lager dei dintorni (fra loro Paula e Marie, altre sorelle di Freud). Altrettante vittime per le quali il Murmelstein del 1975, parlando con Lanzmann dalla terrazza di un albergo sui tetti di Roma, non ha una singola parola di pietà.
Eppure, bisogna oggi riconoscere come e quanto il Claude Lanzmann del 1975 – nel momento in cui abbracciava le ragioni, e perfino le spalle di Benjamin Murmelstein – fosse in anticipo sui tempi della storia. Bisogna riconoscere come fosse sensibile e quanto fosse lucido nel rigettare una rappresentazione storica che si era imposta in Occidente a partire dal 1963, dopo il famoso reportage di Hannah Arendt dalla Gerusalemme del processo Eichmann: la rappresentazione dei decani dei Consigli degli Anziani quali figure fondamentalmente grette, per non dire totalmente abiette. Pavidi collaboratori, per non dire cinici complici della Soluzione finale.
Oggi, la storiografia più avvertita è lungi dal tratteggiare in maniera simile figure come quelle di Benjamin Murmelstein o di Chaim Rumkowski. In effetti, i migliori storici della Shoah sottoscriverebbero oggi un'affermazione particolarmente icastica, fra le molte che Murmelstein stesso consegnò a Lanzmann durante l'intervista romana del 1975: nei ghetti della Soluzione finale, quello dei decani «era potere senza potere». Unicamente nella fantasia retrospettiva di Arendt, reporter di lusso a Gerusalemme, i presidenti degli Anziani avrebbero potuto, attraverso una scelta categorica di non collaborazione, promuovere nei ghetti un movimento di resistenza. Wishful thinking di filosofi, non di storici.
Del resto, la migliore storiografia insiste oggi sul fatto che almeno alcuni tra i decani, per quanto discutibili nella loro personale interpretazione del ruolo di Re dei Giudei (a Theresienstadt il soprannome di Murmelstein era Murmelschwein, il porco), ebbero una reale efficacia nel rallentare la macchina nazista dello sterminio. Accettando di giocare sino in fondo il gioco delle SS, uomini come Rumkowski a Lodz, come Murmelstein a Vienna e poi a Theresienstadt, contribuirono a salvare un numero imprecisato e imprecisabile di vite umane.

Sicché anche Primo Levi – che pure aveva, della Shoah, un'esperienza tanto più diretta e profonda rispetto a Hannah Arendt – ha usato forse (per una volta) le parole sbagliate quando nel 1977, a proposito di Chaim Rumkowski, ha scritto di un «imputato» posto davanti al suo «giudice». Due anni prima, Benjamin Murmelstein gli aveva già risposto (senza saperlo) da par suo: «Un decano degli ebrei può essere condannato. Anzi, deve essere condannato. Ma non può essere giudicato, perché nessuno può mettersi nei suoi panni».

Murmelstein, che camminò a fianco del male Giornata della Memoria. Il nuovo film di Claude Lanzman - Le dernier des injustes, es in doppia veste editoriale e con un'edizione in dvd—  Fabio Francione, Alias Il Manifesto 24.1.2015
Un nuovo film di Claude Lan­z­mann è da salu­tare sem­pre come un evento. Per come l’irascibile regi­sta, gior­na­li­sta e scrit­tore fran­cese sa susci­tare pole­mi­che e discus­sioni da sessant’anni a que­sta parte con la sua inin­ter­rotta ricerca sulle cause e ragioni della Shoah (il suo epo­nimo capo­la­voro cine­ma­to­gra­fico ha rivo­lu­zio­nato la sto­rio­gra­fia sulle depor­ta­zioni e lo ster­mi­nio ebraico nazi­sta). Non fa ecce­zione, Le der­nier des inju­stes (L’ultimo degli ingiu­sti), che oggi esce, in dop­pia veste edi­to­riale ita­liana e in con­tem­po­ra­nea all’approssimarsi del «Giorno della memo­ria», con un’edizione in dvd (Fil Rouge Media/ CG Enter­taint­ment) e un libro della Skira che ne rac­co­glie la sce­neg­gia­tura e che avrà pro­prio il 27 gen­naio alle ore 21 una pro­ie­zione in strea­ming gra­tuito sulla piat­ta­forma digi­tale di MyMo­vie­sLive (www​.mymo​vies​.it/​f​i​l​m​/​2​0​1​3​/​t​h​e​l​a​s​t​o​f​t​h​e​u​n​j​u ​s​t​/​l​i​ve/).
Il film pas­sato fuori con­corso a Can­nes nel 2013 e fug­ge­vol­mente all’inizio dello scorso anno in alcuni cinema ita­liani alla pre­senza dello stesso regi­sta sem­pre in con­co­mi­tanza con i giorni dedi­cati alla memo­ria dell’Olocausto ebraico, nasce, al pari di Un vivant qui passe (1997) e Sobi­bor, 14 octo­bre 1943, 16 heurs (2001) da costole e escre­scenze del suo capo­la­voro. Anzi, Le der­nier des inju­stes, sem­bra pene­trare più a fondo nelle tema­ti­che di Un vivant qui passe che in certo qual modo, veden­dolo in pro­spet­tiva rove­sciata, potrebbe esserne una prova gene­rale nella testi­mo­nianza della vita quo­ti­diana del dot­tor Mau­rice Rus­sell a The­re­sien­stadt, la città-fortezza situata a poco più di cin­quanta chi­lo­me­tri da Praga che, negli inten­di­menti di Eich­mann, doveva essere lo spec­chietto per le allo­dole dell’opinione pub­blica ostile al regime nazi­sta. Ma per capire «L’ultimo degli ingiu­sti», il rab­bino vien­nese Ben­ja­min Mur­mel­stein, biso­gna capire anche come si è mosso e si muove ancora Lan­z­mann in un discorso, come quello sull’antisemitismo e l’Olocausto, che offre il destro a non pochi equi­voci e frain­ten­di­menti. Anche nell’impossibilità di star­gli se non alla pari nem­meno die­tro. Gio­va­nis­simo par­te­ci­pante alla resi­stenza fran­cese, geni­tori biz­zarri e anti­con­for­mi­sti, in par­ti­co­lare la madre fian­cheg­gia­trice del Sur­rea­li­smo, edu­cato alla scuola de L’Être et le néante della rivi­sta Les temps moder­nes di Jean-Paul Sar­tre e di Simone de Beau­vior, di cui fu per un lasso di tempo abba­stanza lungo com­pa­gno di vita — a pro­po­sito del perio­dico ne pren­derà dopo di lei la dire­zione man­te­nen­dola ancor oggi — Lan­z­mann, alla soglia dei novant’anni, non sem­bra aver messo da parte né l’intransigenza carat­te­riale, scam­biata spesso per boria trom­bo­ne­sca, né il desi­de­rio di essere ancora una volta inter­prete del suo tempo. E lo fa libe­rando dai suoi archivi l’intervista a Mur­mel­stein una delle prime rea­liz­zate per Shoah, poi non uti­liz­zate. Lan­z­mann rac­conta: «Lo inter­vi­stai a Roma, per un’intera set­ti­mana, nel 1975. A mio avviso The­re­sien­stadt è stata il ful­cro, in tutti i sensi, della genesi e dell’attuazione della Solu­zione Finale. Tutte quelle ore di con­ver­sa­zione, piene di rive­la­zioni ine­dite, con­ti­nua­vano a ron­zarmi in testa e a tor­men­tarmi. Sapevo di essere il depo­si­ta­rio di qual­cosa di unico, ma indie­treg­giavo di fronte alle dif­fi­coltà di rea­liz­zare un film.
C’è voluto molto tempo prima di arren­dermi all’evidenza che non avevo il diritto di tenere per me quelle infor­ma­zioni». Quindi la Shoah per Lan­z­mann, ieri come oggi, è sì l’azione di un indi­ci­bile sopruso all’umanità (e nel caso spe­ci­fico The­re­sien­stadt come ini­zio dell’orrore), ma è anche sto­ria, stra­ti­fi­ca­zioni di poteri, incom­pren­sioni, fur­bi­zie e rivolte. Qui, non ci sono con­si­de­ra­zioni di carat­tere filo­so­fico: c’è la realtà, cru­dele quanto si vuole. Ma pur sem­pre realtà. Ed è una realtà che bru­cia ancora, che non smette di ardere, ince­ne­rendo – nem­meno chie­dendo scusa all’ambiguità delle parole – tutte le pas­sioni umane. Ma un nemico più sub­dolo, tra­ge­dia nella tra­ge­dia, è la buro­cra­zia. Solo così si può capire l’azione pub­blica di Ben­ja­min Mur­mel­stein, l’ultimo dei decani del «ghetto modello», sta­zione di tran­sito verso la morte, e pro­ta­go­ni­sta indi­scusso – fu lui a sug­ge­rire il titolo a Lan­z­mann – di Le der­nier de les inju­stes. La bril­lan­tezza delle rispo­ste, la net­tezza dei suoi giu­dizi su acca­di­menti e per­sone come la filo­sofa Han­nah Arendt o l’ex-amico Gerhard Scho­lem, grande stu­dioso della Kab­ba­lah, che lo voleva impic­cato, il suo ricor­dare epi­sodi persi nella memo­ria come le urla di Eich­mann (uomo mai banale ma male asso­luto) pistola in mano nell’ufficio per l’emigrazione isti­tuito dai nazi­sti a Vienna o quelle dei bam­bini arri­vati a The­re­sien­stadt che alla vista delle docce pro­nun­cia­vano inspie­ga­bil­mente gas, lo mostrano come un uomo con­sa­pe­vole di ciò che è stato: «io non sono un tipo avven­tu­roso. Non mi sono mai tirato indie­tro, spe­cial­mente per tutto ciò che riguar­dava il mio ruolo pub­blico, di fronte al peri­colo». Insomma, s’interroga il regi­sta (e con lui il pub­blico): all’ultimo degli ingiu­sti cosa si può impu­tare? Un eccesso di ordine, una durezza nei comandi, l’aver cam­mi­nato a fianco del male per ben otto anni o sem­pli­ce­mente di essere l’unico soprav­vis­suto alla strage dei decani del Con­si­glio Ebraico di The­re­sien­stadt? Ciò gli costò l’ostracismo dei suoi cor­re­li­gio­nari, l’esilio a Roma, e l’impossibilità di vivere in Israele. Le parole come le cose sono diverse tra loro per sot­tili sfu­ma­ture, ma anche le imma­gini come gli uomini.


Shoah, in un libro Lanzman svela l’altra faccia del rabbino capo di Vienna Murmelstein
L’intellettuale francese in un film documentario e in un romanzo descrive la personalità controversa del decano dello Judenrat del campo di concentramento di Theresienstadtdi Francesco Sforza La Stampa 24.1.15

Il rabbino scampato a Terezin In un libro-intervista Lanzm ann riabilita M urm elstein, il decano considerato a lungo un traditore dagli ebrei27 gen 2015  Libero PAOLO BIANCHI
Tra l’incudine e il martello. Un conflitto spaventoso. Fu quello che attraversarono i componenti dei Consigli Ebraici, istituzioni volute dai nazisti per controllare i ghetti, specie in Polonia. Un Consiglio in genere si componeva di 12 membri e di un decano, chiamato Judenalteste, «il più vecchio degli ebrei». Quest’ultimo era una persona influente della comunità, per esempio un autorevole rabbino. Il decano e il consiglio avevano la responsabilità orribile di fare da intermediario tra i nazisti e la popolazione ebraica dei ghetti o dei lager. Dovevano, insomma, collaborare con i loro sterminatori, spesso organizzando le deportazioni di massa.
Il loro operato si svolse all’inizio nella speranza che la ghettizzazione servisse solo a separarli dalla popolazione ariana, in modo che potessero vivere tranquillamente tra loro. Prima della Soluzione Finale, Hitler aveva vagheggiato varie ipotesi, di cui una fra le più strampalate, ma appoggiata dal governo polacco nel 1936, prevedeva l’emigrazione forzata di tutti gli ebrei tedeschi e degli altri Paesi occupati in Madagascar...
Un’idea irrealizzabile, tanto che venne accantonata con l’inizio della guerra, quando gli inglesi cominciarono ad assicurarsi il controllo dei mari. Da quel momento la parola Madagascar veniva pronunciata a significare un ben altro progetto, quello dell’eliminazione fisica.
L’ultimo dei decani si chiamava Benjamin Murmelstein, era nato nel 1905 ed è morto nel 1989 a Roma. Era il rabbino di Vienna fin dagli anni Trenta e si trovò a gestire, dopo l’Anschluss del 13 marzo 1938, l’emigrazione egli ebrei, coordinata dal Adolf Eichmann. Murmelstein è stato una figura controversa, accusato di collaborazionismo dal suo stesso popolo, tanto che non gli fu mai permesso di stabilirsi in Israele. Visse a Roma. Nel 1975 fu intervistato a lungo dal regista francese Claude Lanzmann, che nel 2013 ha pubblicato il documentario L’ultimo degli ingiusti, presentato a Cannes. La trascrizione in volume del film è appena uscita in Italia prima altrove per Skira ( pp. 144, euro 15).
Il momento clou dell’attività di Murmelstein fu essere nominato decano del ghetto di Theresienstadt dal dicembre 1944 al 9 maggio 1945. Chiamato anche Terezin, questo piccolo centro della Boemia, 60 km a nord di Praga, fu costruito come un ghetto modello, una sinistra città di facciata per dimostrare al mondo che gli ebrei erano trattati con umanità. Di fatto, fu il crocevia per lo smistamento verso i campi di sterminio di BirkenauAuschwitz.
Terezin era un macabro paese dei balocchi dove i nazisti allestirono una messinscena fatta di laboratori artigianali, teatri, atelier, orchestre, giornali, sport. Tutto a favore di documentari. In realtà, era un inferno. Vi furono tre decani. Il primo, Jakob Edelstein, praghese, era speranzoso. Volle credere che Terezin fosse l’anticamera per l’insediamento in Palestina. Nel 1943 fu portato ad Auschwitz e ucciso con un colpo di pistola alla nuca. Il secondo, Paul Eppstein, berlinese, era consapevole. Anche lui venne fucilato. E allora toccò a Murmelstein. Che fu pratico.
Nel libro, le sue parole sono misurate, i ricordi dettagliati, le ricostruzioni scrupolose. Conosceva benissimo la verità: «Io sapevo che Theresienstadt era una vetrina. Se l’avessimo resa piacevole da vedere, l’avremmo salvata». In altre parole si trattava di «raccontare una storia» come quella di Sheherazade nelle Mille e una notte. Prendere tempo finché la guerra finisse.
La figura pubblica di Murmelstein ne uscì frantumata. Lui, che pure aveva “abbellito” la città facendo lavorare gli uomini 70 ore alla settimana, perché la farsa reggesse, lui che si rifiutò di compilare le liste dei deportati verso le camere a gas, fu additato come traditore. La domanda che più spesso gli fu rivolta era: «Perché ti sei salvato?». Dev’essere una domanda che lui stesso si è posta molte volte. E alla quale dà anche una risposta al suo intervistatore: «Io ero l’ultimo. L’ultimo dei guardiani. Li avevano eliminati tutti. Se avessero eliminato anche me non avrebbero neanche saputo da dove cominciare con il ghetto. Hanno dovuto farselo andare bene...». Ed è così, con amaro sarcasmo, che Murmelstein ha definito se stesso «L’ultimo degli Ingiusti».      

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