giovedì 15 gennaio 2015

Verso il Cetriolone. "Se i candidati di Renzi si costituissero in Associazione, capirebbero che a ognuno di loro è stata detta sostanzialmente la stessa cosa"

Il premier cerca di esorcizzare lo spettro di un Pd lacerato

di Massimo Franco Corriere 15.1.15

Matteo Renzi conta sullo spauracchio della primavera del 2013. Sa che allora un Pd quasi vincente alle elezioni politiche, non riuscì a trovare un nuovo capo dello Stato. E spera che quella vicenda, dalla quale il partito emerse lacerato dai personalismi e dalle candidature «bruciate» nel segreto dell’urna, sia un monito per i parlamentari; che li spinga a dare un segnale di unità da spendere soprattutto con l’opinione pubblica e il proprio elettorato. Ma il passaggio dalla delegittimazione ad una rilegittimazione non è scontato. Molto dipenderà da come il Pd arriverà alla vigilia del pomeriggio del 29 gennaio, quando si comincerà a votare. Le incognite si chiamano soprattutto riforme.
Sia quella elettorale che del Senato appaiono in salita. Eppure, Renzi è convinto di strappare l’approvazione di entrambe per la fine del mese. Il segnale è il «no» che ieri i gruppi di maggioranza e FI hanno risposto alla richiesta delle opposizioni di bloccare tutto fino alla scelta del presidente della Repubblica. È vero che al Senato sono planati alcune decine di migliaia di emendamenti. Eppure, l’iniziativa della Lega è considerata tattica. E si dà per probabile che alla fine le modifiche possano essere ritirate o aggirate. Il problema, di nuovo, è il Pd. Renzi dovrà trovare un compromesso sull’ Italicum con la minoranza, che non vuole troppi candidati «nominati» dal segretario.
Solo così può esorcizzare il fantasma del 2013; e sperare di ottenere l’elezione di un «suo» capo dello Stato alla quarta votazione, quando basterà la maggioranza assoluta dei voti e non più quella di due terzi. A piazza del Nazareno, sede del partito, concedono che solo un rapporto più disteso con gli avversari interni può facilitare una soluzione rapida. Altrimenti, le manovre delle tribù dei tanti candidati democratici potrebbero trascinare il nulla di fatto per giorni: col rischio di regalare al movimento di Beppe Grillo un ruolo perfino maggiore di quello del 2013, quando riuscì a incunearsi nelle liti della sinistra con la candidatura del professor Stefano Rodotà.
Renzi confida non tanto nella lealtà ma nella debolezza del centrodestra. La voce grossa fatta ieri da Silvio Berlusconi per arringare le sue truppe a Roma, convince fino ad un certo punto. Attaccare il governo e rispolverare lo spettro dei comunisti; o peggio dichiararsi forza risolutamente all’opposizione, suona più come un tentativo di placare i malumori della base di FI che come un annuncio di guerra al premier. La realtà è che Berlusconi ha margini ridotti di trattativa con l’attuale Pd. E l’asse istituzionale cementato dal patto del Nazareno lo vede in posizione subalterna. Appoggiare un capo dello Stato espresso da Renzi è una strada obbligata per non diventare marginale.
Il problema sarà la marcia di avvicinamento al 29 gennaio: un percorso nel quale il metodo viene presentato come il passepartout per superare le resistenze soprattutto dentro il Pd. La Lega dice di temere che il Quirinale «sia merce di scambio tra Renzi e Berlusconi». E con Movimento 5 Stelle e Sel bolla la fretta di dire «sì» all’ Italicum come l’ennesimo indizio di una gran voglia di elezioni anticipate. Ma la clausola che non prevede l’entrata in vigore della riforma prima del luglio del 2016 sembra rinviare qualunque desiderio di urne di almeno un anno e mezzo. Sempre che la successione a Giorgio Napolitano non diventi un incubo. Ma lo diventerebbe per tutti. 



La rete del premier che mantiene i contatti con tutti i candidati

di Francesco Verderami Corriere 15.1.15

ROMA Terrà fede al soprannome che gli hanno affibbiato in Consiglio dei ministri, perciò prima di lanciare un nome per il Colle Renzi «last minute» aspetterà fino all’ultimo, fino all’ultimo studierà i candidati e i sondaggi che sul loro conto ha commissionato. E siccome dai dati demoscopici emerge che nessun politico spicca oggi negli indici di gradimento, non ha definitivamente accantonato l’idea della sorpresa.
Ma di questo il premier tace con i quirinabili, a cui dice o fa dire cose che non spengono le loro speranze. Per Amato ha avuto parole commendevoli, a Del Rio ha spiegato che «tu saresti il mio ideale», a Casini non ha opposto veti all’ipotesi di un esponente dell’area moderata al Quirinale. Tranne Cantone — a cui ieri ha cancellato ogni aspirazione sostenendo in pubblico che «lui ha già tanto da fare all’Autorità anticorruzione» — il leader del Pd fa sentire tutti in corsa. Se i candidati di Renzi si costituissero in Associazione, capirebbero che a ognuno di loro è stata detta sostanzialmente la stessa cosa.
Sarà per via della sua indole o per la difficoltà politica di comporre al momento l’intricata faccenda, in ogni caso il premier sta alimentando le ambizioni di quanti vorrebbero succedere a Napolitano. E li tiene stretti a sé, grazie a un network di fedelissimi che risponde solo a lui e che ha il compito di monitorare i quirinabili e riferirgli ogni dettaglio delle loro conversazioni.
Così a Delrio è stato assegnato il «fronte emiliano», dove sono di stanza Prodi e Castagnetti. Alla Boschi sono toccate la Severino e la Finocchiaro. La Madia è stata facilitata, visto che parla ogni giorno con il figlio di Mattarella, capo legislativo del suo dicastero. Nessuno si risparmia. Persino il sindaco di Firenze è coinvolto da Renzi nella «rete»: è Nardella infatti a tenere in via riservata i rapporti con Amato.
Agli ex segretari del partito ci pensa invece il premier, conscio che «tutti i miei predecessori si sentono candidati in pectore per il Quirinale». E con loro Renzi parla, più di frequente manda sms di lusinga o di rassicurazione. Ma tra questi c’è chi ricorda com’era rassicurante il messaggio inviato dal segretario del Pd a D’Alema quando era in ballo per una nomina in Europa: è un messaggio che l’ex premier ha tenuto nella memoria del telefonino e che ogni tanto mostra ai suoi interlocutori per metterli sull’avviso.
In fondo però Renzi va capito. Deve gestire il passaggio più delicato della sua giovane carriera politica, con avversari interni ed esterni al suo partito che — a scrutinio segreto — vorrebbero riservargli il trattamento della rottamazione. Il premier però è convinto di partire nella corsa al Colle da una posizione di forza, e da lì poter mediare: «Nessuno — spiega — potrà fare un presidente della Repubblica contro di me, anche se io dovrò farlo insieme agli altri».
Gli «altri» sono Berlusconi, l’Area popolare di Alfano e la minoranza democratica. E pur di tenere dentro l’accordo il Cavaliere, mette in conto di perdere un pezzo del suo stesso partito. Il problema è di non perdere tanti pezzi del Pd e soprattutto di non ritrovarsi con una Forza Italia a pezzi. Questo è il maggior rischio, evidenziato ieri nell’Aula della Camera e riassunto in un tweet dal renziano Giachetti: «Dal dibattito sulle riforme si deduce che a giorni cadrà la giunta Maroni e che ad ore i fittiani usciranno da Forza Italia».
Nonostante Berlusconi faccia sfoggio dei «nostri 150 grandi elettori» per dire che «al Quirinale non voteremo un capo dello Stato come gli ultimi tre», lo spettacolo offerto a Montecitorio non è stato un bel segnale per il premier alla vigilia della partita per il Quirinale. E come non bastasse, in vista delle prime tre votazioni — le più insidiose per Renzi — i dirigenti del Pd hanno segnalato a palazzo Chigi movimenti di truppe Cinquestelle, pronte a votare Prodi per tentare di sabotare il patto del Nazareno. Come ammette il vice segretario del Pd Guerini, il passaggio in cui è prevista la maggioranza dei due terzi dei grandi elettori, «sarà delicato».
Ecco spiegato l’ endorsement per Veltroni, che di fatto viene contrapposto al fondatore dell’Ulivo. Guerini confuta la tesi, spiegando che «comunque un candidato forte si misura poi alla prova del consenso». Insomma, è solo l’inizio della sfida, non è pensabile sia già scritta la fine. Perciò al momento tutti nutrono speranze. Grasso, per esempio, agli occhi di Renzi si gioca la partita della vita con il «canguro», l’arma usata per eliminare gli emendamenti di massa presentati dalle opposizioni per fare ostruzionismo. E il presidente del Senato — pur da supplente di Napolitano — tiene la regia dell’Aula di palazzo Madama dov’è in gioco l’approvazione dell’Italicum prima delle votazioni per il Colle.
Nell’attesa tutti si apprestano a manovre di posizionamento. Anche quello che un tempo fu il centrodestra — cioè i gruppi di Forza Italia e di Area popolare — dovrà decidere: marcerà in ordine sparso verso l’intesa con il premier o darà vita a un preventivo patto di consultazione? Alfano, puntando per il Colle su una personalità «garante di tutti e con sensibilità cattolica» si schiera per Casini. E Berlusconi?

Fitto, D’Alema e gli ex dc le correnti si pesano a cena
Nel Pd 50 anti-premierdi Francesco Bei e Goffredo De Marchis Repubblica 15.1.15
ROMA Ieri sera la cena di Raffaele Fitto con i suoi parlamentari. Lunedì a porte chiuse Massimo D’Alema riunisce i fedelissimi alla fondazione Italianieuropei. Gli ex democristiani del Pd si sono già contati martedì sera vicino al Pantheon con qualche ora di anticipo sulle dimissioni di Giorgio Napolitano. Erano 57. «Ma ne mancavano 4 o 5», aggiunge Beppe Fioroni. Come dire: non facciamo nomi ma siamo una sessantina abbondante, Renzi dovrà fare i conti anche con noi. È un calendario dell’avvento molto particolare. La data finale non è quella di Natale ma il giorno della prima seduta per l’elezione del capo dello Stato, il 29 gennaio. È il calendario delle cene, degli incontri segreti, delle riunioni di corrente. Per contare di più al momento della scelta, per sedersi al tavolo di chi decide un protagonista assoluto della politica. Per ben 7 anni.
Luca Lotti, per aggiornare il pallottoliere dei grandi elettori ed evitare i rischi del voto segreto, deve monitorare anche questi appuntamenti. Sapere chi c’era e chi non c’era, quanti erano i partecipanti e quanti i curiosi, quale indirizzo è stato deciso. Per fare il punto, due giorni fa, Lotti ha organizzato a sua volta una cena. Numeri piccoli: erano lui, il vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini e il braccio destro di Franceschini Ettore Rosato. La corrente del ministro della Cultura (che da qualche giorno nella sede del dicastero organizza incontri con vista Quirinale) vanta un buon numero di parlamentari, conosce bene i meccanismi che regolano i gruppi del Pd e gli equilibri per piazzare il nome giusto. Renzi ha affidato a questo terzetto un mandato preciso: lavorare sull’ascolto dei grandi elettori, «stavolta non si scherza, non possiamo sbagliare». Lotti ha tirato fuori la sua lista, l’hanno guardata assieme. La conclusione: si calcolano 50 dem sicuramente pronti ad andare contro il governo e contro il premier, 20 in bilico ma recuperabili.
La verità però è che neanche le correnti scoprono le carte sui candidati. Esattamente come fa Renzi. Lasciano che trapeli il peso delle rispettive truppe, ma non avanzano proposte. «Non ci impicchiamo per avere un cattolico », dice per esempio Fioroni. «Basta che sia autorevole». E condiviso dal gruppetto degli ex Popolari, questo il sottinteso. Loro spingono per un cattolico come Sergio Mattarella. Senza dirlo però.
Tra i renziani pesa anche l’incognita dell’atteggiamento che terranno i bersaniani. Tolti i “turchi”, che si sono riuniti martedì sera al ristorante davanti al teatro Quirino (con il ministro Orlando) e di nuovo ieri sera, i seguaci dell’ex segretario Pd si vedranno oggi in vista della direzione. Cesare Damiano, esponente dell’ala più dialogante, invita il premier a non forzare: «Se si dimostra flessibilità su alcuni temi, come i capilista bloccati nella legge elettorale, qual- che ritocco alla riforma costituzionale, alcune cose ancora aperte sul Jobs Act — riflette Damiano in Transatlantico — allora anche sul Quirinale Renzi potrà correre su un tappeto rosso. Se invece ci si irrigidisce...». Di sicuro peserà anche la partita della legge elettorale, dove lo scontro è a livelli preoccupanti. Miguel Gotor già preannuncia un voto contrario all’Italicum se resteranno i cento capolista bloccati voluti da Berlusconi. E sulle sue posizioni sono attestati 40 senatori, tanto che senza il soccorso azzurro difficilmente la legge elettorale vedrà la luce.
Anche Berlusconi ha iniziato a muovere le sue pedine. Ieri sera a palazzo Grazioli una prima riunione dedicata proprio al Quirinale ha visto insieme, allo stesso tavolo, sia i forzisti che Gal e i popolari di Mario Mauro. «La prima mossa la deve fare Renzi — spiega Mauro uscendo dal vertice — ma abbiamo deciso di coordinarci per mettere tutto il nostro peso sulla stessa mattonella». Renzi aspetta. La riunione dei dalemiani è un passaggio di svolta. Si capirà quante truppe ha ancora l’ex premier in Parlamento. Il coordinamento dei dissidenti Francesco Boccia, Gianni Cuperlo, Stefano Fassina e Pippo Civati è sempre attivo. E oggi Angelino Alfano batterà un colpo riunendo Ncd, Udc sotto la sigla Area popolare. Se Renzi vuole arrivare al traguardo deve fare i conti anche con loro.

Quel palazzo troppo vuoto e la scommessa del premier
Renzi ostenta una placida sicurezza ma è come se volesse dare coraggio a se stesso e all’opinione pubblica
di Stefano Folli Repubblica 15.1.15

L’USCITA di scena di Giorgio Napolitano è percepita da molti, anche dai suoi critici, come un fatto storico. Non tanto perché priva di precedenti (c’è l’eccezione di Cossiga che si dimise qualche settimana prima della scadenza). Quanto perché l’immagine dell’anziano signore che con molto decoro, sotto braccio alla moglie, lascia per sempre il Quirinale, porta con sé vari interrogativi.
Uno resterà senza risposta: non sapremo mai se nella decisione del capo dello Stato di ritirarsi abbiano contato solo l’età e i malanni, ovvero anche l’amara constatazione che la classe politica nel suo insieme non riesce ad affrancarsi dai suoi vizi di fondo. In ogni caso, anche quelli che dicono «meno male che se n’è andato » gli rendono omaggio in modo indiretto: riconoscono cioè che in tempi recenti nessuno come Napolitano, a parte il Renzi degli ultimi mesi, ha inciso così tanto nel dibattito pubblico e lo ha condizionato con la sua personalità. Il che accentua il vuoto del Quirinale: fino a che punto il venir meno di una figura autorevole e centrale determinerà uno squilibrio?
Secondo punto. I critici insistono sul «fallimento » del secondo mandato, per dire che è stato un errore di Napolitano accettare la rielezione. E si stabilisce un confronto fra il tono duro, perentorio del famoso discorso della reinvestitura davanti al Parlamento e il magro bilancio odierno per quanto riguarda le riforme approvate e il rinnovamento istituzionale avviato. In realtà, se si vuole usare il termine fallimento, esso non riguarda il presidente, che si è speso senza risparmio per favorire il processo riformatore, bensì il sistema politico nel suo complesso. Un sistema che nel 2013 aveva confessato la sua impotenza ad eleggere un altro capo dello Stato e si era rivolto a Napolitano per aggirare il disastro. Da allora quel sistema ha dato solo fragili segni di novità: c’è il dinamismo volitivo di Renzi, ma anche nel suo caso mancano risultati degni di nota. Il conservatorismo autoreferenziale della classe politica non si è modificato di molto e fra pochi giorni si tornerà a votare per il presidente della Repubblica senza nemmeno avere alle spalle la possibilità di ricorrere di nuovo a Napolitano.
L’intreccio fra la scadenza del Quirinale e la riforma elettorale, che sarebbe stato opportuno evitare, è invece sul tavolo. Quanti nel Pd si battono a suon di emendamenti in Senato contro le liste bloccate e di conseguenza contro l’altissimo tasso di «nominati» che entreranno in un Parlamento peraltro monocamerale (dopo la trasformazione del Senato) sono gli stessi chiamati a votare a giorni per il capo dello Stato. Come non vedere quale groviglio di frustrazioni e desiderio di vendetta si è creato nella pancia del partito, almeno fra coloro che non hanno nulla da perdere perché sanno di non essere comunque ricandidabili?
È in questo clima che Renzi ostenta la più placida sicurezza, convinto — come è noto — che il presidente della Repubblica sarà eletto alla quarta votazione. È come se volesse dare coraggio soprattutto a se stesso e in secondo luogo all’opinione pubblica che lo festeggia in giro per l’Italia. Senza contare, tuttavia, che i battimani non bastano a nascondere gli indici dei sondaggi, per la prima volta in declino. Quanto ai candidati alla successione quirinalizia, non è facile individuare un nuovo Napolitano, ma ancora più difficile e rischioso è rinunciare in partenza al nuovo Napolitano.
Negli ultimi giorni Renzi ha accentuato la spinta psicologica a favore della quarta votazione, dopo che nelle prime tre il Pd voterà scheda bianca (chissà se questo punto è concordato con Berlusconi, il che porterebbe a un’invasione di schede bianche: sarebbe la prova, al di là di tante parole, che il fatidico «patto» esiste e si manifesta nei passaggi topici). Ma in tutti i casi occorre arrivare all’appuntamento con un concorrente che non coalizzi troppi franchi tiratori contro. I quindiciventi nomi che si leggono sui giornali come candidati vanno anche bene sotto il profilo istituzionale, ma sono la prova che per adesso nessuno ha le idee chiare. Nemmeno quei candidati che esagerano nella campagna elettorale personale.

«Pronti a non votarlo» La minoranza dem fa muro sull’Italicum
No alle opposizioni sul rinvio a dopo l’elezione per il Colledi Dino Martirano Corriere 15.1.15
ROMA Aula quasi vuota al Senato — presidiata solo da un gruppetto di grillini, dalla minoranza del Pd, dalla presidente Anna Finocchiaro, dal leghista Roberto Calderoli e da un’attentissima Maria Elena Boschi, inamovibile dal banco del governo insieme al sottosegretario Luciano Pizzetti — in attesa che da martedì inizi la raffica di votazioni sui 40 mila e rotti emendamenti della legge elettorale. L’obiettivo del governo è quello di chiudere ben prima del 29 gennaio, giorno in cui i senatori si trasferiranno alla Camera per eleggere il capo dello Stato e il capogruppo del Pd, Luigi Zanda, non sembra poi così spaventato dal numero spropositato di emendamenti prodotto da Calderoli: «Ce la faremo, magari per la fine della prossima settimana lavorando anche di sabato e di domenica».
È saltata però la riunione di oggi in cui il segretario Matteo Renzi avrebbe dovuto domare la minoranza del Pd che al Senato sta preparando un documento politico da giocare se le richieste per limitare il numero dei deputati nominati non dovessero essere accolte. Avverte il bersaniano Miguel Gotor: «Ce la mettiamo tutta ma se il segretario non ci ascolta vuol dire che alla fine non voteremo l’Italicum. Non dico che voteremo contro. Però...».
L’ostacolo «quantitativo» rappresentato da Calderoli, dunque, sembra aggirabile con la tecnica del «canguro» (gli emendamenti seriali cadrebbero uno dopo l’altro) o magari perché l’esponente del Carroccio potrebbe fare forse parziale marcia indietro. Più delicato per il governo il problema «qualitativo» degli emendamenti presentati dalla minoranza del Pd che ha già schierato in aula una batteria di interventi di avvertimento ipercritici sull’Italicum; Massimo Mucchetti, Vannino Chiti, Miguel Gotor, Maurizio Migliavacca, Federico Fornaro e altri ancora hanno puntato sull’effetto di sistema che avranno la legge elettorale e la riforma del bicameralismo. Mucchetti ha spiegato che siamo davanti a «una politica del carciofo, a una mutazione genetica della forma di governo». Migliavacca ha insistito sul ripristino di un legame forte che ormai si è rotto tra eletti ed elettori: «E questo non si ottiene certo con l’aumento dei deputati nominati e non scelti dai cittadini».
È dunque in preparazione un documento politico firmato da una trentina di senatori dem da sottoporre a Renzi nella riunione del chiarimento slittata a lunedì. Ma l’aria di rivolta non è poi così scontata. Pippo Civati va teorizzando che anche i bersaniani ora si stanno placando sulle riforme perché c’è una non tanto remota possibilità che pure l’ex segretario entri in gioco per il Quirinale.
Segnali non amichevoli nei confronti del governo arrivano poi anche dalla minoranza di FI: i fittiani (40 parlamentari) minacciano di non seguire le indicazioni di voto di Berlusconi: alla Camera — dove continua la lenta marcia della riforma costituzionale che deve affrontare ancora più di mille votazioni — Maurizio Bianconi ha addirittura chiesto «una commissione di inchiesta sul patto del Nazareno». Al Senato gli azzurri Bonfrisco e Minzolini si sono accodati a Sel, Lega e M5S per chiedere la sospensione dei voti sulle riforme in attesta che si elegga il capo dello Stato. Stessa richiesta alla Camera. A tutti, però, le presidenti Laura Boldrini e Valeria Fedeli (che da ieri sostituisce Grasso) hanno detto no.

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