domenica 22 febbraio 2015

Ritorno nel mondo reale: il problema non è il compromesso ma - come spesso accade - l'aver promesso troppa rivoluzione

Fermo restando che Tachipirinas rimane nei nostri cuori - e anche in quelli di chi vorrebbe un capitalismo europeo più moderno ed efficiente di questo feudalesimo che abbiamo -, il problema non è il compromesso, o il confronto con la realtà.

Il problema è se il compromesso consiste in una mera riduzione del danno, come spesso è accaduto anche in passato, o se davvero - al di là delle parole fumose nelle quali tutti possono dire di aver vinto - il compromesso comincia a inverte la direzione del processo.

Il problema, soprattutto, è la dismisura spropositata tra la modesta entità del compromesso e le gigantesche e autolesionistiche illusioni scatenate nei mesi scorsi in patria e - forse soprattutto - fuori.
Eppure, che i rapporti di forza fossero quelli che sono lo sapevano tutti. Eppure, che la Grecia fosse una semicolonia - una portaerei Nato priva di sovranità, come l'Italia, la Spagna e altri paesi - era noto già da prima.
Erano quisquilie da menagrami? E ora è legittimo farsi delle domande? Certo, è possibile accontentarsi della retorica della "battaglia vinta" e scoprirsi improvvisamente come quei maestri di realismo a convenienza che sono sempre bravi a fare le analisi del giorno dopo [SGA].

“L’austerità è finita”, Tsipras prova a nascondere la disfatta

Domani nuovo vertice, il governo di Atene ha perso ogni autonomia

di Stefano Feltri il Fatto 22.2.15

L’unico modo per reagire a una sconfitta a volte è presentarla come una vittoria: “Abbiamo vinto una battaglia ma non la guerra, i negoziati più difficili ci aspettano”, ha detto ieri Alexis Tsipras, premier della Grecia, Paese natale di quell’Esopo che scrisse la nota favola della volpe golosa di uva.
IL GIORNO DOPO l’accordo preliminare con i governi dell’Eurogruppo, l’impressione è che Atene abbia perso sia la battaglia che la guerra. “Non sono sicuro di capire perché il governo di Syriza abbia iniziato questo conflitto. Ha ottenuto così poco e speso del capitale politico che gli sarebbe servito per il terzo programma di salvataggio”, commenta su Twitter il corrispondente da Bruxelles del Financial Times Peter Spie-gel. E l’economista Tyler Cowen, nel suo blog Marginal Revolution, scrive che “la Grecia ha perso”. Il quotidiano conservatore tedesco Die Welt, voce degli estremisti del rigore, traduce così il senso politico del compromesso: Atene ha quattro mesi per mettersi in regola o per prepararsi a un’uscita ordinata dall’euro.
Martedì ad Atene riaprono le banche, durante la giornata festiva di domani il governo di Syriza dovrà ultimare la lista di riforme da sottoporre in serata all’approvazione degli altri governi della zona euro. Difficile una bocciatura drastica, ma ci sarà ancora da negoziare. A meno di rotture impreviste, martedì le banche greche non falliranno, non ci sarà la corsa agli sportelli e continueranno ad avere i 10,9 miliardi (pronti ma non utilizzabili fino ad aprile) del Fondo salva Stati che possono essere usati per ricapitalizzare le banche. Questo è l’unico risultato di Tsipras che però si vanta di aver ottenuto “la fine dell’austerità”.
DOPO MENO di un mese di governo, molti annunci e un tour diplomatico nelle capitali europee, il bilancio di Tsipras e del suo ministro Yanis Varoufakis è il seguente: abbandonato il progetto di convocare una conferenza internazionale per tagliare il valore dei 315,5 miliardi del debito pubblico greco; archiviata l’idea di sostituire i bond in scadenza con altri a durata perpetua (se in mano alla Bce) o con il rendimento legato alla crescita del Paese (quelli dei governi e del Fmi) ; quasi respinta la richiesta di ridurre l’avanzo primario, cioè quanto resta delle entrate dello Stato dopo aver pagato le spese e prima del conto degli interessi sul debito, dal 4,5 all’1,5 per cento del Pil (l’Eurogruppo concede una non meglio definita flessibilità nell’ambito delle regole esistenti) ; la Troika che vigila sulle riforme cambia nome, ora il trio di supervisori di Commissione europea, Fmi e Bce si chiama semplicemente “le istituzioni”. Tutto il “Programma di Salonicco” con cui Syriza ha vinto le elezioni non esiste più: la riassunzione degli statali licenziati, l’abolizione della tassa sulla casa, la spesa sociale per le vittime della recessione, gli sconti sull’energia alle famiglie, il blocco delle privatizzazioni. La Grecia si è impegnata ad attuare soltanto le riforme che non mettono in discussione i suoi obiettivi di bilancio (decisi dalla Troika) e a chiedere il permesso per le misure che potrebbero far peggiorare il deficit. Non solo: Atene avrà a fine aprile i soldi che, se Tsipras non avesse rimesso in discussione i provvedimenti del precedente governo, avrebbe ottenuto a fine febbraio: i redimenti sui bond greci detenuti dalla Bce (2 miliardi circa), gli ultimi 2 miliardi di prestiti dal fondo salva Stati e circa 7 dal Fmi.
SECONDO molti economisti, Atene dovrà comunque chiedere un terzo piano di salvataggio perché nessun Paese può permettersi il 9 per cento di tasso di interesse che oggi i mercati chiedono per detenere bond greci a 10 anni. Ma la Grecia di Tsipras si è già fatta molti nemici: la Germania, prima di tutto, poi i Paesi che hanno rispettato i dettami della Troika fino in fondo (Irlanda, Portogallo, Spagna) e il presidente americano Barack Obama si è spazientito per l’arroganza di Tsipras e Varoufakis. Ora Atene è isolata, il presidente dell’Eurogruppo Jeroen Djesselbloem è arrivato a mettere in dubbio la “buona fede” dei greci al tavolo. Proprio per non sembrare un appestato ieri Tsipras ha chiamato il premier Matteo Renzi, per ringraziarlo del ruolo di mediazione. Ma l’Italia, quando si è trattato di scegliere, si è sempre schierata con Angela Merkel.
“Il loro problema è che si tratta di un ribaltamento delle loro promesse elettorali. Non c’è assolutamente nulla sul tavolo che possa essere considerato una concessione”, ha detto il ministro delle Finanze irlandese Michael Noonan, citato dalla Reuters. I greci che hanno avuto fede in Tsipras ancora non se ne sono convinti, ma ci vorrà poco.



Quattro mesi sul filo del rasoio Il Paese fa i conti per sopravvivere
Senza gli aiuti di Fondo monetario e Bce lo Stato crollerebbe

di Stefano Lepri La Stampa 22.2.15

Oggi in Grecia si celebra il carnevale, secondo il calendario ortodosso. Domani è il «lunedì di purificazione», festivo, dedicato alle scampagnate. Al ritorno in città martedì senza l’accordo dell’altra sera all’eurogruppo sarebbe stato impossibile ottenere soldi dai bancomat, e le banche, causa le casse vuote, sarebbero state costrette a prolungare la vacanza.
Così gli euro invece non mancheranno, sempre che non si creino nuovi intoppi lunedì sera, quando il governo di Atene consegnerà una prima lista di misure. Si tratterà di anticipazioni di emergenza concesse dalla banca centrale greca autorizzata dalla Bce. In un modo o nell’altro saranno pagati 1,4 miliardi di euro al Fmi che scadono in marzo.
I denari veri dall’Europa arriveranno non prima di maggio; e saranno ancora parte del vecchio programma di aiuto, non aggiuntivi. L’accordo nell’Eurogruppo prevede infatti di bloccare ogni erogazione fino a un accordo completo sull’estensione del programma, da raggiungere a fine aprile, con misure concordate una per una.
Anche allora, si tratterà dello stretto necessario per andare avanti – pagando altri 1,4 miliardi al Fondo monetario – fino al 30 giugno, termine dei 4 mesi concessi. I massicci rimborsi di debiti all’Europa che scadono in luglio e agosto, 6,7 miliardi, non potranno essere affrontati senza concordare un nuovo programma di aiuti, il terzo dal 2010, con esborsi aggiuntivi.
Un grave errore tattico è stata la minaccia di usare per rimborso dei debiti i soldi europei destinati a ricapitalizzare le banche. Sono 10,9 miliardi che ora tornano sotto controllo europeo perché si usino davvero a quello scopo.
Dunque non c’è scampo: il governo Tsipras sarà costretto a vivere quattro mesi sul filo del rasoio. E durante tutto questo periodo, scadenza dopo scadenza, la Germania sarà pronta a sfruttare ogni suo passo falso. I più dottrinari fautori dell’austerità cercano motivi per addossare alle elezioni anticipate e al nuovo governo la colpa del mancato risanamento della Grecia.
Che l’austerità sia «finita» resta in dubbio perché non è chiaro né il punto di arrivo (quanto precisamente sarà più leggero l’obiettivo di bilancio da raggiungere nel 2015) né il punto di partenza, ossia lo stato attuale dei conti pubblici. Sýriza aveva sottovalutato il rischio di promettere un condono in campagna elettorale, ora ne paga le conseguenze in un crollo del gettito tributario. Nella lista di lunedì non si parlerà né di lavoro né di pensioni; sono esclusi aumenti dell’Iva, si dice ora ad Atene.
Ma il programma elettorale prometteva, tra l’altro, di cancellare la tassa sulla prima casa ed elevare a 12.000 euro annui la soglia di esenzione dall’imposta sul reddito: tutto questo cade. Un’uscita dalla crisi aumentando in fretta i redditi e quindi i consumi è preclusa. La sfida per Tsipras sarà di offrire credibili riforme «di sinistra» in sostituzione a quelle che rifiuta.



Ma Atene è spiazzata dall’intesa europea “Il nostro governo ha fatto dietrofront”

di Ettore Livini Repubblica 22.2.15

ATENE La cravatta, per ora, può attendere. «La metterò quando i creditori accetteranno di tagliare il nostro debito», aveva promesso Alexis Tsipras. Molti greci, forse un po’ troppo ottimisti, si erano illusi di vederlo già ieri mattina con il collo fasciato da quella che gli ha regalato Matteo Renzi. Invece no. E malgrado il premier — addosso la solita camicia bianca sbottonata — abbia celebrato come un successo l’intesa all’Eurogruppo, il day-after di Atene è iniziato con l’incubo della “Kolotoumba”, il dietrofront. Lo evocano in coro gli avversari: «Ha rinnegato tutte le sue promesse elettorali. L’unico partito anti memorandum siamo noi», dettano alle agenzie sia Alba Dorata che i comunisti del Kke. Ma il dubbio del voltafaccia — e questo è un po’ più preoccupante per il leader di Syriza — serpeggia pure tra le fila di quel 36,3% di greci che il 25 gennaio, esasperato dall’austerity imposta dalla Troika, ha messo la croce sul simbolo della sinistra.
Il primo assaggio della maretta il presidente del Consiglio l’ha avuto nelle riunioni informali di ieri a Koumoundourou, nella sede del partito. Incontri tesissimi dove ha faticato a tenere a bada gli umori della minoranza del partito («io non voto questa retromarcia » minacciano in molti). «Non potevamo fare altrimenti — ha spiegato — Anzi. Abbiamo salvato il paese da una congiura dei conservatori greci ed europei che volevano metterci all’angolo, facendo chiudere le banche con la scusa della fuga dei capitali». Spiegazione, dicono i suoi collaboratori, seguita da un appello: «Giudicatemi tra quattro mesi. Manterremo le promesse elettorali — ha garantito — . E sarà chiaro a tutti da domani, quando finalmente potremo iniziare a scrivere da soli la ricetta per salvare la Grecia, senza farcela dettare dalla Troika».
Il suo pressing diplomatico sul fronte interno, per ora, non ha dato molti risultati. «Syriza approverà il pacchetto senza problemi anche se non contiene tutti i punti del programma», ha detto fiducioso il ministro all’Economia George Stathakis, uomo del cerchio magico del premier. Più bellicoso il leader di Piattaforma della sinistra, l’ala radicale del partito: «Ci sono linee rosse che non possono essere valicate — ha sottolineato sibillino — se no non sarebbero rosse». Preoccupante anche il silenzio del partner di governo Panos Kammenos, leader della destra nazionalista di Anel, che la scorsa settimana aveva detto di essere pronto a farsi esplodere a Bruxelles «se l’Eurogruppo non avesse accettato le richieste greche». Senza i voti dei suoi 13 parlamentari, l’esecutivo non ha la maggioranza. Anche se Stavros Theodorakis, leader di Potami, ha detto di essere pronto a lanciare un salvagente a Tsipras, complimentandosi per il risultato “ragionevole” dei negoziati.
«Se fossi tra gli elettori di Syriza, stamattina mi sarei svegliato con una diavolo per capello », ha twittato perfido ieri all’alba Nigel Farage, leader della destra anti-europea inglese. Arrabbiati no. Molto dubbiosi però sì. «Sono confusa — racconta prendendo un tiepido sole primaverile su una panchina a Syntagma Katerina, una delle donne delle pulizie licenziate dal governo Samaras e riassunte («così hanno promesso, le carte dovrebbero arrivare nei prossimi giorni») da quello di Tsipras — Hanno combattuto come leoni. Hanno ribattuto colpo su colpo ai tedeschi. Alla fine però mi sembra che siamo rimasti con un pugno di mosche in mano». «L’80% dei greci che sosteneva Syriza perché convinti riuscisse a domare Wofgang Schaeuble si è alzato oggi di cattivo umore — dice fatalista Stathis Masouras al mercatino delle pulci di Mo- nastiraki — Ma l’80% dei greci che voleva rimanere nell’euro si è svegliato contento». Lui, per capirci, appartiene a entrambi i campioni.
«Capisco la delusione. Venerdì il Parlamento avrebbe dovuto discutere la legge per bloccare la confisca delle prime case alle famiglie che non sono in grado di pagare i mutui, fregandosene del parere della Troika — ammette Stelios Papakonstantinou, 22 anni, studente di economia e altro elettore spaesato — . Io però ho detto ai miei amici di non aver fretta. A Bruxelles siamo stati lasciati da soli. La vera partita inizia ora. Se l’austerità e il memorandum sono davvero alle spalle lo giudicheremo dai piani che Tsipras e Varoufakis presenteranno ai creditori ». Altrimenti toccherà a tutti rassegnarsi alla Kolotoumba.



«Doppiopesismo» ed eurodemocrazia

di Adriana Cerretelli Il Sole 22.2.15

A che cosa serve eleggere Alexis Tzipras e un programma di rottura con l’Europa della troika se poi non cambia niente e Tzipras è costretto a seguire le orme di Antonis Samaras, il predecessore deprecato per gli eccessi di austerità che hanno travolto la Grecia?
In breve, in una democrazia indebitata dell’area euro vale ancora la pena di votare? L’ordine regna a Bruxelles il giorno dopo il sudato accordo politico tra Atene e i partner della moneta unica. Sospiro di sollievo generale. Scongiurato il peggio, il default ellenico, allontanata l’ombra di Grexit e del salto nel buio. Salvaguardate regole e patti europei. La vera partita negoziale però comincia solo ora e si annuncia per tutti una nuova corsa ad ostacoli. Piena di insidie.
Tutti hanno l’amaro in bocca, creditori e debitori: chi ha vinto, anzi stravinto, ma continua a non fidarsi del proprio successo perché continua a non fidarsi di chi ha sconfitto. E chi ha perso e fa finta di no, come Yanis Varoufakis: «Ormai sono finiti i tempi in cui le cose ci venivano imposte e non erano attuate. Ora saremo noi a decidere insieme ai nostri partner ristabilendo l’indipendenza nazionale della Grecia».
L’autodifesa del ministro delle Finanze suona patetica, se si mette a confronto il povero risultato con ambizioni e toni roboanti dell’inizio. Né smentisce questa istantanea dell’Eurogruppo, tornata prepotentemente in voga a Bruxelles subito dopo la capitolazione di Atene: Eurogruppo? Un tavolo intorno al quale siedono periodicamente 19 giocatori ma vince sempre uno solo, lo stesso, la Germania.
Perché dunque affossare il centro-destra e affidarsi alla sinistra radicale se poi devono comunque governare allo stesso modo? L’interrogativo sul peso effettivo della dinamica democratica e sui suoi reali margini di manovra ai tempi dell’euro e del patto di stabilità non è certo nuovo. Ma la Grecia di Tzipras lo ripropone a tutti senza veli, perché la sua Grecia sovversiva e nazionalista esprime il primo vero rigurgito democratico contro il sistema-eurozona. Non sarebbe mai nata, quella Grecia, se l’Europa non se la fosse ottusamente allevata in seno con la cecità delle sue politiche tecnocratiche eccessivamente punitive, socio-economicamente insostenibili, politicamente suicide.
Colpirne uno per educarne cento: l’Europa ha adottato la vecchia massima maoista nella speranza di bloccare il contagio: ieri come oggi Atene è la cavia ideale per neutralizzare sul nascere fermenti ribellisti e assalti all’ordine costituito dei vari Podemos, Sinn Fein, Front National, dei movimenti nazional-populisti.
L’assunto di partenza è chiaro: nella gerarchia delle regole, quelle europee prevalgono su quelle nazionali. A maggior ragione quelle del patto di stabilità e consimili vanno rispettate a prescindere, non possono nella sostanza soggiacere agli incerti e ai malumori delle democrazie.
Se l’Europa non fosse, come è, una proterva Unione di Stati nazionali sovrani ma una vera entità federale dotata di una propria Costituzione, di una propria politica macro-economica e finanziaria e di un bilancio comune adeguato, il teorema potrebbe anche avere una logica inattaccabile.
Non è così. Nel 2005 un tentativo di euro-Costituzione fu bocciato da Francia e Olanda e dimenticato. Nonostante, complice l’euro, l’interdipendenza tra Stati si approfondisca, in parallelo si accentuano spinte centrifughe e arroccamenti nazionalisti, soprattutto nell’euronord.
Senza contare che le cessioni di sovranità restano ineguali. La Germania è l’unico paese la cui Corte costituzionale prende decisioni di valenza europea. Di più, il Bundestag è autorizzato a approvare o respingere le decisioni del Governo adottate in sede europea per verificarne la conformità con la Legge fondamentale tedesca. Governi, parlamenti e strutture democratiche, soprattutto dei paesi debitori, risultano invece sempre più “minorati” dai nuovi patti sull’euro-governance. Non a caso, e da molto prima che arrivasse Tzipras, la legittimità della troika è messa seriamente in dubbio.
Fino a che punto però questo doppiopesismo democratico, questa eurozona di sovrani ineguali di diritto e di fatto è sostenibile senza provocare guasti irrimediabili alla convivenza europea e alla tenuta dell’euro, che per durare ha tra l’altro urgente bisogno di unione economica e politica? Commissariata ieri come oggi, la Grecia sembra tornata all’ovile ma il suo profondo disagio europeo non può essere liquidato con un duro e semplicistico richiamo alla disciplina dei patti europei (forse un po’ più flessibili).
La stabilità economico-finanziaria dell’euro è prioritaria per tutti ma non può prescindere dalla stabilità democratica e sociale dei paesi che lo compongono. Altrimenti, scongiurato il default greco, prima o poi arriverà quello europeo. 



Euro e caso Grecia Gli squilibri mai corretti e il silenzio dell’Europa

di Luca Ricolfi Il Sole 22.2.15

Tre cose sembrano chiare, per ora. La prima è che la Grecia non abbandonerà l’euro. La seconda è che l’Europa le presterà altri soldi. La terza è che i politici, greci ed europei, faranno di tutto per nascondere la verità alle rispettive opinioni pubbliche.
La verità, infatti, è indigeribile sia per Tsipras, sia per gli altri governi europei. Per questi ultimi, e in particolare per quelli che hanno dovuto inghiottire le amare medicine (austerità e riforme) imposte dalla Troika, sarà dura spiegare l’ennesimo salvataggio della Grecia. È possibile che le loro opinioni pubbliche non capiscano (o capiscano fin troppo bene), e che in Paesi come la Spagna, il Portogallo e forse anche l’Italia, monti la tentazione di fare come in Grecia, e cresca il consenso ai partiti anti-uro. Per Tsipras, d’altro canto, sarà dura nascondere che il prestito che si accinge a ricevere dall’Europa ha un prezzo politico, e che il suo governo avrà le mani legate più o meno quanto quelli che l’hanno preceduto.
Dunque, prepariamoci. Fin dalle prossime ore, la politica europea si scatenerà nella ricerca di parole volte a nascondere quel che sta succedendo. E non sarà difficile trovarle. Se ci siamo abituati a non pronunciare più parole come spazzino, bidello, cieco, handicappato, e abbiamo imparato a sostituirle con “operatore ecologico”, “collaboratore scolastico”, “non vedente”, “diversamente abile”, ci metteremo pochi minuti a smetterla di pronunciare parole come Troika, salvataggio, memorandum. D’ora in poi, se tutto andrà per il verso desiderato, la Troika (Ue, Bce, Fmi) diventerà “le tre Istituzioni”, il salvataggio verrà chiamato “prestito ponte”, il memorandum verrà ribattezzato “nuovo accordo”.
Niente di male, naturalmente. Fa parte della politica, anzi forse è l’essenza stessa dell’arte politica, manipolare i fatti attraverso le parole. Il problema, tuttavia, è che i fatti resistono. E il fatto fondamentale, che resta in piedi al di là di ogni accordo, di ogni dichiarazione, di ogni promessa, è che l’Europa non solo non è ancora fuori della crisi iniziata sette anni fa, ma non ha trovato alcun meccanismo per far sì che quel che è successo allora non si ripeta in futuro. Qui non mi riferisco all’eventualità che la Grecia debba essere salvata un’altra volta ad agosto, e poi un’altra nel 2016, e poi un’altra ancora negli anni a venire. No, il punto decisivo è che quel che è successo in questi anni, con la Grecia come con gli altri Pigs, potrebbe benissimo ripetersi in futuro. E questo per una ragione molto semplice: nonostante alcuni tentativi di restyling della governance europea, i meccanismi economici di base dell’Eurozona sono rimasti sostanzialmente invariati.
E dopo più di 15 anni di moneta comune tali meccanismi hanno rivelato al di là di ogni ragionevole dubbio che non sono in grado di correggere gli squilibri fra gli stati membri.
Lo squilibrio fondamentale, quello che ha innescato la cri si del 2007-2008, non è tanto l’eccessivo indebitamento di alcuni stati, ma è l’accumularsi sistematico di forti disavanzi della bilancia dei pagamenti in alcune economie (tipicamente in Grecia, Portogallo e Spagna) e di altrettanto enormi avanzi in altri (tipicamente in Germania). In condizioni normali (senza una moneta comune) squilibri di questo tipo si correggono automaticamente con la svalutazione della divisa dei paesi deboli, la cui produttività ristagna o cresce troppo lentamente, e con la rivalutazione della divisa dei paesi forti, la cui produttività corre troppo in fretta. Dopo la svalutazione, i paesi che sono vissuti al di sopra dei propri mezzi sono costretti a importare meno beni prodotti da altri e ad esportare più beni prodotti da sé stessi, mentre l’esatto contrario accade, con la rivalutazione, per i paesi che hanno consumato e investito troppo poco, preferendo accumulare riserve finanziarie.
Ma se si abbandonano le valute nazionali per una valuta comune, il meccanismo del cambio scompare per definizione, e lo si deve sostituire con meccanismi alternativi. I fautori della moneta unica, presumibilmente, pensavano che tali meccanismi potessero essere tre: la convergenza delle dinamiche della produttività, favorita dalla concorrenza e dalla liberalizzazione dei mercati; la capacità delle banche di selezionare oculatamente i clienti, erogando il credito solo a chi avesse buone possibilità di restituirlo; la propensione dei mercati finanziari a punire (con gli alti tassi di interesse) gli Stati troppo spendaccioni. Ebbene, il problema è che in questi 15 anni nessuno di questi tre meccanismi ha mostrato di poter funzionare.
La convergenza delle produttività nazionali non c’è stata perché, in un contesto di stati nazionali con lingue e istituzioni diverse, la liberalizzazione dei mercati e l’armonizzazione delle legislazioni sono difficilissime da realizzare. La selezione dei clienti da parte delle banche non si è realizzata per una pluralità di motivi, primo fra tutti la mancata separazione fra banche d’affari e banche commerciali. Quanto ai mercati finanziari, essi hanno rivelato di essere ottusi nei periodi di vacche grasse (quando chiedevano gli stessi interessi alla Germania e alla Grecia) e iper-sensibili nei periodi di tensione (quando la paura del default di uno stato faceva schizzare all’insù i tassi di interesse, rendendo più probabile il default stesso).
Abbiamo motivo di pensare che qualcosa di importante sia cambiato e che quel che non ha funzionato ieri possa funzionare domani?
A me pare di no. Il problema che l’Eurozona aveva nel 1999, sostituire il meccanismo del cambio con meccanismi alternativi ma altrettanto efficaci, resta tuttora perfettamente insoluto. Ed è inquietante che quel problema, quello di gestire economie con sentieri di crescita divergenti, sia molto più chiaro ai critici dell’Europa che alle autorità europee. Si può (anzi, si deve) dissentire con chi sogna il ritorno alle valute nazionali, così come si può dissentire con chi teorizza lo split della moneta comune in un euro del Nord e un euro del Sud, o con chi propugna la messa in comune dei debiti pubblici. Ma resta il fatto che, se si insiste nella difesa a oltranza dell'euro, bisognerà pure, prima o poi, uscire dal silenzio e porsi il problema che l’adozione dell’euro ha generato: quello di un continente in cui ogni nazione vuol decidere da sola la propria strada, ma nessuna vuole abbandonare il totem della moneta comune.


La strategia negoziale della farfalla ateniese 
L'analisi. Tsipras ha promesso che l’austerità è finita e non è disposto a fare un passo indietro. Ancora una volta, ci vorrà fantasia e creatività per trovare un nuovo compromesso. E così fino a quando la diga non crollerà del tutto.

Dimitri Deliolanes, il Manifesto 21.2.2015 

Appena lunedì scorso il pre­si­dente dell’eurogruppo Dijes­sl­bloem si era per­messo di leg­gere davanti alle tele­ca­mere un ulti­ma­tum verso il governo greco: Atene doveva richie­dere l’estensione del pro­gramma di assi­stenza finan­zia­ria e accet­tare in blocco le con­di­zioni che vi erano alle­gate, sot­to­scritte dal pre­ce­dente governo di centrodestra. 
Già prima dell’ultimatum, lo stesso Dijes­sl­bloem aveva fatto un pic­colo «golpe» sosti­tuendo il docu­mento del com­mis­sa­rio euro­peo Mosco­vici con un docu­mento scritto in tede­sco, con con­di­zioni inac­cet­ta­bili. In pra­tica, era in forma scritta quello che Schäeu­ble aveva dichia­rato a voce: il nuovo governo greco doveva fare come il vec­chio, ese­guire gli ordini. 
È pas­sata solo una set­ti­mana e quell’ultimatum è stato dimen­ti­cato. Venerdì sera i 19 mini­stri dell’eurozona hanno discusso ma sono arri­vati anche a delle con­clu­sioni. Ber­lino spesso si è tro­vata iso­lata e le sue richie­ste mas­si­ma­li­ste rifiutate. 
Trat­ta­tive, com­pro­messo, accordo, ecco la stra­te­gia di Tsi­pras con­tro l’Europa dell’austerità. È una sor­presa, un cedimento? 
Sicu­ra­mente sì, se si con­si­dera l’obiettivo finale del governo della sini­stra greca: togliersi dalle spalle il peso del debito e rilan­ciare la cre­scita dell’economia reale. 
Ma attri­buire a Tsi­pras la pro­messa che l’economia greca avrebbe cam­biato corso in un giorno è una gros­so­lana fal­si­fi­ca­zione. Per chi aveva orec­chie per sen­tire e buona volontà per capire, la stra­te­gia di Syriza girava per intero attorno a una parola: nego­ziare. 
Cosa ha vinto e cosa ha perso Atene venerdì sera? 
Ha vinto in cre­di­bi­lità poli­tica: il nuovo governo greco ha tutta la respon­sa­bi­lità della poli­tica eco­no­mica e i cre­di­tori hanno il diritto di con­trol­lare l’andamento dell’economia. Lo faranno attra­verso una nuova «troika». Non più emis­sari della Bce, della Com­mis­sione e del Fmi che det­te­ranno la linea alla poli­tica greca ma tec­no­crati che inter­ver­ranno a livello di ammi­ni­stra­zione. Le que­stioni di poli­tica eco­no­mica saranno dibat­tute solo tra governi. 
Atene ha anche otte­nuto di abbat­tere il rigido 4,5% di avanzo pri­ma­rio per l’anno in corso, pre­vi­sto dal vec­chio memo­ran­dum. Ora viene rico­no­sciuto un mar­gine di «fles­si­bi­lità» da lasciar gestire ai greci. Molto pro­ba­bil­mente, una parte di quel sur­plus sarà indi­riz­zato verso gli inter­venti di emer­genza alle fami­glie senza red­dito, costrette a nutrirsi alle mense. 
Tsi­pras non potrà invece tenere fede da subito alla sua pro­messa di ripri­sti­nare il sala­rio minimo del periodo pre-crisi e forse nean­che di restuire la 13sima men­si­lità ai pensionati. 
Già domani Varou­fa­kis dovrà pre­sen­tare ai cre­di­tori l’elenco dei punti del vec­chio memo­ran­dum che Atene acco­glie e si impe­gna a rea­liz­zare. È escluso che nel suo elenco siano com­presi i nuovi tagli alle pen­sioni e agli sti­pendi pub­blici e l’ennesima ondata di licen­zia­menti sot­to­scritti dal pre­ce­dente governo. 
L’enfasi, lo sap­piamo già, sarà data alle vere riforme: del sistema fiscale, dell’amministrazione pub­blica e dell’apertura del mer­cato, com­bat­tendo posi­zioni monopoliste. 
Saranno suf­fi­cienti? Pro­ba­bil­mente no e Varou­fa­kis ha già annun­ciato che là ci saranno «grossi problemi». 
Per come ha fun­zio­nato finora l’eurozona, biso­gna par­lare solo di cifre: quanto si incas­serà dalla lotta all’evasione fiscale? Cosa pen­sate di incas­sare al posto dell’imposta sulla prima casa, ora in via di abo­li­zione? Per­ché avete bloc­cato le pri­va­tiz­za­zioni degli aero­porti che por­ta­vano alle casse dello stato ben 10 miliardi? 
Pro­ba­bil­mente quindi ci stiamo avviando a un nuovo psi­co­dramma: Varou­fa­kis che insi­ste su un pro­getto stra­te­gico di sti­molo dell’economia reale greca e i cre­di­tori, tede­schi in testa, che «non capi­ranno» di cosa sta par­lando, chie­dendo in cam­bio i numeri di futuri incassi. 
Ma sono bat­ta­glie di retro­guar­dia. Tsi­pras ha pro­messo che l’austerità è finita e non è dispo­sto a fare un passo indietro. 
Ancora una volta, ci vorrà fan­ta­sia e crea­ti­vità per tro­vare un nuovo com­pro­messo. E così fino a quando la diga non crol­lerà del tutto.



Atene scrive la «sua» lista 
Grecia. Dopo il duro braccio di ferro a Bruxelles, in Grecia prevale l’attesa per le misure del governo. Lotta all’evasione, tasse arretrate in 100 rate, riforma del lavoro. Varoufakis: «Saranno accettate»

Pavlos Nerantzis, il Manifesto SALONICCO, 21.2.2015
Ven­ti­quat­tro ore dopo l’ accordo rag­giunto a Bru­xel­les tra il governo greco e i 18 paesi dell’eurozona nes­suno si con­si­dera vin­cente, né ovvia­mente ammette di aver con­cesso più di tanto. In Gre­cia pre­vale soprat­tutto uno spi­rito di rifles­sione. Il paese è ancora immerso in un lungo week-end, visto che il lunedì dà ini­zio alla Qua­re­sima ortodossa. 

Poli­ti­ca­mente, il docu­mento di Bru­xel­les è un com­pro­messo tem­po­ra­neo. «Abbiamo vinto una bat­ta­glia, non la guerra», ammette Tsi­pras. Syriza non ha otte­nuto ciò che voleva – ed è ovvio vista la dispa­rità delle forze in campo– ma ha messo per la prima volta sul tavolo dei col­lo­qui il tema dell’Europa e il suo futuro. L’accordo riflette la neces­sità di una tre­gua che darà da una parte l’opportunità di costruire rap­porti di fidu­cia tra Atene e i part­ner euro­pei e, dall’ altra, tempo pre­zioso affin­ché tutti si pre­pa­rino ad un con­fronto sostan­ziale sulle poli­ti­che euro­pee. Tra quat­tro mesi, Ale­xis Tsi­pras dovrà aver ini­ziato ad attuare i cam­bia­menti pro­messi pur rispet­tando gli impe­gni e soprat­tutto dovrà pre­sen­tare il suo new deal per un’ «altra Europa anti-austerity». D’altra parte, Angela Mer­kel dovrà capire se può con­ti­nuare sulla stessa linea d’intransigenza nei con­fronti del Sud Europa. 
Basato sulla let­tera di Yanis Varou­fa­kis, il docu­mento di Bru­xel­les è un accordo-ponte, l’estensione dell’ attuale pro­gramma di risa­na­mento, che pre­vede un po’ di fles­si­bi­lità all’austerity. «Ponte» per­ché di breve durata (solo quat­tro mesi), «esten­sione» per­ché in realtà è la pro­roga del Master Finan­cial Assi­stance Faci­lity Agree­ment (Mfafa). Il Mfafa altro non è che il fami­ge­rato «memo­ran­dum», che scade il 28 feb­braio, e che a sen­tire il governo greco «è stato annul­lato» dal momento che il nuovo accordo non è asso­ciato a misure spe­ci­fi­che di auste­rity; a sen­tire Wol­fgang Schäu­ble, invece, nulla è cam­biato, per­ciò — sem­pre secondo il mini­stro delle finanze tede­sco -, «Tsi­pras avrà delle dif­fi­coltà a spie­gare l’ accordo ai suoi connazionali». 
«Abbiamo vinto solo una bat­ta­glia, non la guerra, il vero nego­ziato ini­zia ora»Ale­xis Tsi­pras in tv
L’unico risul­tato tan­gi­bile il governo di Syriza-Anel sem­bra averlo strap­pato sull’abbassamento dell’avanzo pri­ma­rio (sicu­ra­mente in que­sto momento è il punto più impor­tante dell’accordo per­ché solo così si può far fronte alla crisi uma­ni­ta­ria). Ma non ha otte­nuto ciò che Tsi­pras aveva detto durante la cam­pa­gna elet­to­rale e ha ripe­tuto la notte della sua vit­to­ria. Che «dal 26 gen­naio in Gre­cia comin­cia un’altra era, senza misure di auste­rità». In altri ter­mini l’accordo di Bru­xel­les è una pesante ipo­teca sul pro­gramma di Salo­nicco pre­sen­tato da Syriza.
Il mas­si­ma­li­smo ver­bale di Tsi­pras offre all’ala radi­cale e agli oppo­si­tori interni una buona oppor­tu­nità per cri­ti­care l’ esito delle trat­ta­tive. Il mini­stro della Ristrut­tu­ra­zione pro­dut­tiva e dell’ambiente, Pana­gio­tis Lafa­za­nis, lea­der della potente «Cor­rente di Sini­stra» den­tro Syriza, ha riba­dito prima e dopo i nego­ziati che «l’accordo-ponte deve comun­que essere in linea con il nostro pro­gramma (di Salo­nicco, ndr), abbiamo delle zone rosse che non pos­sono essere supe­rate». «Abbiamo pro­messo di essere libe­rati dall’austerità e dalle tena­glie del capi­tale euro­peo ma nulla è suc­cesso a Bru­xel­les», ammet­teva ieri un diri­gente di Syriza a Salo­nicco. Lamen­tele anche per l’atteggiamento di Varou­fa­kis, il mini­stro delle finanze greco, che «con il suo stile casual e con ciò che diceva ha irri­tato i suoi col­le­ghi euro­pei». «Tsi­pras e Varou­fa­kis hanno cer­cato di otte­nere più di quanto pote­vano avere dai part­ner pur non cono­scendo le regole del gioco», è il com­mento di un anziano ex diri­gente di una banca ellenica. 
La stampa greca ha dato molta enfasi alla tele­fo­nata tra Tsi­pras e Mer­kel, men­tre era in corso il nego­ziato a Bru­xel­les, per­ché a quanto pare è stata deci­siva per l’esito posi­tivo del terzo round all’Eurogruppo. Alcuni atti­vi­sti della sini­stra radi­cale dicono che «in un fac­cia a fac­cia tra Mer­kel e Tsi­pras in un ver­tice Ue tutti avranno le idee chiare. Non solo i «19» ma tutti i mem­bri dell’Ue, che in realtà dovranno deci­dere non sulla per­ma­nenza della Gre­cia nell’euro ma se pre­val­gono l’architettura euro­pea e i suoi prin­cipi fon­da­men­tali oppure la volontà del più forte». 
Alle 2 di ieri Tsi­pras è apparso alla tv pub­blica dicendo che «abbiamo annul­lato i piani delle forze con­ser­va­trici che mira­vano all’asfissia del nostro paese… ma abbiamo vinto una bat­ta­glia, non la guerra. Le vere dif­fi­coltà sono ancora di fronte a noi. Comun­que abbiamo rag­giunto il nostro prin­ci­pale obiet­tivo all’interno dell’eurozona, l’intesa ha can­cel­lato gli impe­gni sull’austerity dei pre­ce­denti governi… ma il nego­ziato non è finito, anzi adesso entra in una nuova fase, di sostanza». 
In serata Tsi­pras ha riu­nito il con­si­glio dei mini­stri per pre­pa­rare la lista di misure da pre­sen­tare domani. Non saranno misure che gra­vano sul bilan­cio. Secondo la tv greca Mega, ci sono l’introduzione di una rateiz­za­zione fino a 100 rate per le tasse arre­trate, nuove regole sul lavoro, lotta all’evasione fiscale e l’indipendenza della Segre­te­ria gene­rale delle entrate. Altre misure ver­reb­bero dalle ana­lisi fatte con l’Ocse nei giorni scorsi. «Sono pra­ti­ca­mente certo che la nostra lista di riforme sarà appro­vata dalle isti­tu­zioni, non diranno di no, altri­menti l’accordo sarebbe già morto e sepolto», ha detto Varou­fa­kis al ter­mine del con­si­glio dei ministri.



Berlino, la trappola dei crediti 
Eurogruppo. I variegati commenti il giorno dopo l'accordo

Jacopo Rosatelli, 21.2.2015 

Grande è la con­fu­sione sotto il cielo. Sarà un bene? Sull’accordo all’Eurogruppo in Ger­ma­nia le rea­zioni e i com­menti del giorno dopo sono molto varie­gati: nei media e nelle forze poli­ti­che non c’è una let­tura uni­voca su chi sia uscito vin­ci­tore dalla bat­ta­glia di venerdì a Bru­xel­les. Fra i con­ser­va­tori non sono tutti d’accordo sul fatto che a spun­tarla sia stato il mini­stro delle finanze demo­cri­stiano (Cdu) Wol­fgang Schäu­ble, e a sini­stra non c’è con­di­vi­sione una­nime dell’interpretazione di Ale­xis Tsi­pras, secondo il quale sarebbe il governo greco ad avere avuto la meglio sul par­tito dell’austerità. Tutti, in ogni caso, aspet­tano di vedere cosa acca­drà a par­tire da domani, quando le due pagi­nette dell’intesa dovranno tra­dursi in pra­tica: nel «pro­gramma di riforme» in cam­bio del quale sono con­cessi i crediti. 
Ha pochi dubbi su come siano andate le cose la Bild, tabloid destrorso molto letto e (pur­troppo) molto influente, che attacca: «Il pre­mier greco Tsi­pras non ha ancora capito che la situa­zione è seria? La sua reto­rica di guerra è solo per indo­rare la pil­lola ai suoi soste­ni­tori? Il suo governo lunedì deve pre­sen­tare ai mini­stri delle finanze dell’Eurogruppo una lista di risparmi e riforme eco­no­mi­che!». La Bild dà quindi per scon­tato che l’intesa di venerdì sera pre­veda che le misure che l’esecutivo elle­nico appron­terà deb­bano essere in linea con le poli­ti­che di tagli e pri­va­tiz­za­zioni seguite fino ad ora. Più dub­biosa si mostra la Frank­fur­ter All­ge­me­nine (Faz), che della Ger­ma­nia liberal-conservatrice è la voce più seria e auto­re­vole: «A prima vista l’accordo è buono per­ché l’austerità con­ti­nuerà, ma in realtà il governo di Atene è troppo ambi­guo per­ché ci si possa fidare di loro», afferma in sostanza il gior­nale di Francoforte. 
Cosa turba la Faz? Che il mini­stro greco Yan­nis Varou­fa­kis venerdì sera abbia annun­ciato di volere aumen­tare il sala­rio minimo: un errore, secondo la testata con­ser­va­trice, per­ché «l’economia greca non è ancora com­pe­ti­tiva». «Forse le pri­va­tiz­za­zioni potreb­bero ren­dere il Paese più effi­ciente, ma il governo ne intende sem­pre ancora bloc­care alcune», afferma con tono di rim­pro­vero l’editorialista della Faz Patrick Ber­nau. Parole dalle quali si nota chia­ra­mente come il vero pro­blema sia, al di là della reto­rica uffi­ciale sul «rispetto delle regole», la natura delle riforme che Syriza vuole rea­liz­zare: chiun­que provi a fer­mare la sven­dita del patri­mo­nio pub­blico bloc­cando pri­va­tiz­za­zioni sel­vagge viene imme­dia­ta­mente stig­ma­tiz­zato come peri­co­loso sabo­ta­tore che viola i patti. Lo stesso scet­ti­ci­smo del quo­ti­diano di Fran­co­forte si riscon­tra nelle file della 
Cdu e dei bava­resi della Csu, anche se il capo­gruppo par­la­men­tare demo­cri­stiano, Vol­ker Kau­der si pro­fessa otti­mi­sta: «il Bun­de­stag appro­verà l’accordo la pros­sima settimana». 
Voci discor­danti anche a sini­stra. L’europarlamentare social­de­mo­cra­tico Udo Bull­mann in un’intervista alla radio pub­blica si dichiara sod­di­sfatto «per­ché l’Europa ha mostrato capa­cità di azione». Ma quel che più conta è che l’esponente della Spd affermi con chia­rezza che «la troika ha fal­lito», e denunci la dram­ma­tica situa­zione sociale che si vive in Gre­cia: «Se oggi si visi­tano i quar­tieri peri­fe­rici di Atene – ha dichia­rato – sem­bra di essere a Bei­rut». Giu­di­zio posi­tivo sull’accordo anche dalla Linke: per l’eurodeputato Fabio De Masi «il ricatto è finito, Varou­fa­kis ha sal­vato i soldi dei con­tri­buenti tede­schi». A suo giu­di­zio poli­ti­che espan­sive e social­mente soste­ni­bili sono com­pa­ti­bili con la let­tera dell’intesa di venerdì sera. Dello stesso avviso anche la co-segretaria dei Verdi Simone Peter. 
Su tutt’altra linea è, invece, il quo­ti­diano pro­gres­si­sta die Taz: «la bat­ta­glia l’ha vinta Schäu­ble, e la Gre­cia dovrà con­ti­nuare la poli­tica dell’austerità» si legge nel com­mento di Eric Bonse. «L’obiettivo rag­giunto dal mini­stro tede­sco è stato aver dimo­strato che è solo lui che decide le regole del gioco»: que­sta la tesi dell’analista della Taz. «Schäu­ble ha impo­sto al governo greco un’agenda impos­si­bile da rea­liz­zare, e ha pre­cluso ogni pos­si­bi­lità di una poli­tica migliore. Per que­sto il dramma del debito continuerà».

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