sabato 28 marzo 2015

Ancora gli Scritti di Karl Polanyi

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Massimiliano Panarari Tuttolibri 28 3 2015
«Grande trasformazione» è un’espressione saldamente entrata, da tempo, nei nostri conversari. E, anche se a una prima (e distratta) occhiata potrebbe apparire quasi come uno slogan, la larga diffusione di quello che era il titolo dell’opus magnum di Karl Polanyi (1886-1964) testimonia del recente ritorno di influenza di questo eterodosso pensatore del socialismo umanistico di radici ebraiche e origini ungheresi. Un influsso carsico che ultimamente si è fatto più palese, al punto da avere indotto la rivista 
Usa Atlantic 
a indicarlo come il vero riferimento della dottrina sull’economia di Papa Bergoglio; e oggi si può tornare a discorrerne anche in Italia, al di fuori dei circuiti specialistici, cogliendo l’occasione della pubblicazione presso Jaca Book di una nutrita antologia di scritti (alcuni dei quali inediti), che coprono un ampio arco dell’attività del sociologo, storico e antropologo (dal 1918 al ’63). Un’esistenza di riflessione e studio all’insegna dell’interdisciplinarietà (aspetto che ne ostacolò ulteriormente la ricezione) che, dopo gli anni turbolenti e difficili nell’Europa continentale, e la scelta di non intraprendere nel suo Paese una «regolare» carriera accademica, lo vedrà emigrare in Gran Bretagna nel ’33 e insegnare per diversi anni, dal ’47, alla Columbia University di New York.
E pure una vita assai intensa, che lo condusse a impegnarsi allo spasimo per mantenere la famiglia dopo la morte prematura del padre, a darsi alla politica, su posizioni liberal-riformiste, cofondando a Budapest il Partito radicale dei cittadini (di cui fu anche segretario), a combattere come ufficiale di cavalleria dell’esercito austro-ungarico e, quindi, al ritorno dalla Prima guerra mondiale, a trasferirsi a Vienna per lavorare come giornalista dell’Österreichische Volkswirt, il principale quotidiano finanziario della Mitteleuropa dell’epoca. 
I testi qui antologizzati rappresentano, in alcuni casi, il cantiere preparatorio de La grande trasformazione (uscita nel ’44), ed evidenziano la varietà di interessi e gli approdi di una meditazione che non riconosceva steccati tra i campi, animata da una visione olistica dei meccanismi di funzionamento dell’economia all’interno delle comunità umane. Tutti scritti che ribadiscono inoltre, lungo un percorso culturale tanto vario – nel quale si va dai commentari sulla teoria marxiana dell’autoalienazione all’illustrazione delle radici culturali del fascismo, dalla politica «interna» (l’Austria corporativa) a quella internazionale (Trotsky, il Partito laburista britannico, l’America del New Deal), sino al tema dell’istruzione popolare degli adulti e delle classi lavoratrici – la presenza di un filo rosso unitario e di una sua (non precisamente) «magnifica ossessione». Vale a dire l’idea del carattere integralmente artificiale e «utopico» del mercato e quella della falsità-impossibilità della tesi della sua autoregolazione. Se ne era persuaso avvalendosi della strumentazione dell’antropologia e studiando quelle società primitive e arcaiche in cui l’economia risultava inserita e riassorbita in toto dalla trama delle (peraltro rigidissime se non immutabili) relazioni sociali; e, in tal modo, era arrivato a elaborare il modello delle tre forme di allocazione o dei tre principi di integrazione fra economia e società (reciprocità, redistribuzione e scambio di mercato). 

Nei saggi più teorici raccolti in questo volume lo studioso stigmatizzava senza sosta, in particolare, quella che reputava una triade fallace: il paradigma dell’homo oeconomicus (di cui voleva effettuare una decostruzione), il determinismo economico (che accomunava il capitalismo e il marxismo in versione tecnocratica) e la Weltanschauung che faceva discendere la libertà personale da quella economica. Attraverso quello che potremmo chiamare un mosaico di lavori di genealogia (orientati da una filosofia politica che miscelava in maniera peculiare marxismo non deterministico e personalismo comunitario), Polanyi intendeva dimostrare come la rivoluzione industriale inglese avesse «scorporato» per la prima volta nella storia l’economia dalla società, aprendo le porte all’orizzonte dell’accumulazione illimitata e generando una trasfigurazione dell’organizzazione della vita collettiva. E anche per questo Polanyi, diventato nel frattempo un nume tutelare della cultura antiutilitarista e antiliberista, attribuiva un ruolo essenziale per la tenuta della democrazia (come scrisse in più occasioni) alla presenza di una forte opinione pubblica indipendente.

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