mercoledì 4 marzo 2015

Bunin su Cechov

Ivan Bunin: A proposito di Cechov, Adelphi

Risvolto
Nel 1952 a Ivan Bunin, ormai confinato in un letto a causa delle pessime condizioni di salute, capitano tra le mani i volumi dell’epistolario di A.P. Čechov, che si andava allora pubblicando in Urss. E quella lettura è per lui come una scossa improvvisa perché gli fa rivivere i momenti di una intensa amicizia – nata nel 1895 e interrotta soltanto dalla morte di Anton Pavlovič nel 1904 –, in cui il vincolo affettivo si fondeva con la venerazione per il talento del maestro. Turbato, commosso, Bunin scopre ora con quale fervida considerazione Čechov parlasse di lui nelle lettere agli amici, e decide di contraccambiare il calore di quei sentimenti scrivendo o dettando alla moglie i suoi ricordi. L’amico è evocato soprattutto nella dimensione quotidiana, alle prese con la malattia, nel rapporto con i suoi cari, assorbito da un ideale artistico assoluto, intento a riflettere sui princìpi etici che devono governare la vita. La sua indole complessa e schiva, eppure sempre benevola, si manifesta attraverso conversazioni, giudizi, impressioni fuggevoli, battute, frammenti di lettere. Ma Bunin si imbatte anche in un’altra sorprendente rivelazione: le memorie della scrittrice Lidija Avilova, pubblicate postume nello stesso periodo, fanno riemergere l’amore impossibile, e gelosamente custodito fino alla tomba, che legò il destino di Anton Pavlovič a quello di lei. Bunin unisce questi ricordi ai suoi in pagine vibranti di emozione che non solo gettano luce su un aspetto sconosciuto della vita di Čechov, ma sembrano addirittura uscite dalla sua penna di narratore sublime. 

La biografia come opera d’arte 
A. Piperno Mercoledì 4 Marzo, 2015 CORRIERE DELLA SERA © RIPRODUZIONE RISERVATA

L e ponderose iper-documentate biografie dei grandi scrittori suscitano la stessa delusione di un tour nelle case delle celebrità di Beverly Hills e di Bel Air. Il sogno di immergersi almeno per un attimo nel cuore del privilegio hollywoodiano si infrange su recinzioni fortificate e inaccessibili. Ti ritrovi lì, con un branco di sfigati in shorts e canottiera, a scattare foto a un cancello. 
A suo tempo aggredii fiducioso la biografia di Baudelaire scritta da Pichois, poi quelle monumentali di Tadié su Proust, di Atlas su Bellow... Be’, non ce n’è una che abbia saputo darmi ciò che si è soliti cercare nella vita di un grand’uomo: la ricetta del genio. Evidentemente non c’è niente di geniale nell’esistenza di un genio. E di certo un individuo non è tutto nelle cose che gli capitano. Dati anagrafici, alberi genealogici, matrimoni, piccinerie, lutti, gusti sessuali, successi, tracolli.... Cosa c’è di straordinario in questo? Non basta essere zoppi per essere Lord Byron. Forse il solo modo per raccontare la storia di un creativo immaginifico è raccontarla in modo creativo e immaginifico. Mettersi sullo stesso piano, giocare nello stesso campionato. Di recente ho amato molto la biografia di Salinger di David Shields e Shane Salerno proprio per come era concepita, per come era scritta. A suo modo era un’opera d’arte. 
Mi sa che anche all’Adelphi la pensano così, visto che nel giro di pochi mesi hanno riproposto due gioielli: la biografia di Gogol’ scritta da Nabokov ( Nikolaj Gogol’ ) e i ricordi di Ivan Bunin della sua amicizia con Cechov ( A proposito di Cechov). Due opere diverse naturalmente, con un suggestivo punto in comune: ecco due grandi scrittori russi del ’900 , due emigré di successo, che si cimentano con la vita e l’opera di illustri sfortunati compatrioti ottocenteschi (quando una patria c’era ancora). Un mix da capogiro. Nabokov svolge il compito da par suo, baloccandosi con Gogol’ e il suo fantasma, facendo splendere le ultime ore di vita del suo eroe d’una vividezza gogoliana. 
Bunin è più sobrio: per dare conto del tenero sodalizio con Cechov procede per accumulazione. Ispirato dall’epistolario cechoviano, riesuma impressioni lasciate in cantina per mezzo secolo. Affastella ricordi in modo caotico, senza un programma preciso, senza rispetto per la cronologia, ipnotizzato dallo sfavillio retrospettivo dei flashback (il libro fu dettato alla moglie un anno prima di morire). Assembla un ready-made zeppo di materiali riciclati: lacerti di lettere, taccuini, diari, memorie. Ne esce un libretto che somiglia alla cassettiera della famosa lirica di Baudelaire, stipata di verbali, romanze, bilanci, lettere d’amore, ciocche di capelli avvolte in ricevute sbiadite . 
A cinquant’anni dalla morte dell’amico, Bunin demolisce i cliché su Cechov: il nichilismo, la remissività, il nostalgico sentimentalismo, l’estenuata tenerezza del moribondo. E il miracolo si compie: il Cechov di Bunin aderisce al nostro Cechov, senza somigliargli in modo pedissequo. È un uomo allegro, concreto e infelice, fiaccato dalla malattia e nobilitato dall’ironia e dalla temperanza. Un tizio che vive di ciò che scrive (sia in senso materiale che emotivo). «Uno scrittore» appunta Cechov nei taccuini «deve essere povero, deve sapere che se non scrive, se cede alla pigrizia, potrebbe morire di fame. Vanno incarcerati, gli scrittori, per costringerli a scrivere di galere, torture e bastonate». Per lui esiste solo il lavoro, il resto non ha importanza. Da una lettera a Suvorin, il celebre editore: «Sono due anni che, dalla sera alla mattina, mi è passata la voglia di veder pubblicate le mie opere, che non mi curo delle recensioni, dei dibattiti letterari, dei pettegolezzi, dei successi e dei fiaschi o dei lauti guadagni». Per chi si lavora allora? Per l’immortalità? Di norma Cechov diffida razionalmente del sogno dell’immortalità, ma a tratti vi si abbandona. Del resto, è consapevole dei fraintendimenti cui si espone. È fiero della sua peculiarità rispetto ai contemporanei: non è un profeta, non è un pedagogo, né un ideologo. Il suo mondo è popolato di figure squallide, mediocri, umanissime, che insultano la sensibilità oracolare dei suoi connazionali. A cominciare dal più illustre: il conte Tolstoj. A proposito, una volta Cechov confessa al giovane Bunin: «Quello che mi colpisce in Tolstoj è il disprezzo che nutre per noi scrittori. Certo, è capitato che avesse parole di lode per Maupassant (...), o anche per me. Ma sapete perché? Ci considera bambini. Per lui i nostri racconti, le novelle, i romanzi sono giochi puerili». Che meraviglia! Uno dei ritratti condensati di Tolstoj più belli che abbia mai letto. 
A Bunin bastano pochi tocchi per presentarci il signor Cechov. «Non sopportava i festeggiamenti, odiava essere al centro dell’attenzione». E ancora: «Non lo vidi mai in vestaglia. Era sempre molto accurato nel vestire, sempre impeccabile. Nutriva un amore ossessivo per l’ordine; era un retaggio familiare, come la perseveranza e l’indulgere alle reprimende». E ancora: «Mangiava poco, dormiva poco, adorava l’ordine. Nelle sue stanze regnava un lindore fuori dell’ordinario, la sua camera da letto pareva la stanza di una fanciulla». E ancora: «Aveva belle mani, grandi e asciutte». E ancora: «Non sopportava parolai, scribi e farisei, e fra costoro in special modo quelli talmente presi dal proprio ruolo da farne una seconda pelle». 
Ma la cosa più ragguardevole, almeno per me, è l’intransigenza di Cechov nei confronti della scrittura: «Bisogna mettersi a scrivere solo quando ci si sente freddi come il ghiaccio». Bunin racconta dell’aspro commento scappato a Cechov sullo stile di Gor’kij che si compiaceva di espressioni tipo: «Il mare rideva». «Il mare non ride né piange» si arrabbia Cechov «il mare può rombare, sciabordare o scintillare al sole. Prendete Tolstoj: il sole si leva, il sole tramonta... Gli uccelli cinguettano... Non singhiozzano, né ridono. Perché è la semplicità che conta». Lo sguardo, almeno quello, deve essere esatto. Quando leggi racconti mirabili come La steppa ti rendi conto di quanto Cechov sputi il sangue, in modo flaubertiano, su ogni immagine, ma di come, al contrario del suo precursore francese, eviti le affettazioni. In un taccuino annota: «In natura una larva disgustosa si muta in una splendida farfalla, mentre per noi accade l’inverso: da splendide farfalle a larve disgustose». 
Già, ciò che conta è la semplicità.

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