venerdì 6 marzo 2015

La Contessa Boldrini si candida a schiantare meglio la Sinistra

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Confidiamo in un rapido effetto-Bertinotti [SGA].

«È il contrario di ciò che dice Renzi. Non facciamo voli pindarici, il Parlamento è il cuore della democrazia»

intervista di Francesco Grignetti La Stampa 6.3.15

Dai moniti sul Jobs Act al conflitto col premier il nuovo protagonismo della presidente Laura
di Filippo Ceccarelli  Repubblica 6.3.15
FARE il presidente della Camera non è per niente facile, in Italia, perché non si capisce se si tratta ancora di una repubblica parlamentare, o se già divenuta presidenziale, o se magari nel frattempo si è insediato un caotico miscuglio di forme istituzionali, comunque aperto alle meraviglie e alle nequizie del possibile.
In quest’ultimo caso, che poi appare forse come il più plausibile, ampio spazio si conquistano le risorse spettacolari e dell’immaginario. Così se ieri il presidente del Consiglio Renzi ha detto all’ Espresso che Laura Boldrini a suo parere «è uscita dal suo perimetro di intervento istituzionale», e lei non gli ha (ancora) risposto, magari è bene sapere che dopodomani, domenica 8 marzo, festa della donna, nella sala della Regina e nel quadro dell’iniziativa «Montecitorio a porte aperte», insieme alla presidente della Camera dei deputati interverrà l’attrice Gabriella Germani, che della Boldrini è la più nota imitatrice (radiofonica, nel programma di Fiorello).
La performance ha come titolo: «Gabriella e le sue donne». Germani simulerà dinanzi al pubblico altre figure della vita pubblica italiana, Meloni, Santanché, Finocchiaro, Mussolini e così via. Rispetto al severo richiamo del premier può sembrare una questioncina di colore o d’intrattenimento.
Sennonché, come Renzi sa meglio di chiunque altro, al giorno d’oggi la conquista dell’attenzione vale quanto la sostanza politica, anzi a volte fa parte della medesima e non di rado vi si identifica secondo le logiche di una personalizzazione portata alle estreme conseguenze.
In questo senso si può aggiungere che quando l’iniziativa è stata discussa al vertice degli organi di autogoverno della Camera, il vicepresidente Simone Baldelli, di Forza Italia, che a suo tempo più e più volte, anche vestito da donna, pure in pubblico e perfino su YouTube, ha prodotto una discreta imitazione di Boldrini, ecco, si è un po’ dispiaciuto, o ingelosito, e comunque non ha escluso di farsi vedere anche lui nella Sala della Regina.
Quasi infinite sono dunque le vie del protagonismo e ben tre Boldrini, sommate all’avvertimento renziano, qualcosa senza dubbio segnalano.
Con scrupolo forse degno di migliori analisi, gli osservatori della politica si stanno ormai abituando a tenere e a vedere insieme l’alto e il basso, le questioni pesanti e le scorrerie nella leggerezza. I rilievi, per dire, sul Jobs act e l’altolà sulla decretazione d’urgenza in campo Rai e la fotografatissima partecipazione della presidente della Camera alla benedizione degli animali, fra i quali il gatto di casa, a nome Gigibillo (deciso in un referendum su Facebook).
Ora, a parte i felini domestici, è abbastanza chiaro che il governo ha fretta e gli secca parecchio che il Parlamento rivendichi il diritto di legiferare e in vari modi si metta di traverso - sia pure in modo non risolutivo come dimostrano ghigliottine, tagliole e canguri.
Ma l’impressione è che Boldrini, da qualche tempo, non solo sta cambiando suo profilo personale, per così dire. Più loquace, meno ingessata, meno spaventata. Ma in questo processo ha capito che a lei, più che ad altri, spetta il compito di ricordare a chi di dovere che l’Italia, per ora, resta appunto una Repubblica parlamentare; e che tale forma, al di là della necessità di far presto, si rispecchia pur sempre in una quantità di corpi intermedi. I quali ritarderanno pure le grandi riformissime renziane, però, diamine, non è che sia obbligatorio abbandonarsi all’«uomo solo al comando».
Lei l’ha detto e lui, che è fumantino e non prova alcuna simpatia personale (la notte dell’ostruzionismo, mentre presiedeva, non ha esagerato in saluti) la ha inserita nella lunga lista dei personaggi di cui diffidare e in futuro da sistemare a puntino.
Cosa sia intervenuto, oltre al contesto e alle circostanze, in questo cambiamento è già più difficile da analizzare. Forse il cambio della Segreteria Generale di Montecitorio l’ha resa più sicura; forse l’elezione di Sergio Mattarella, professore di diritto parlamentare, sul Colle le consente di guardare al suo ruolo con maggiore energia e a svolgerlo secondo una logica che in senso lato non può che risultare più politica. Forse ha capito che è arrivato il momento di essere più se stessa. Forse sente di dovere di esserlo. Forse altro.
Certo i precedenti consigliano la massima prudenza. Pivetti, Violante, Casini, Bertinotti e Fini non sono un prezioso esempio, o magari sì. Fare il presidente, nel frattempo, è difficile. Ma non farlo può essere peggio.

Il premier attacca la Boldrini: sui decreti oltre i suoi limiti
Renzi e la fronda di Bersani “Battaglia incomprensibile Berlusconi resta interlocutore” Mai avuto feeling con Pierluigi, ma lo stimo, però la sua battaglia sull’Italicum è incomprensibile La Boldrini è uscita dal perimetro istituzionale, lei e Landini si comportano come leader della sinistradi G. C. Repubblica 6.3.15
ROMA. Matteo Renzi continuerà a trattare con Berlusconi. «Nonostante sia rimasto scottato, è sempre Berlusconi il capo del principale partito dell’opposizione, dato che Grillo si tiene fuori e si marginalizza da tutto...». L’offerta del premier ai forzisti quindi non cambia. Anche se nel passato recente, ammette Renzi, la delusione c’è stata e c’è: «Io sono stato serio con lui e leale al Patto del Nazareno. Nessuno di noi ha mai detto che il Nazareno riguardasse il Quirinale, poi - ironizza c’è una letteratura per cui questo accordo comprendeva qualunque cosa, anche la campagna acquisti del Milan». E se l’ex Cavaliere non ha mantenuto il Patto penso sia stato perché costretto da qualche stratega illuminato, da Brunetta che ha lavorato per fare fuori le “colombe”». Tra le “colombe” di Forza Italia, Renzi colloca anche Denis Verdini, che certo, dice, « è una trasformazione ornitologica sorprendente, lui era il capo dei “falchi”, ma è un pragmatico che conosce la prima regola della politica: i rapporti di forza».
Considerazioni politiche del premier a 360 gradi in un’intervista all’ Espresso. Da Berlusconi a Bersani, che Renzi attacca. «Non abbiamo mai avuto feeling personale, ma lo rispetto. La sua battaglia sulla legge elettorale è incomprensibile».
Un’affermazione che conferma lo stop a ipotesi di modifica come chiede la sinistra dem di cui Bersani è leader. Ascolto sì, ma poi avanti veloci. Tuttavia ci saranno meno decreti del governo, a partire dalla riforma della scuola. È un impegno preso con il presidente Mattarella e con le opposizioni. Ma non manca la “stoccata” alla presidentessa della Camera, Laura Boldrini che aveva criticato “l’uomo solo al comando” e l’uso dei decreti. «Così è uscita dal suo perimetro di intervento istituzionale». Con una ragione precisa, lascia intendere. Si comportano sia lei che Maurizio Landini, il segretario Fiom, come leader della sinistra. C’è un disegno politico. Che non impensierisce il presidente del Consiglio, assorbito da questioni concrete e da scelte di cambiamento per far ripartire l’Italia. Ecco perciò l’annuncio della legge sulle unioni civili che andrà in fretta «come la legge elettorale»; le questioni Raiway e Rai. E altro tema concreto è la fusione Mondadori-Rizzoli. «Non mi preoccupo di Mondadori, ma di Rizzoli il cui valore è stato distrutto da scelte discutibile». A sorpresa, annuncia una riforma del partito in cui contino di più le tessere e apre all’albo degli elettori.
All’attacco su tutto Brunetta, critiche da Vendola.

La paura di Matteo sull’Italicum “I voti segreti saranno trappole”
di Goffredo De Marchis Repubblica 6.3.15
ROMA Non mollare Berlusconi perché le riforme si fanno insieme alle opposizioni, ma anche perché la prossima battaglia sulla legge elettorale sarà piena di trappole. Non a caso il velocista Matteo Renzi quando parla dell’Italicum dice «senza fretta». L’arrivo del provvedimento alla Camera non è ancora in calendario. Si dice che potrebbe arrivare a maggio. Altri pensano addirittura a giugno. Sono tempi piuttosto lunghi per il passo di marcia di Palazzo Chigi eppure il premier non sembra preoccuparsene. Il punto è che appare sempre più necessario ricucire il patto del Nazareno, almeno per il sistema di voto. Le trappole infatti a Montecitorio si chiamano voti segreti. Per questo Renzi continua a guardare a Forza Italia. Ha ottenuto, grazie anche alla moral suasion di Mattarella e al lavoro del capogruppo Pd Roberto Speranza, che gli azzurri rientrino in aula martedì prossimo al momento del sì finale all’abolizione del Senato. È un primo passo ma non decisivo perché ormai Forza Italia ha scelto: voterà contro il provvedimento sancendo la fine dell’accordo col Pd. Ma c’è anche la partita dell’Italicum. Ancora più delicata per certi versi.
La minoranza del Pd ha ormai rotto gli argini annunciando che stavolta non obbedirà alla disciplina di partito. Una svolta barricadera che confligge con l’obiettivo di Renzi, obiettivo su cui il premier esclude un ripensamento: il passaggio a Montecitorio dev’essere l’ultimo, la legge va approvata in via definitiva. Senza correzioni, dunque. «Quella uscita dal Senato per noi è una buona legge elettorale che funziona», dice il premier ai suoi collaboratori. Ma adesso può attendere i tempi di una tregua con l’alleato del Nazareno.
Nel colloquio di ieri al Quirinale, raccontano, Massimo D’Alema avrebbe spiegato a Sergio Mattarella tutti i punti delle riforme (e non solo) che dividono la sinistra dem da Matteo Renzi. Il presidente della Repubblica naturalmente si è limitato ad ascoltare e a prendere nota. Però l’offensiva è in via di preparazione. L’assemblea del 21 marzo cercherà di mettere insieme tutti i dissidenti del Pd studiando una piattaforma comune. Sui cambiamenti costituzionali e su altro. Qualche segnale arriverà già martedì al momento in cui saranno contate le defezioni dentro il Pd. Do quello che Pier Luigi Bersani considera il tradimento del Jobs act, l’ex segretario ha annunciato il suo voto negativo rispetto al combinato disposto riforma del Senato-legge elettorale che a suo giudizio rappresenta un potenziale pericolo democratico. Da qualche giorno, Renzi ripete che i ribelli alla Camera, quando arriverà l’Italicum, non saranno «più di 40». Un numero che consente comunque alla maggioranza di procedere tranquillamente visti gli ampi margini di Montecitorio. Ma i voti segreti sono una lotteria. Sel e 5stelle aspettano quel momento per “aiutare” i dissensi sparsi nel Pd e in Forza Italia.
Il partito di Nichi Vendola ha preparato 25 ordini del giorno da votare prima di martedì, collegati alla riforma costituzionale. Testi che impegnano il governo sul quorum dei referendum, sulla composizione del Senato. Ma c’è anche un odg sulla legge elettorale, che chiede all’esecutivo di rispettare la sentenza della Consulta contro il Porcellum. In pratica a varare un sistema di voto proporzionale. «Sì, proponiamo al Parlamento di cambiare completamente rotta sull’Italicum — spiega il capogruppo di Sinistra e libertà Arturo Scotto — . E decideremo all’ultimo se partecipare o meno al voto finale». L’impressione è che alla fine anche Sel resterà in aula «per rispetto del ruolo della Camera e del presidente della Repubblica - dice Scotto - non del Pd».

Matteo nella tenaglia tra minoranza Pd e Forza Italia
di Marcello Sorgi La Stampa 6.3.15
La ripresa parlamentare della prossima settimana, con il voto finale della Camera sulla riforma del Senato, non si annuncia facile per Renzi. In un’intervista con «L’Espresso» il presidente del consiglio se la prende con la minoranza bersaniana del Pd e con il «disegno politico» del segretario della Fiom Landini e della presidente della Camera Boldrini che accusa di essere uscita dal perimetro istituzionale della sua carica. Trattandosi di un voto non definitivo non è in discussione l’esito dello scrutinio, ma la ripresa dei rapporti tra maggioranza e opposizione dopo lo scontro che aveva portato all’Aventino i gruppi contrari alla riforma e al metodo accelerato che Renzi aveva chiesto per tagliare i tempi dell’ostruzionismo.
Forza Italia nella nuova versione post-patto del Nazareno e tutta o parte della minoranza Pd paradossalmente potrebbero trovare punti di incontro, o per spingere il governo a un parziale riesame della riforma, ciò che allungherebbe molto i tempi del già complicato percorso parlamentare, o per preparare una più forte resistenza alla definitiva approvazione della legge elettorale, anche questa in arrivo alla Camera dopo il voto del Senato in cui Berlusconi, a sorpresa, aveva dato il suo appoggio per supplire al venir meno di quello di una parte del Pd. L’evoluzione politica che ha portato alla rottura del patto tra Renzi e l’ex-Cavaliere sulla partita del Quirinale e l’inasprimento dei rapporti tra Palazzo Chigi e la minoranza Pd rappresentano le incognite di questa nuova fase. C’è chi suggerisce al premier di scegliere, recuperando la dissidenza interna del suo partito o cercando di ricostruire un ponte con Berlusconi. Ma Renzi non ha intenzione di farlo, anche perché questo comporterebbe un cedimento sul testo dell’Italicum, che dovrebbe tornare al Senato, dove la maggioranza è più debole, e riaffrontare la parte più onerosa dell’iter alle Camere.
In questo quadro il disgelo con il Movimento 5 stelle, nato dall’intervista di Beppe Grillo di martedì, avrebbe potuto pesare sulle posizioni di entrambi i recalcitranti interlocutori del premier. Ma dopo l’illusione del primo momento, non sembra che il dialogo tra il premier e il leader del M5s stia facendo passi avanti. La frenata che da ieri si coglie nelle parole dei vertici del Pd, da Serracchiani a Taddei, sul reddito di cittadinanza, proposta chiave del programma 5 stelle su cui i grillini spingono per aprirsi la strada, fa trasparire il dubbio dei renziani che la svolta annunciata da Grillo alla fine si riveli come un escamotage elettorale in vista delle regionali.

La transizione accentua le lacerazioni nei partiti
di Massimo Franco Corriere 6.3.15
Le tentazioni scissionistiche che si avvertono un po’ in tutti i partiti sono sintomi di un sistema in evoluzione. Più si appanna la stella di Silvio Berlusconi, più è evidente la difficoltà di tenere unite forze nate sulla categoria berlusconismo-antiberlusconismo. La prima a risultare piena di crepe è proprio Forza Italia, creatura dell’ex premier: a conferma che la sua leadership si è irrimediabilmente consumata. C’è un gruppo di fedelissimi che gli si stringono intorno, in nome di un’appartenenza quasi in trincea. E c’è un gruppone che guarda altrove e aspetta solo di capire se e quando sarà il momento di staccarsi.
Per quanto premiata nei sondaggi, la Lega vive una crisi simile. Nei tempi d’oro del governo e del federalismo imposto al centrodestra nazionale, le tensioni tra lumbard e Liga veneta passavano in secondo piano. Ora si impongono in prima fila. E la scissione in embrione in un Veneto dove finora il Carroccio ha dominato, dimostra quanto perfino l’identità territoriale sia sottoposta a tensioni e strappi fino a poco fa imprevedibili. La destra cambia pelle e strategia perché si è rotto il blocco elettorale e di interessi che la teneva unita. E l’opposizione la condanna ad una deriva che potrebbe durare anni.
È come se ogni contenitore si rivelasse inadeguato rispetto ad una fase di passaggio che rimescola rapporti di forza, leadership e coordinate culturali. Non a caso anche il più moderno, e il più atipico, come il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, ha subìto in questi due anni un assestamento nel quale ha perso pezzi. Perfino il Pd di Matteo Renzi non riesce a sfuggire ai conati di spaccatura: sebbene non sia chiaro chi vuole andarsene e chi invece spinge perché gli altri se ne vadano. Risulta sempre più evidente, tuttavia, l’esistenza di «due Pd», o forse tre, in apparenza inconciliabili. È una distanza che si misura nel rapporto col sindacato, e non solo.
Coinvolge le relazioni col resto della sinistra, e la scelta dell’elettorato di riferimento. La frattura è di cultura, prima ancora che sulla politica. La volontà di Renzi di sfondare nel mondo moderato, un tempo appannaggio di Berlusconi, deve fare i conti con l’identità storica del suo partito. E i toni dello scontro interno sono tali da far pensare che l’involucro del Pd potrebbe lacerarsi da un momento all’altro: anche se per ora non accadrà, come non accadrà dentro Fi. In questo periodo, prevale la coabitazione forzata tra componenti che ormai non hanno molto in comune; ma debbono aspettare che lo sfondo si chiarisca prima di compiere scelte definitive.
Oggi, dunque, i partiti appaiono gusci, se non vuoti, plasmati con criteri del passato; e dunque condannati ad una metamorfosi radicale. Nella tendenza di Renzi a sfruttare pezzi dell’uno o dell’altro per fare avanzare i suoi obiettivi in Parlamento si intravede, più e oltre che la sua spregiudicatezza, la scarsa tenuta di alcune formazioni ridotte a semplici sigle. Il risultato è un metodo di governo verticale, che si alimenta della confusione e si rafforza grazie alle contraddizioni altrui; ma insieme rischia di rimanerne vittima. Almeno fino a quando la transizione dai vecchi ai nuovi contenitori sarà compiuta, rivelando un sistema così cambiato da essere irriconoscibile. 


Renzi-Putin e l’Ucraina il non detto di un vertice scomodo
I dubbi sull’opportunità di iniziare il viaggio con la tappa iniziale di Kiev e poi smorzare i torni di fronte al presidente russodi Franco Venturini Corriere 6.3.15

Il profilo internazionale che Renzi cerca a Mosca
di Stefano Folli  Repubblica 6.3.15
C’È un’ambizione evidente e non banale dietro il viaggio di Renzi in Ucraina e in Russia. Un’ambizione legittima i cui sviluppi sono però ancora indecifrabili. Il presidente del Consiglio vuole innalzare il suo profilo internazionale e vuole farlo secondo il suo stile, in forma appariscente e mediatica. Desidera giocare un ruolo di primo piano, comunque non subordinato rispetto ad Angela Merkel e Hollande che poco tempo fa erano insieme a Minsk a negoziare i termini della tregua fra Mosca e Kiev. In quell’incontro, come è noto, l’Unione europea in quanto tale non era presente, il che ha autorizzato il premier italiano a giocare le sue carte per non restare indietro.
La storia parla quindi di un giovane leader politico che vuole uscire dal recinto interno e accreditarsi su un palcoscenico più ampio. Per questo sceglie un tema indiscutibile di politica estera: la crisi in Libia e nel Mediterraneo. E individua in Putin l’interlocutore privilegiato in grado di contribuire ad abbassare la tensione in quell’area. Ma tutto si tiene: il conflitto nel Donbass ucraino; le sanzioni economiche contro la Russia che l’America di Obama vorrebbe più rigide mentre Renzi, come la Germania, non è d’accordo; la tregua da consolidare. E poi, venendo allo scenario che tocca da vicino gli interessi italiani, la guerra in Libia, le fazioni da riconciliare da Tripoli a Tobruk, la minaccia incombente dello Stato islamico, il ruolo dell’Egitto che con Mosca ha in apparenza un ottimo rapporto.
L’agenda è lunga e complessa. Si vedrà cosa sta ottenendo nel merito il presidente del Consiglio. Ma il metodo della diplomazia personale, disinvolta e rapida, fondata sul volontarismo, è molto «renziano». Al di là dei risultati immediati, l’importante è che non si traduca in una velleitaria mediazione. Se invece, come sembra, Renzi si è dato una priorità concreta (il Mediterraneo) e ha deciso di tesservi intorno una rete, non c’è che attendere. Le prospettive sono incerte e quindi a maggior ragione la tessitura richiederà sapienza e una capacità non comune di parlare agli europei e agli americani prima che la crisi precipiti. Ma non c’è dubbio che si tratta del tavolo giusto, se a Palazzo Chigi intendono dimostrare che l’Italia è una potenza regionale in grado di assumersi delle responsabilità ben definite in politica estera.
Per il momento la svolta internazionale di Renzi serve a marcare la distanza fra il premier che si occupa di grandi temi, della pace e della guerra, e la povertà del dibattito interno. Ai fini elettorali questa distinzione fa tutta la differenza. Il centrodestra è molto lontano dall’esprimere un leader in grado di competere con l’ex sindaco di Firenze. La paralisi di Forza Italia e la deriva dell’ultimo Berlusconi sono sotto gli occhi di tutti e non lasciano immaginare sbocchi a medio termine. La Lega di Salvini continua a migliorare nei sondaggi, anche se è plausibile che stia arrivando al suo limite massimo di espansione: almeno sulla base delle posizioni radicali e perentorie che il suo capo cavalca ogni giorno. D’altra parte si è dimostrato che la linea moderata del sindaco Tosi rappresenta un’opzione perdente, per la quale non c’è spazio nel contesto del nuovo Carroccio.
In altre parole, non ci sono margini per prevedere la nascita a breve di una verosimile alternativa alla leadership renziana. Il che mette il premier in una posizione invidiabile. Si potrebbe dire che a questo punto Renzi deve temere solo se stesso. Cioè il rischio di un infortunio per eccesso di sicurezza. O sul piano interno (la legge elettorale? il rapporto sfilacciato con la minoranza del Pd? Il caso De Luca in Campania?). O soprattutto sul piano internazionale, considerando l’ambizione svelata da questo inedito protagonismo. La Libia e il Mediterraneo offrono grandi opportunità, ma comportano rischi altrettanto alti.

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