domenica 8 marzo 2015

La nuova edizione de "L'Italia populista" di Marco Tarchi e il solito viziaccio del giornalismo culturale italiano

Copertina Italia populistaPagine e pagine su stronzate incommensurabili e per un libro come questo, molto importante, appena poche righe e bisogna pure ringraziare... E' noto che le recensioni sui giornali sono marchette o favori agli amici - io stesso ne ho fatte e ricevute - e che dipendono dalla potenza dell'editore e dalla buona volontà del suo ufficio stampa. Però un minimo di curiosità ci vorrebbe da parte di tutti [SGA].

Marco Tarchi: Italia populista. Dal qualunquismo a Beppe Grillo, il Mulino

Risvolto
«Quale percorso ha condotto la politica italiana, dopo quasi settant’anni di esperienza democratica repubblicana, a impregnarsi di una dose così forte di populismo?»
Guglielmo Giannini e Umberto Bossi, Achille Lauro e Antonio Di Pietro, le campagne della Lega e del Msi della prima segreteria di Fini contro l’immigrazione e le esternazioni di Cossiga, la rivolta di Reggio Calabria e gli show televisivi di Berlusconi, i referendum radicali contro il finanziamento pubblico dei partiti e i girotondi capeggiati da Nanni Moretti, per finire – momentaneamente – con Beppe Grillo ossessionato dagli zombie e dal «tutti a casa»: che cosa accomuna eventi e personaggi così disparati? In varia misura discendono tutti dal populismo, che in Italia ha avuto radici profonde e, dopo aver conosciuto un primo momento di fulgore, in epoca fascista, si è continuamente ripresentato nel dopoguerra sotto svariate spoglie. Un libro per capire come quella che era considerata una pericolosa patologia possa diventare una componente connaturata ai regimi democratici.

Marco Tarchi insegna Scienza della politica nell’Università di Firenze. Con il Mulino ha pubblicato: «La rivoluzione legale. Identità collettive e crollo della democrazia in Italia e Germania» (1993) e «Dal Msi ad An. Organizzazione e strategie» (1997).

Le due paure che alimentano il populismo 
Sabato 7 Marzo, 2015 CORRIERE DELLA SERA © RIPRODUZIONE RISERVATA
S ono passati quasi dodici anni e le pagine del saggio, dalla prima alla seconda edizione, sono raddoppiate. In sostanza è un libro nuovo. Niente di cui stupirsi, perché nel frattempo la materia trattata da Marco Tarchi nel suo lavoro L’Italia populista (Il Mulino, pagine 379, e 20) si è ingigantita a vista d’occhio. Abbiamo assistito all’ascesa impressionante del Movimento 5 Stelle, la Lega ha cambiato pelle, in Europa crescono un po’ dovunque le forze che invocano la riscossa della gente comune contro l’ establishment . 
Non siamo di fronte a fenomeni effimeri. I singoli partiti possono affermarsi e poi tramontare anche in tempi rapidi, a seconda delle situazioni, ma il distacco tra l’elettorato e la classe dirigente ha creato le condizioni ideali per l’affermazione di quella che Tarchi chiama «mentalità populista»: un’impostazione politica che idealizza le virtù del semplice cittadino, contrapponendole ai vizi dei potenti, e invoca appunto l’unità del popolo angariato dalle oligarchie come strumento per realizzare una democrazia autentica, il più possibile diretta, senza mediazioni interessate. In Europa generalmente questo modo di pensare porta verso destra, soprattutto per il rilievo che ha assunto il tema dell’immigrazione. Ma in America Latina sfocia piuttosto a sinistra. E poi c’è il «populismo allo stato puro», estraneo e ostile alla discriminante tra conservatori e progressisti: in Italia, secondo Tarchi, l’esempio più significativo è il movimento grillino, ma già Antonio Di Pietro si era mosso nella stessa direzione. Il nodo sta nella capacità di rappresentare simultaneamente le due grandi paure che vive oggi l’uomo della strada: quella di subire un crollo del suo tenore di vita sotto i colpi della crisi e quella di non riconoscere più il proprio Paese per via di flussi migratori massicci che ne alterino l’identità culturale. © RIPRODUZIONE RISERVATA

La metafisica del popolo sovrano 
Derive politiche. Dall’«Uomo Qualunque» alla teatralità del «Movimento 5 stelle». Il populismo italiano nel saggio di Marco Tarchi per Il Mulino. E in Francia l’uscita dall’euro, un welfare state solo per i francesi, la difesa della nazione e la battaglia contro i migranti sono gli orizzonti primari e gli elementi del successo del «Front national». L’analisi del ricercatore Nicola Genga
Francesco Marchianò, 1.4.2015 
Il suc­cesso che molti par­titi di pro­te­sta hanno otte­nuto nelle ele­zioni euro­pee dello scorso mag­gio ha riac­ceso i riflet­tori sul popu­li­smo, un feno­meno in realtà pre­sente da molti anni nel con­ti­nente euro­peo che appare tut­ta­via sem­pre più con­so­li­darsi nelle demo­cra­zie avanzate. 
Il ter­mine popu­li­smo, si sa, non gode di ottima fama, sia per­ché è uti­liz­zato spesso in ter­mini pole­mici e non descrit­tivi, e sia per­ché molto varia è stata la con­cet­tua­liz­za­zione che ne hanno dato gli spe­cia­li­sti i quali hanno con­tri­buito alla for­tuna della dia­gnosi che nel 1967, durante il primo ten­ta­tivo fatto per defi­nire il popu­li­smo, fece Isa­iah Ber­lin. Secondo il filo­sofo libe­rale, il popu­li­smo sof­friva del «com­plesso di Cene­ren­tola»: esi­steva, cioè, una scarpa, ossia la defi­ni­zione del popu­li­smo, ma non un piede al quale cal­zasse a pen­nello. Per que­sta ragione, il ricer­ca­tore, con­ti­nuava a vagare come un prin­cipe azzurro in cerca della sua amata. Da allora i con­tri­buti si sono mol­ti­pli­cati così come il numero di coloro che hanno enfa­tiz­zato i con­torni troppo incerti del popu­li­smo.
Di diverso orien­ta­mento è Marco Tar­chi, ordi­na­rio di Scienza poli­tica all’università di Firenze, rite­nuto per molti anni il teo­rico per eccel­lenza della «nuova destra» che da anni spiega come sia pos­si­bile per le scienze sociale libe­rarsi di que­sto com­plesso. L’ultimo sforzo com­piuto in que­sta dire­zione è dato dalla pub­bli­ca­zione de L’Italia popu­li­sta. Dal Qua­lun­qui­smo a Beppe Grillo (Il Mulino, 2015, pp. 394, Euro 20), una ver­sione ampliata e pra­ti­ca­mente riscritta di un testo che apparve per la prima volta nel 2003. 

Un pro­blema di mentalità 
L’autore parte dal pre­sup­po­sto che esi­stano ormai tutti gli ele­menti per giun­gere a una defi­ni­zione gene­rale del popu­li­smo cui per­viene rifiu­tando di sta­bi­lire se esso sia un’ideologia o sem­pli­ce­mente uno stile poli­tico. Per il poli­to­logo, la for­mula migliore da uti­liz­zare è quella di «men­ta­lità carat­te­ri­stica», un’espressione intro­dotta da Theo­dor Gei­ger e meglio ado­pe­rata da Juan Linz che la distin­gue pro­prio dall’ideologia per il suo forte carat­tere emo­tivo più che razio­nale, per essere informe, flut­tuante, gene­rica, per coin­ci­dere più con un atteg­gia­mento intel­let­tuale che non con un con­te­nuto. Il popu­li­smo, per­ciò, è per Tar­chi una men­ta­lità che vede il popolo come un insieme orga­nico, unito da un’etica innata, non diviso da con­flitti di alcun tipo al suo interno, al quale vi si con­trap­pongo i suoi nemici che sono i poli­tici di pro­fes­sione, i tec­no­crati, le élite eco­no­mi­che e quelle intel­let­tuali che tra­di­scono quo­ti­dia­na­mente la volontà popolare. 
Que­sta men­ta­lità si con­cre­tizza con l’utilizzo di un appello diretto al popolo, a opera spesso di lea­der dotati di forte per­so­na­lità, con una visione anti-establishment e con un’insofferenza verso i mec­ca­ni­smi di media­zione e di rap­pre­sen­tanza, giu­di­cati come osta­coli alla vera sovra­nità popo­lare. Il popu­li­smo con­di­vide, inol­tre, molti ele­menti tipici dell’estrema destra dalla quale, tut­ta­via, l’autore sug­ge­ri­sce di distin­guerlo per com­pren­dere meglio entrambi i feno­meni.
La rico­gni­zione sull’Italia comin­cia con un caso para­dig­ma­tico: il «Fronte dell’Uomo qua­lun­que». Il movi­mento di Gian­nini, nell’immediato dopo­guerra rac­co­glie le ansie di quell’Italia non anti­fa­sci­sta, con­fusa dal cam­bio di regime, timo­rosa di per­dere i pic­coli pri­vi­legi che aveva man­te­nuto nel corso del ven­ten­nio e per­ciò cri­tica nei con­fronti dei par­titi poli­tici, del par­la­mento, della Repub­blica. Per alcuni anni, al grido di «abbasso tutti!», l’«Uomo qua­lun­que» riscuo­terà un certo suc­cesso fino a quando, chiusi i rubi­netti della Con­fin­du­stria, che ne aveva finan­ziato l’epopea, scom­pa­rirà dalla scena politica. 
Quel che non scom­pare, secondo Tar­chi, è invece il poten­ziale popu­li­sta che resta a covare come brace sotto la cenere. La forte ideo­lo­giz­za­zione dello scon­tro poli­tico, la Guerra fredda, la grande azione dei par­titi di massa, con­ten­gono le esplo­sioni del popu­li­smo che si mani­fe­sta solo con spo­ra­di­che ecce­zioni come nel caso di Achille Lauro a Napoli. 

Il gia­co­bi­ni­smo giudiziario 
Quando, però, il sistema poli­tico comin­cia a scric­chio­lare, ecco che il popu­li­smo ricom­pare, prima con l’attacco alla par­ti­to­cra­zia lan­ciato da Marco Pan­nella e dai radi­cali e poi, nel 1992, con Tan­gen­to­poli quando crolla la repub­blica dei par­titi. È in que­sta fase, infatti, che le decli­na­zioni del popu­li­smo diven­tano pre­va­lenti inne­stan­dosi su una nar­ra­zione nella quale alla poli­tica cor­rotta, diso­ne­sta e inef­fi­ca­cie, viene con­trap­po­sta la società civile one­sta, ope­rosa, pro­dut­tiva, eti­ca­mente giu­sta, che al par­lare oppone il fare. È un discorso che diventa domi­nante, gra­zie ai prin­ci­pali organi di infor­ma­zione che la sosten­gono e non prima che l’allora pre­si­dente della Repub­blica Fran­ce­sco Cos­siga e il demo­cri­stiano Mario Segni (aiu­tato in maniera deter­mi­nante dal Pds di Achille Occhetto) abbiano inde­bo­lito la strut­tura del sistema dei par­titi a colpi di pic­cone e referendum. 
A sini­stra e al cen­tro sono così emersi movi­menti e forze che, sotto le inse­gne della società civile, hanno impo­sto il diret­ti­smo, il «gen­ti­smo» e il gia­co­bi­ni­smo giu­di­zia­rio. Si pensi alla Rete di Orlando, al movi­mento for­ma­tosi attorno alla rivi­sta Micro­mega e, ancor più, a quello di Anto­nio Di Pie­tro.
A destra ha trion­fato, invece, Sil­vio Ber­lu­sconi che ha rea­liz­zato una lea­der­ship popu­li­sta ma, secondo Tar­chi, non ha fatto di Forza Ita­lia un vero par­tito popu­li­sta in senso stretto. Soprat­tutto, a destra, si è impo­sta la Lega Nord, che per lo stu­dioso è la seconda vera espres­sione di massa del popu­li­smo in Ita­lia. Nata sulla pro­te­sta anti­fi­scale, anti­cen­tra­li­stica e anti­me­ri­dio­nale, la Lega, più che un par­tito etno­re­gio­na­li­sta, rien­tra nella fami­glia dei par­titi popu­li­sti, come dimo­stre­reb­bero la reto­rica anti­eu­ro­pea, la xeno­fo­bia e la lea­der­ship tri­bu­ni­zia prima di Bossi e ora di Salvini. 
La «terza ondata» del popu­li­smo, quella degli ultimi anni, acuita dalla crisi eco­no­mica, ha san­cito in Ita­lia il suc­cesso di Beppe Grillo e del M5s che Tar­chi giu­dica come «popu­li­smo allo stato puro». Col suo essere posti­deo­lo­gico (né di destra né di sini­stra), con la sua sfi­du­cia nella rap­pre­sen­tanza (ognuno vale uno), con la sua visione dico­to­mica che vede da una parte il popolo e dall’altra i suoi nemici (l’Europa, le ban­che, i poli­tici, i tec­no­crati, gli intel­let­tuali, gli immi­grati), con un lea­der che sa aiz­zare le piazze gra­zie a dosi di tea­tra­lità e vol­ga­rità, il M5s rap­pre­senta una delle più riu­scite espres­sioni del popu­li­smo in Italia. 
Se que­sta è la situa­zione del nostro Paese, va detto che non siamo soli. In molte parti d’Europa, infatti, sono emersi attori poli­tici della fami­glia popu­li­sta. Uno dei casi più esem­plari e dura­turi è senza dub­bio quello del Front Natio­nal dei Le Pen — che ambi­sce, gra­zie ai buoni risul­tati elet­to­rali, a diven­tare il primo par­tito in Fran­cia — alla cui evo­lu­zione è dedi­cato il volume Il Front Natio­nal. Da Jean-Marie a Marine Le Pen (Rub­bet­tino, pp. 202, Euro 18), ultimo lavoro di un gio­vane stu­dioso, Nicola Genga. 
L’autore affronta l’argomento cer­cando di veri­fi­care alcune inter­pre­ta­zioni pre­va­lenti, spesso date per scon­tate, a comin­ciare dal pre­sunto cari­sma del lea­der Jean Marie che secondo Genga è stato un ele­mento con­se­guente al suc­cesso, non tanto una sua causa; non fosse altro che nei suoi primi anni di vita il Front rac­co­glie risul­tati irri­sori, infe­riori all’1%, e solo nel 1984 ottiene il primo suc­cesso a sor­presa dovuto, in gran parte, alla forte espo­si­zione media­tica che rice­vono in quella cir­co­stanza il par­tito e il suo leader. 
Lungi dal con­si­de­rare il Front come un par­tito «solo» popu­li­sta, Genga ne inqua­dra la sua cul­tura poli­tica all’interno della destra fran­cese met­tendo in luce i forti legami che esi­stono tra i due, deter­mi­nanti soprat­tutto nella fase di incu­ba­zione. Tra gli anni Ottanta e Novanta, poi, quando il Front comin­cia a cre­scere, l’autore nota un inten­si­fi­carsi di rap­porti e, soprat­tutto, di scambi di per­so­nale poli­tico con la destra gol­li­sta. Ciò lo induce a pre­fe­rire l’utilizzo dell’espressione «destra radi­cale», sia per distin­guere il Front dall’isolazionismo, tipico delle destre estreme, e sia per distin­guerlo dalle destre liberal-conservatrici e repub­bli­cane. Una destra radi­cale a con­no­ta­zione «nazional-populista», insomma, secondo la for­mula di un altro stu­dioso che si è a lungo cimen­tato con l’argomento, Pierre-André Taguieff. Non va dimen­ti­cato, infatti, che Jean Marie Le Pen venne eletto per la prima volta nelle liste del par­tito pou­ja­di­sta che Tar­chi con­si­dera come il pro­to­tipo del popu­li­smo europeo. 

Il suc­cesso di Marine Le Pen 
Il legame pro­fondo che il Front ha con la destra fran­cese emerge anche in nega­tivo. Ana­liz­zando la para­bola di Sar­kozy, Genga sot­to­li­nea l’inversa pro­por­zio­na­lità tra que­ste due destre spie­gando che parte del suc­cesso che l’ex pre­si­dente riscosse nel 2007 fu dovuto alla sua capa­cità di rap­pre­sen­tare valori e parole d’ordine della destra lepe­ni­sta in chiave più rispet­ta­bile, riu­scendo così a sot­trarre con­sensi al Front. 
Il volume si chiude con un focus sulle novità intro­dotte da quando alla guida è pas­sata la figlia di Le Pen, Marine. Il nuovo Front ha ten­tato, per ora con suc­cesso, un’operazione di cosmesi nella quale ha moder­niz­zato la pro­pria comu­ni­ca­zione, rea­liz­zato il resty­ling del sim­bolo, espunto dal pro­prio les­sico rife­ri­menti troppo estre­mi­sti, come i diversi sci­vo­la­menti nel nega­zio­ni­smo. Quelle che non sono cam­biate, da Jean-Marie a Marine, sono però le pro­po­ste poli­ti­che: sicu­rezza con­tro gli immi­grati, la pre­fe­renza nazio­nale, o meglio un Wel­fare state che fun­zioni solo per i cit­ta­dini fran­cesi, l’attacco alle isti­tu­zioni euro­pee e alla finanza senza che però sia mai messo in dub­bio il sistema capi­ta­li­stico. Non si dimen­ti­chi che il Front è stato per anni un fer­vente soste­ni­tore del libe­ri­smo economico. 

Con que­sta for­mula poli­tica Marine è arri­vata al suc­cesso del mag­gio scorso nelle ele­zioni euro­pee, ma il merito è solo in parte suo visto che, cer­ta­mente, vi ha con­tri­buto l’inefficacia della pre­si­denza Hol­lande di far fronte a fat­tori esterni come la crisi eco­no­mica e le poli­ti­che eco­no­mi­che rigo­ri­ste. Fat­tori che inci­dono ancora in molti Paesi euro­pei e che indu­cono a rite­nere che la sto­ria dei popu­li­smi sia ancora lunga.

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