sabato 14 marzo 2015

Postcolonialismo gandhiano

Ashis Nandy: Il nemico intimo. Per­dita e recu­pero dell’identità sotto la domi­na­zione colo­niale , Forum editore

Risvolto
«Subito dopo quella meraviglia della tecnologia moderna nota come Seconda guerra mondiale e fors’anche quel moderno incontro tra culture noto come Vietnam, è diventato evidente che la pulsione al dominio sugli uomini non è semplicemente un effetto collaterale di un’economia politica difettosa, ma anche di un mondo che crede nell’assoluta superiorità dell’umano sul non-umano e il sub-umano, del maschile sul femminile, dell’adulto sul bambino, dello storico sull’astorico, e del moderno (o progressivo) sul tradizionale o selvaggio». Da questa considerazione – tratta dalla prefazione della sua opera più importante, proposta qui per la prima volta in traduzione italiana e arrichita da un'introduzione di Stefano Mercanti – lo psicanalista indiano Ashis Nandy prende le mosse per analizzare i presupposti e le conseguenze storiche e psicologiche della colonizzazione nella duplice prospettiva dei dominatori e dei dominati. Rompendo con la tradizione, l’autore indaga gli effetti del plurisecolare colonialismo britannico sulla società indiana ed evidenzia come il movimento di Ghandi, proponendo un modello di società e di democrazia basata sulla ricchezza di tradizioni che costituiscono il patrimonio storico e l’identità dell’India, abbia saputo resistere e costituire una delle risposte più efficaci al condizionamento culturale imposto dai colonizzatori.

L’opaca psicologia della subalternità 

Saggi. «Il nemico intimo» delll’indiano Ashis Nandy per Forum editore. Un’analisi freudiana delle rapporto tra colonizzatore e colonizzato a partire dalle teorie gandhiane 

Livio Boni, 14.3.2015 

Se gli studi post-coloniali si sono impo­sti sulla scena del pen­siero cri­tico a par­tire dalle ana­lisi post-marxiste di Edward Saïd, dall’innesto della deco­stru­zione sul fem­mi­ni­smo ini­ziato da Gaya­tri Spi­vak, o dalla rice­zione della sto­rio­gra­fia indiana «subal­ter­ni­sta» (Rama­chan­dra Guha, Dipesh Cha­kra­barty, Par­tha Chat­te­r­jee), la pub­bli­ca­zione de Il nemico intimo. Per­dita e recu­pero dell’identità sotto la domi­na­zione colo­niale di Ashis Nandy (a cura di U. Rossi e S. Mer­canti, Forum, Udine, 2014, pp. 125) ha il merito di docu­men­tare un altro filone della cri­tica post-coloniale, filone che non deriva né dal mar­xi­smo né dal post-strutturalismo fran­cese, ma dal ten­ta­tivo di con­ce­pire una socio­lo­gia freu­diana del mondo post-coloniale, e in par­ti­co­lare del sub­con­ti­nente indiano e dell’Asia meri­dio­nale, carat­te­riz­zati dalla per­si­stenza dell’elemento reli­gioso e dalla resi­stenza di quest’ultimo rispetto ai ten­ta­tivi di rias­sor­birlo nella costru­zione delle varie iden­tità nazionali. 

Una sedu­zione traumatica 
Ashis Nandy è una figura di spicco del pen­siero cri­tico indiano, ben noto nel mondo anglo­fono e in Asia, assai meno in Europa. Ci si deve dun­que feli­ci­tare di que­sta tra­du­zione che rende final­mente dispo­ni­bile il primo libro impor­tante di Nandy, pub­bli­cato nel già lon­tano 1983. Il nemico intimo si com­pone di due sezioni: nella prima, «Psi­co­lo­gia del colo­nia­li­smo», Nandy rilegge a suo modo il libro omo­nimo dello psi­coa­na­li­sta fran­cese Octave Man­noni per delu­ci­dare come il colo­nia­li­smo si con­fi­guri in quanto una vera e pro­pria espe­rienza di sedu­zione trau­ma­tica, cioè d’identificazione incon­scia con l’aggressore e d’introiezione della sua imago. Ed è pro­prio una tale intro­ie­zione a giu­sti­fi­care, per Nandy, il pri­mato dia­let­tico del colo­niz­zato sul colo­niz­za­tore: «Il ragio­na­mento essen­ziale è sem­plice. Tra il padrone moderno e lo schiavo non-moderno si deve sce­gliere lo schiavo non per­ché si debba sce­gliere la povertà volon­ta­ria o ammet­tere la supe­rio­rità dei sof­fe­renti, non solo per­ché lo schiavo è oppresso, nem­meno per­ché lavora (cosa che, diceva Marx, lo rende meno alie­nato del padrone). Si deve sce­gliere lo schiavo per­ché egli rap­pre­senta una cogni­zione di ordine più ele­vato, che deve neces­sa­ria­mente inclu­dere il padrone come essere umano, men­tre la cogni­zione del padrone deve esclu­dere lo schiavo se non come “cosa”». 

Com­plesso di dipendenza 
Il pri­mato del colo­niz­zato è quindi logico, ancor prima che morale. Que­sta pro­spet­tiva per­mette a Nandy d’andare oltre il «com­plesso di dipen­denza» teo­riz­zato da Man­noni nel suo sag­gio del 1947, scritto al cre­pu­scolo della domi­na­zione colo­niale fran­cese sul Mada­ga­scar, e dura­mente cri­ti­cato da Frantz Fanon in Pelle nera, maschere bian­che. Nandy fa infatti pro­pria l’idea di Man­noni di un’interdipendenza incon­scia susci­tata dall’impatto colo­niale, impatto che tra­sforma non solo chi lo subi­sce, ma anche chi lo impone. Da qui la nota­zione di Man­noni citata in esergo: «Il pro­blema della colo­niz­za­zione non riguarda solo i paesi d’oltremare. Il pro­cesso della deco­lo­niz­za­zione è anche in corso nella madre­pa­tria, nelle nostre scuole, nelle richie­ste di ugua­glianza delle donne, nell’istruzione dei bam­bini e in molti altri campi. Se certe cul­ture si dimo­strano capaci di distrug­gerne altre le forze distrut­tive gene­rate da que­ste cul­ture agi­scono anche internamente». 
La seconda parte del libro («La mente deco­lo­niz­zata») svolge dun­que, con brio e spic­cato senso della for­mula, il tema dell’interiorizzazione del nemico in alcune figure-chiave della presa di coscienza post-coloniale indiana d’inizio Nove­cento (come i mistici e uomini d’azione Sri Auro­bindo e Swami Vive­ka­nanda); ma anche l’interiorizzazione erotico-malinconica dell’Altro nella let­te­ra­tura bri­tan­nica dell’epoca vit­to­riana (Kipling), seguendo il filo con­dut­tore dell’infantilizzazione e della fem­mi­niz­za­zione, più o meno incon­sce, del colo­niz­zato, e delle loro rica­dute fan­ta­sma­ti­che su entrambi i pro­ta­go­ni­sti dell’incontro colo­niale. Ma è negli ultimi para­grafi della prima sezione che si trova il noc­ciolo più ori­gi­nale e pro­po­si­tivo dell’analisi di Nandy, la sua rilet­tura meta-analitica del gan­d­hi­smo. L’autore riven­dica infatti una let­tura della psi­co­lo­gia di massa impli­cita in Gan­dhi come una rispo­sta non reat­tiva, uno spo­sta­mento e un’elaborazione autoa­na­li­tica del discorso colo­niale e dei com­plessi da esso derivati. 
La riva­lu­ta­zione gan­d­hiana del fem­mi­nile, inteso come psi­co­lo­gi­ca­mente supe­riore alla viri­lità ed irri­du­ci­bile alla pas­si­vità, alla castra­zione o all’effeminazione, rap­pre­senta, per Nandy, una vera e pro­pria cata­cresi del discorso colo­niale, cioè uno spo­sta­mento in grado di tra­sfor­mare una stim­mate in risorsa dina­mica ed in supe­ra­mento della con­trap­po­si­zione domi­nante tra viri­lità e fem­mi­neo. Lo stesso vale per il motivo dell’infanzia: la cri­tica gan­d­hiana della Sto­ria, e la sua riva­lu­ta­zione del mito e dell’idea di una cicli­cità del tempo sto­rico irri­du­cu­bile ad una razio­na­lità pro­gres­siva rap­pre­senta una mossa fon­da­men­tale per sot­trarsi al posi­ti­vi­smo del discorso colo­niale, ma anche a quello della rea­zione anti-coloniale, e di riat­ti­vare l’idea che sus­si­stano, nella sto­ria col­let­tiva, risorse suf­fi­cienti per rom­pere l’incanto della sot­to­mis­sione, riva­lu­tando una serie di figure, di imma­gini e di valori rimossi, la cui arcai­cità diventa una risorsa. 

Il nazio­na­li­smo indù 
Que­sta dop­pia riven­di­ca­zione gan­d­hiana del «Fem­mi­nile» e dell’«Infantile» per­mette di sov­ver­tire i para­me­tri della logica colo­niale, ponendo le basi di un’azione col­let­tiva ine­dita. In que­sta sorta di riva­lu­ta­zione freu­diana del gan­d­hi­smo sta il cuore della let­tura di Nandy, ci che lo distin­gue dalla gran parte degli approcci post-coloniali in India (soli­ta­mente cri­tici verso il gan­d­hi­smo), il suo con­tri­buto al rilan­cio degli studi su Gan­dhi in que­sti ultimi anni, e il suo apporto ad una cri­tica antro­po­lo­gi­ca­mente esi­gente del nazio­na­li­smo indù, con­si­de­rato non tanto come un tra­di­mento del gesto gan­d­hiano, ma come tra­ve­sti­mento iden­ti­ta­rio del desi­de­rio di uni­for­marsi al modello, ormai spet­trale ma fan­ta­sma­ti­ca­mente sem­pre effi­ciente, dello Stato-Nazione europeo.

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