lunedì 30 marzo 2015

Sinistra, governo & classi subalterne: Piketty spiega l'acqua calda a Repubblica


Risultati immagini per pikettyPerché il popolo tradisce la sinistra
di Thomas Piketty Repubblica 30.3.15

PERCHÉ le classi popolari voltano sempre più le spalle ai partiti di Governo?
E PERCHÉ VOLTANO LE SPALLE in particolare ai partiti di centrosinistra che sostengono di difenderle? Molto semplicemente perché i partiti di centrosinistra non le difendono più ormai da tempo. Negli ultimi decenni le classi popolari hanno subito l’equivalente di una doppia condanna, prima economica e poi politica. Le trasformazioni dell’economia non sono andate a vantaggio dei gruppi sociali più sfavoriti dei Paesi sviluppati: la fine dei trent’anni di crescita eccezionale seguita alla seconda guerra mondiale, la deindustrializzazione, l’ascesa dei Paesi emergenti, la distruzione di posti di lavoro poco o mediamente qualificati nel Nord del pianeta. I gruppi meglio provvisti di capitale finanziario e culturale, al contrario, hanno beneficiato appieno della globalizzazione. Il secondo problema è che le trasformazioni politiche non hanno fatto che accentuare ancora di più queste tendenze. Ci si sarebbe potuti immaginare che le istituzioni pubbliche, i sistemi di protezione sociale, in generale le politiche seguite dai Governi si sarebbero adattati alla nuova realtà, pretendendo di più dai principali beneficiari delle trasformazioni in corso per concentrarsi maggiormente sui gruppi più penalizzati. Invece è successo il contrario.
Anche a causa dell’intensificarsi della concorrenza fra Paesi, i Governi nazionali si sono concentrati sempre di più sui contribuenti più mobili (lavoratori dipendenti altamente qualificati e globalizzati, detentori di capitali) a scapito dei gruppi percepiti come “imprigionati” (le classi popolari e i ceti medi). Tutto questo riguarda un insieme di politiche sociali e servizi pubblici: investimenti nei treni ad alta velocità contro pauperizzazione delle ferrovie regionali, filiere dell’istruzione per le élite contro abbandono di scuole e università, e via discorrendo. E riguarda naturalmente anche il finanziamento di tutto quanto: dagli anni 80 in poi, la progressività dei sistemi fiscali si è drasticamente ridotta, con una riduzione su vasta scala delle imposte applicabili ai redditi più elevati e un graduale aumento delle tasse indirette, che colpiscono i più poveri.
La deregolamentazione finanziaria e la liberalizzazione dei flussi di capitali, senza la minima contropartita, hanno accentuato queste evoluzioni.
Anche le istituzioni europee, consacrate interamente al principio di una concorrenza sempre più pura e sempre più perfetta fra territori e fra Paesi, senza una base fiscale e sociale comune, hanno rafforzato queste tendenze. Lo si vede con estrema chiarezza nel caso dell’imposta sugli utili delle società, che in Europa si è dimezzata rispetto agli anni 80. Inoltre, bisogna sottolineare che le società più grandi spesso riescono a eludere il tasso di imposizione ufficiale, com’è stato rivelato dal recente scandalo LuxLeaks. In pratica, le piccole e medie imprese si ritrovano a pagare imposte sugli utili nettamente superiori a quelle che pagano i grandi gruppi con sede nelle capitali. Più tasse e meno servizi pubblici: non c’è da stupirsi che le popolazioni colpite si sentano abbandonate. Questo sentimento di abbandono alimenta il consenso per l’estrema destra e l’ascesa del tripartitismo, sia all’interno che all’esterno dell’Eurozona (per esempio in Svezia). Che fare, allora?
Innanzitutto bisogna riconoscere che senza una rifondazione sociale e democratica radicale, la costruzione europea diventerà sempre più indifendibile agli occhi delle classi popolari. La lettura del rapporto che i «quattro presidenti» (della Commissione, della Bce, del Consiglio e dell’Eurogruppo) hanno recentemente dedicato all’avvenire della zona euro è particolarmente deprimente in quest’ottica. L’idea generale è che si sa già quali sono le «riforme strutturali» (meno rigidità sul mercato del lavoro e dei beni) che permetteranno di risolvere tutto, bisogna solo trovare gli strumenti per imporle. La diagnosi è assurda: se la disoccupazione è schizzata alle stelle negli ultimi anni, mentre negli Stati Uniti diminuiva, è innanzitutto perché gli Stati Uniti hanno dato prova di una maggiore flessibilità di bilancio per rilanciare la macchina economica.
Quello che blocca l’Europa sono soprattutto le pastoie antidemocratiche: la rigidità dei criteri di bilancio, la regola dell’unanimità sulle questioni fiscali. E sopra ogni altra cosa l’assenza di investimenti nel futuro. Esempio emblematico: il programma Erasmus ha il merito di esistere, ma è ridicolmente sottofinanziato (2 miliardi di euro l’anno contro 200 miliardi dedicati al pagamento degli interessi sul debito), mentre l’Europa dovrebbe investire massicciamente nell’innovazione, nei giovani e nelle università. Se non si troverà nessun compromesso per rifondare l’Europa, i rischi di esplosione sono reali. Riguardo alla Grecia, è evidente che alcuni dirigenti cercano di spingere il Paese ellenico fuori dall’euro: tutti sanno benissimo che gli accordi del 2012 sono inapplicabili (passeranno decenni prima che la Grecia possa avere un avanzo primario del 4 per cento del Pil da destinare al rimborso del debito), eppure si rifiutano di rinegoziarli. Su tutte queste questioni, la totale assenza di proposte da parte del Governo francese sta diventando assordante. Non si può stare ad aspettare a braccia conserte le elezioni regionali di dicembre e l’arrivo al potere dell’estrema destra nelle regioni francesi. Traduzione di Fabio Galimberti

“Adesso Hollande non ha più scelta. Sostituisca Valls e guardi a sinistra”
Il politologo Thomas Guénolé: “Ha fatto capire che non lo farà Rimpasto inutile, serve una svolta per fermare l’emorragia”intervista di L. Mart. La Stampa 30.3.15
Professore, Thomas Guénolé, 33 anni, insegna a SciencesPo, Istituto di studi politici di Parigi
E adesso? «Dopo la batosta che ha subito il suo partito, il presidente François Hollande procederà a un rimpasto governativo. Cercherà di ricostruire una maggioranza più ampia. Tenterà di convincere esponenti dell’ala di sinistra del Partito socialista o di formazioni a sinistra rispetto al suo, come i verdi, a entrare nell’esecutivo, per frenare l’emorragia di voti in quella direzione. Ma ha già fatto capire che non sostituirà Manuel Valls come premier. E in quel modo non andrà da nessuna parte». A parlare è Thomas Guénolé, 33 anni, politologo, docente a Parigi a SciencesPo.
Perché sostituire Valls?
«La politica economica attuale del governo è sbilanciata a destra rispetto al baricentro dell’elettorato che ha portato Hollande alla vittoria nel 2012. Se i socialisti vogliono avere una speranza di accedere al secondo turno delle presidenziali nel 2017, devono ricostituire un’alleanza tra le diverse forze interne al partito ed esterne, nella sinistra. Meglio sarebbe recuperare anche il Front de gauche, l’estrema sinistra di Jean-Luc Mélenchon. Tutto questo con Valls primo ministro è impossibile».
Chi, allora, dovrebbe prendere il suo posto?
«Martine Aubry, sindaco di Lilla. Ma Hollande non lo farà. E non cambierà la sua politica economica. Per il suo interesse, credo sia un errore».
Sul versante della destra, l’Ump gestirà la maggioranza delle dipartimenti. È il vero vincitore di queste consultazioni. L’effetto Sarkozy ha funzionato ?
«È quello che dicono tutti. Ma io non ci credo. Alle europee del 2014, l’Ump aveva preso circa il 20% dei voti. E le forze del centro, Udi e Modem, ancora il 10%. Oggi, alle provinciali i tre partiti assieme hanno ottenuto quasi il 30%. Se si fanno due calcoli, non mi sembra che si sia registrata una crescita dei loro consensi. Se sono riusciti a conquistare un numero così elevato di dipartimenti è perché l’Ump si è alleato già al primo turno con il centro. E questa non è stata un’idea di Sarkozy ma di Alain Juppé, il suo rivale all’interno del partito».
Qual è il bilancio di queste elezioni per Marine Le Pen ? Deludente?
«Anche in questo caso è quello che dicono tutti. E mi permetto di dissentire ancora una volta. Il Front National è passato da un solo consigliere provinciale in tutta la Francia a una trentina. Non mi sembra una sconfitta. E poi, dai calcoli che ho fatto sulla base dei risultati di quest’ultima elezione, ritengo che, se ci fossero oggi le presidenziali, la Le Pen prenderebbe il 23% dei voti al primo turno, che sono cinque punti percentuali in più rispetto al 2012. Accederebbe con molta probabilità al ballottaggio. Questo non vuol dire che poi vincerebbe».
È proprio la domanda che si fanno tutti oggi in Francia. Alle presidenziali del 2017 la Le Pen, se sarà presente al secondo turno, vincerà o no ?
«Credo che contro di lei ce la farebbe anche una capra con un cartello al collo e una scritta : “Non sono Marine Le Pen”. No, non vincerà».

Il politologo Yves Meny “Le incertezze di Hollande hanno stufato gli elettori Ecco perché ha perso”
“Il sistema francese funziona come una ghigliottina: penalizza le divisioni e l’assenza di alleanze”intervista di A. G. Repubblica 30.3.15
PARIGI . «François Hollande aveva vinto nel 2012 grazie al forte rigetto di Nicolas Sarkozy: questa volta è successo il contrario », spiega il politologo francese Yves Meny, autore di diversi saggi sul populismo e presidente del Consiglio di amministrazione della Scuola Sant’Anna di Pisa.
Una clamorosa vittoria per l’Ump?
«È certamente un risultato netto in favore della destra. Dietro però ci vedo soprattutto un rigetto della politica del governo. Attenzione, non di Manuel Valls, ma proprio del Presidente, delle sue esitazioni, della sua assenza di visione, di spiegazioni. Nel sistema della Quinta Repubblica, è il Presidente al centro del gioco».
Sarkozy ora è in posizione di forza?
«Ha tenuto conto delle critiche che aveva ricevuto in passato. Sembra meno agitato e più attento al suo entourage. Non so se durerà. È un uomo mutevole, come sappiamo. Ma sin qui ha giocato bene la sua partita. Si è accreditato come unico leader, anche se le primarie per le presidenziali riapriranno le divisioni interne. E per Sarkozy non è tutto in discesa: ha con sé la maggioranza dei militanti Ump, ma l’elettorato di destra, nel suo insieme, è tiepido per Sarkozy. Se saranno primarie aperte, corre un rischio».
La sinistra ha perso anche perché si è presentata divisa?
«Certo, è un effetto meccanico dell’attuale sistema elettorale francese che funziona come una ghigliottina: penalizza le divisioni al primo turno, e l’assenza di alleanze ai ballottaggi. Il Ps ha alla sua sinistra il Front de Gauche che lo combatte. Mentre il Front National non ha potenziali alleati e infatti non ha ottenuto ai ballottaggi nessun dipartimento, pur avendo fatto un risultato importante, soprattutto nella traiettoria di crescita degli ultimi tre anni».
Il terzo uomo, anzi la terza donna, Marine Le Pen, può arrivare lontano?
«La Francia è sociologicamente a destra, con una percentuale che è sempre stata intorno al 55%. In questo caso vediamo che, sommando la destra repubblicana a quella estrema, arriviamo addirittura al 65/70%. Questo dato, unito alla debolezza di Hollande, lascia supporre che nel 2017 la sinistra potrebbe non avere un candidato al secondo turno. E Le Pen potrebbe arrivare al ballottaggio, come suo padre, ma con conseguenze e rischi molto più elevati per il paese».
Come potrà continuare a governare la sinistra, sempre più sfiduciata?
«La situazione del governo è disastrosa. Valls ha una maggioranza sulla carta. Nei fatti, però, è molto debole. A poche ore dal voto, i deputati frondisti hanno già pubblicato un comunicato per criticarlo. Per i prossimi due anni sarà impossibile far approvare qualsiasi riforma, a meno di forzature. Penso che Valls dovrebbe continuare lo stesso con la sua politica non per preparare l’elezione del 2017 ma quella del 2022, nella quale sarà probabilmente candidato».

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