domenica 8 marzo 2015

Tra Checco Varoufakis e Keynes

Varoufakis: «L’Ue non accetta il piano della Grecia? Potremmo convocare

un referendum sull’euro»

Intervista al ministro delle Finanze greco: «La Bce nel 2012, in una crisi simile ma con un governo conservatore, aumentò senza problemi la nostra possibilità di emettere titoli a breve termine Ora invece è molto ”disciplinante” con la Grecia»

di Danilo Taino Corriere 8.3.15


Image result for varoufakisFitoussi: “L’intesa alla fine sarà trovata”
L’economista: se uscisse dall’euro si scatenerebbe una enorme crisi, ma resta un problema di democrazia

di Eugenio Occorsio Repubblica 8.3.15

ROMA «La situazione è così ingarbugliata che si pone un problema politico di fondo: l’Europa non è una federazione, la Commissione non rappresenta una base elettorale, ha senso che comandi su governi democraticamente eletti e decida cosa devono fare?» Jean-Paul Fitoussi, il guru di SciencesPo, economista europeo fra i più prestigiosi, ha firmato con una serie di colleghi un manifesto di supporto a Tsipras: «La sua strategia politica di rottura offre l’occasione per riflettere sui gap di democrazia in Europa».
Domani si va all’Eurogruppo senza nessun accordo, anzi rispetto a pochi giorni fa c’è lo scontro aperto fra la Bce e Atene, e secondo la stampa tedesca addirittura fra la Merkel e Juncker. Siamo non solo in stallo ma si va indietro: come finirà?
«Alla fine il buon senso prevarrà e il governo tedesco darà l’input decisivo per raggiungere un accordo. Restano però da questa vicenda che è drammatica perché c’è di mezzo un popolo ridotto alla fame, degli insegnamenti cruciali. Si è visto che nei Paesi d’Europa si può cambiare governo ma non cambiare politica. C’è qualcosa che non va. Ora si diffonde lo spavento perché ci si rende conto che c’è tanta di quella tensione che basta poco per far saltare tutto e provocare la rottura con la Grecia: se Atene esce dall’euro si apre una crisi dei debiti sovrani modello 2011, però al quadrato».
Il professor Galbraith, uno fra i firmatari del suo manifesto, ipotizza una specie di complotto per sbarazzarsi di Syriza. Lei cosa ne pensa?
«Non credo. Guarderei alle evidenze: l’Europa continua, con la mancanza di appoggio democratico che dicevo, ad imporre una politica, quella del rigore, che non solo è fallita ma ha aggravato la crisi. E ora insiste con la Grecia ».
C’erano accordi firmati che impegnavano non solo quel governo ma il Paese in quanto tale.
«E’ una questione morale. I precedenti governi greci hanno fallito nelle riforme, sono gravemente colpevoli. Ma ha senso far pagare questo alla popolazione? L’aspetto paradossale è che intanto l’economia dà segni di ripresa in tutta Europa. I motivi sono il ribasso del petrolio, la svalutazione dell’euro, le politiche espansive della Bce. E aggiungo anche la resistenza della gente, che è riuscita nei Paesi più in difficoltà a reagire e a trovare in sé le risorse per la rinascita. Bene, nessuno di questi motivi attiene minimamente alle politiche portate avanti dalle autorità dell’eurozona».
Come giudica l’inusuale durezza verbale adottata da Draghi verso la Grecia?
«Ha sorpreso anche me. Credo che sia stata una mossa necessaria perché nel frattempo stava lanciando il quantitative easing al quale i Paesi nordici si oppongono. Draghi doveva far vedere agli oppositori che non stava facendo nessun regalo, e che chi non lo merita non avrà agevolazioni».



Barry Eichengreen. Noi e la Grecia

Attenti alle lezioni del passato: la storia non si ripete

di Michele Salvati Corriere La Lettura 8.3.15
Bibliografia
È uscito negli Stati Uniti in gennaio il saggio di Barry Eichengreen Hall of Mirrors. The Great Depression, The Great Recession, and the Uses — and Misuses — of History («La sala degli specchi. La Grande Depressione, la Grande Recessione e gli usi e abusi della storia»), edito da Oxford University Press, (pp. 520, $ 29,95). Nato nel 1952, Eichengreen insegna Economia e Scienza politica alla University of California, Berkeley. Un altro testo che paragona con efficacia la crisi attuale a quella degli anni Trenta è il libro a due voci di Anna Carabelli e Mario Cedrini Secondo Keynes. Il disordine del neoliberismo e le speranze di una nuova Bretton Woods (Castelvecchi, pp. 116, e 12) 


Siamo tutti preoccupati per la crisi greca, sia per le sofferenze che infligge a un Paese a noi caro, sia per i rischi che sta correndo l’intera costruzione dell’Unione economica e monetaria europea. È dunque comprensibile che l’attenzione dei politici e dell’opinione pubblica si concentri su questo «piccolo» caso e lo segua nella cronaca del giorno per giorno con una lente che ne svela ogni dettaglio: la cronaca, il dettaglio, possono fare la differenza tra una catastrofe non voluta e il rientro in una penosa «normalità».
La crisi greca è un caso estremo delle difficoltà europee a uscire dalla «Grande Recessione» originata dalla crisi finanziaria americana del 2007-2008, immediatamente trasferitasi all’Europa con un impatto economico devastante. A differenza degli Stati Uniti e dei Paesi dell’Unione Europea fuori dalla moneta unica, nei Paesi che l’hanno adottata il Pil reale, dopo il crollo del 2009, all’inizio del 2015 non ha ancora raggiunto i livelli del 2008 e assai peggiore è la situazione di alcuni di essi, tra i quali Paesi grandi come Italia e Spagna. Il «piccolo» caso greco non può dunque essere capito a fondo se non nel contesto della Grande Recessione.
Perché è esplosa una crisi così grave, paragonabile solo alla «Grande Depressione» degli anni Trenta del secolo scorso? E perché sembra essere così difficile uscirne, in specie per i Paesi europei che hanno adottato la moneta unica? Il grande merito dell’ultimo libro di Barry Eichengreen Hall of Mirrors (Oxford University Press) è quello di porsi questi interrogativi muovendosi da una sponda all’altra dell’Atlantico per confrontare Europa e America (e a volte attraversando il Pacifico, per analizzare il caso giapponese); spostandosi da un secolo all’altro per confrontare la Grande Depressione con la Grande Recessione; passando con grande competenza storica dall’analisi economica a quella politica; e riuscendo a inframmezzare l’analisi con brillanti medaglioni su episodi particolari e singoli protagonisti delle due grandi crisi: eroi, avventurieri, lestofanti.
Nonostante gli abbellimenti, i medaglioni istruttivi e divertenti, lo stile brillante, il massimo sforzo di farsi capire anche da lettori con competenze limitate di economia e ricordi vaghi di storia politica, il libro è impegnativo, perché l’analisi è seria e non viene banalizzata. E perché il messaggio che Eichengreen (economista dell’università californiana di Berkeley) vuole trasmettere ai suoi lettori non è semplice. Semplificandolo molto, riducendo un grande corpo (cinquecento pagine fitte) a un esile scheletro, esso si compone di due parti, legate insieme: una più analitica e metodologica, l’altra più interpretativa e più legata alle preoccupazioni contemporanee.
Veniamo alla prima. Comprendere l’origine e lo sviluppo delle grandi crisi di un ordine economico, politico e sociale così multiforme e mutevole come il capitalismo moderno è essenziale se si vuole evitare che esse si ripetano. Ma è difficile, per due principali motivi. È difficile perché, confrontando una crisi con l’altra distante nel tempo — la Grande Depressione con la Grande Recessione — il capitalismo non rimane lo stesso e i rimedi elaborati per superare la prima possono risultare non più efficaci per la seconda.
Negli Stati Uniti alle soglie della Grande Depressione il credito era sostanzialmente credito bancario e la lezione che si trasse dagli errori di allora condusse ai grandi progressi nella teoria monetaria e nell’organizzazione bancaria dei decenni successivi. Ma alle soglie della Grande Recessione buona parte del credito traeva origine dal sistema finanziario cui aveva condotto la deregolazione nella parte finale del secolo ed era fornito da un «sistema bancario ombra» ( shadow banking ). Controllare le banche non bastava più e il grande errore nella gestione della crisi finanziaria americana del decennio scorso — il mancato salvataggio della Lehman Brothers — è in buona parte dovuto alla mancata comprensione di quanto interconnesse fossero banche e istituzioni finanziare non bancarie.
Ed è difficile comprendere l’origine e lo sviluppo delle crisi perché non c’è un capitalismo, ma ci sono i capitalismi, sistemi economici incorporati in istituzioni nazionali tra loro difformi: i rimedi appropriati in un sistema politico e istituzionale — negli Stati Uniti, ad esempio — possono non esserlo in un altro, l’Europa dell’euro — per fare l’altro grande esempio. Gli Stati Uniti sono un Paese sovrano, l’epicentro del sistema finanziario mondiale; l’Europa dell’euro è un insieme di Stati semi-sovrani che hanno adottato un’unica moneta, ma ancora stentano a unificare i loro sistemi bancari e creditizi, per non dire dei loro sistemi fiscali: come scherzava Henry Kissinger, non c’è un singolo numero di telefono cui rivolgersi per informarsi su quali politiche perseguirà l’Europa.
Nonostante queste difficoltà gli economisti e i politici imparano, e hanno imparato molto dalla Grande Depressione degli anni Trenta del secolo scorso: basti ricordare il fondamentale contributo di John Maynard Keynes. Ma proprio perché imparano e hanno imparato, poiché sono riusciti a impedire che la Grande Recessione recente si trasformasse nella disastrosa Grande Depressione di ottant’anni prima, gli stimoli ad affrontare radicalmente le cause delle crisi possono attenuarsi prima del necessario, prima di averle estirpate alla radice: questa è la seconda parte del messaggio di questo libro, quella più rivolta alla situazione odierna.
Una volta passato il peggio, le pressioni degli interessi per il ritorno alla «normalità» — o meglio, alle pratiche precedenti alla crisi — si fanno sempre più forti e possono impedire riforme profonde: il presidente Barack Obama ha faticato molto a far passare il Dodd-Frank Act del 2010, una legge di riforma del sistema finanziario americano che va senz’altro nella giusta direzione, come eufemisticamente direbbero i politici. Ma ci va per un tratto troppo modesto: le grandi istituzioni finanziare, le banche d’investimento «troppo grandi per fallire» ( too big to fail ), e dunque capaci di ricattare i politici, sono ritornate più forti di prima.
In Europa la situazione è ancora peggiore perché ai contrasti e alle pressioni degli interessi economici e finanziari si aggiungono i dissidi e le incomprensioni dei diversi Stati nazionali che — anche se non vogliono passare a un vero Stato federale, anzi proprio perché non vogliono compiere questo passaggio — dovrebbero almeno coordinare strettamente le loro politiche economiche in un contesto di moneta unica. Cosa che si guardano bene dal fare.
Avevo iniziato dalla crisi greca e dalle preoccupazioni che essa suscita circa la tenuta dell’Unione economica e monetaria europea. Alla Grecia di oggi e all’Unione monetaria Eichengreen dedica analisi preoccupate e condivisibili nei capitoli finali del libro. Sono però sicuro che anche chi consulta Hall of Mirrors solo a questo scopo non riuscirà a fermarsi a essi: le analogie storiche con il soffocamento delle diverse economie nazionali prodotto dal Gold Standard tra le due guerre lo spingeranno a leggere i capitoli dedicati a questo sistema di cambio, e a come i diversi Paesi che l’avevano adottato finirono per abbandonarlo, alcuni, purtroppo, non prima di aver subito danni politici irreparabili.
La situazione è oggi profondamente diversa, come Eichengreen è il primo a sottolineare. Vero, ma almeno il Gold Standard era un sistema di cambi fissi tra monete diverse, da cui si poteva uscire con relativa facilità: dall’euro non si può uscire senza provocare una catastrofe economico-finanziaria. E se il lettore comincia a muoversi, a spostarsi dalle materie di suo immediato interesse, a sfogliare altre parti del libro, non ha che l’imbarazzo della scelta: tra un secolo e l’altro, tra un Paese e un altro, tra un ragionamento economico e una ricostruzione di storia politica. Cadrà sempre bene.
Conoscere la storia è indispensabile per capire l’economia. Ma derivare dalla storia lezioni semplici su come decidere in situazioni inevitabilmente diverse — diverse da quelle prese a modello — non è facile: anche se il lettore di questo libro portasse a casa soltanto un atteggiamento di cautela nei confronti di coloro che dalla storia pretendono di tirare lezioni, avrà fatto un grande passo avanti nella comprensione della storia, della politica e dell’economia.

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