giovedì 9 aprile 2015

Marxismo o "comunismo ermeneutico"? Filosofia della prassi o attivismo? Hegel o Fichte? Lukacs o Heidegger? Ancora su Vattimo-Zabala e non solo


A proposito del libro di Vattimo e Zabala scrivo così nel terzo capitolo di "Democrazia Cercasi" (pp. 262-268). Sono riflessioni che possono essere applicate anche a altre proposte che alimentano oggi il dibattito filosofico [SGA]:

"... Nonostante le provocazioni, non è il caso a mio avviso, per il Vattimo intenzionato a fare del pensiero debole un «pensiero dei deboli» al servizio del conlitto sociale, di chiamare in causa addirittura «il comunismo», se con questo termine si vuole intendere non una generica aspirazione utopistica ma un concreto insieme di rilessioni teoriche e di fenomeni storici [...] il “comunismo” o “cattocomunismo” di Vattimo è soprattutto una ribellione morale contro lo stato di cose esistenti, suscettibile di assumere di volta in volta i nomi più diversi: comunismo, anarchia, democrazia ma anche «autentico liberalismo»  [...] Si tratta in sostanza, di suscitare contro le «strutture economiche e politiche della nostra società» una serie di «fiammate di rivolta»; di dar vita a una «azione politica che fonda senza essere a sua volta fondata». 
Siamo di fronte, come si può vedere, a un appello 
all’engagement che chiama alla «alterazione e distruzione dell’ordine stabilito» e che presenta forti accenti fichtiani o sartriani (e dunque attivistici, soggettivistici e persino individualistici) ed è molto lontano dalla linea hegelo-marxiana. E nel quale il richiamo alla tradizione comunista e quello al conservatorismo rivoluzionario di Heidegger diventano, paradossalmente, fonti equivalenti.
Vattimo parla a più riprese della «vicinanza di Heidegger a Marx» o della necessità di un «accostamento di Marx e Heidegger». Riconduce il fallimento del marxismo al suo essere stato «inquadrato all’interno della tradizione metaisica» 
e alla pretesa di fondare il processo rivoluzionario 
su «basi scientiiche e razionali». Al suo essere stato «scientiico» piuttosto che «utopistico», «rivolto alla conoscenza» piuttosto che «romantico»  [...] Ma proprio la sconfitta del progetto comunista storico, la «perdita del potere effettivo», determina oggi e inalmente anche il venir meno delle sue «pretese metaisiche», prima fra tutte «l’ideale dello sviluppo». Ed ecco che a questo punto si può parlare di un «progetto di emancipazione dalla metaisica» condiviso da Marx e da Heidegger  [...] E proprio «come Heidegger» noi dovremmo prendere posizione e combattere, a partire dalla distruzione della «storia “continua”» (HC 40-2 e 55) e «statica» (il progresso entro e del medesimo ordine), da sostituire con l’idea di una storia «discontinua» e cioè «avviluppata in interruzioni, emergenze e alterazioni» [...].
Questa idea secondo la quale la rivolta emancipatrice contro il reale (e cioè contro ciò che è meramente esistente)  [...] possa essere assimilabile alle motivazioni più profonde della ilosoia di Heidegger   [...]  è del tutto fuorviante e confusionaria sul piano politico, perché Heidegger contestava sì l’oggettivismo metaisico, che è certamente il correlato paradigmatico dell’industrializzazione e del capitalismo, ma lo faceva dal punto di vista della Rivoluzione conservatrice. E aveva dunque orrore del ruolo autonomo delle masse in politica, credeva in una funzione spirituale della guerra, affermava l’esistenza di precise gerarchie sociali e tra i popoli, etc. etc.Il marxismo dell’epoca, così come più tardi il francofortismo, contestavano invece l’organizzazione totale e l’alienazione (e niente affatto l’oggettivismo o l’oggettivazione del soggetto tramite il lavoro) per motivi del tutto diversi, a partire soprattutto dalla condanna radicale della guerra e della carica di violenza e mobilitazione totale che essa – certo anche grazie alla diffusione della scienze e della tecnica – comportava. Oppure per il dispotismo che la società capitalistica esercitava a partire dal controllo dell’oggetto del lavoro. E proponevano, inoltre, percorsi e 
soluzioni del tutto diverse, che certamente sono state 
realizzate male ma che contrastavano già in linea di principio con le posizioni di chi, come Heidegger, contestava a monte l’idea dell’eguaglianza tra gli uomini ed era molto scettico (per usare un eufemismo) sull’emancipazione del lavoro.
Confondere questi due atteggiamenti in un concetto formalistico di rivolta o di rivoluzione signiica che c’è una più profonda confusione su ciò che deve essere contestato: si tratta della società capitalistica e dello sfruttamento che inevitabilmente questa associa ai fenomeni progressivi? O si tratta della modernità in quanto tale, accusata di essere in se stessa un ambito di alienazione? Si tratta di operare una negazione determinata oppure di auspicare una indeinita palingenesi? Si contesta l’unilateralità della ragione strumentale oppure il logos in quanto tale e la produzione sociale e lo sviluppo delle forze produttive, in quanto inevitabili conseguenze del primato della ragione e del lavoro?...".

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La metafisica non vince maiScaffale. Il «Comunismo ermeneutico. Da Heidegger a Marx» di Gianni Vattimo e Santiago Zabala: perché il sistema capitalistico, supportato da una scienza triste, ha sconfitto il marxismo? 

Paolo Ercolani, il Manifesto 9.4.2015
La genesi della teo­ria comu­ni­sta, almeno nella forma in cui è stata ela­bo­rata da Marx, è il frutto di tutta una serie di «supe­ra­menti» sostan­zial­mente tesi a spo­stare il bari­cen­tro dell’attenzione dalle altezze ete­ree delle astra­zioni spe­cu­la­tive alla mate­ria­lità con­flit­tuale del mondo umano.


In tale dire­zione vanno letti tanto l’affrancamento da ogni forma di divi­nità, quanto il ribal­ta­mento dell’idealismo hege­liano e anche l’oltrepassamento del falso mate­ria­li­smo di Feuer­bach, bravo a sma­sche­rare il fon­da­mento mate­riale della reli­gione ma non a dedurne la cen­tra­lità dell’effettiva prassi umana allo scopo di supe­rare le ingiu­sti­zie del mondo terreno. 

A fronte di ciò si può com­pren­dere quanto il pen­sa­tore di Tre­viri ver­gava nelle Tesi su Feuer­bach: «La que­stione se al pen­siero umano spetti una verità ogget­tiva non è una que­stione teo­re­tica bensì una que­stione pra­tica tutta la vita sociale è essen­zial­mente pra­tica». Con­cetto nodale e diri­mente sfug­gito sino a quel momento ai filo­sofi, che si erano limi­tati a inter­pre­tare diver­sa­mente il mondo quando in realtà si trat­tava di trasformarlo. 

Un’intuizione dirom­pente che nes­suno meglio di Gram­sci avrebbe siste­ma­tiz­zato gra­zie al con­cetto di filo­so­fia della prassi: tanto la teo­ria è ste­rile se non ela­bo­rata in vista di azioni con­crete quanto la prassi si rivela cieca e disor­ga­nica senza il rife­ri­mento a una teo­ria coe­rente. Occorre evi­tare l’esercizio spe­cu­la­tivo ona­ni­stico, per­fet­ta­mente incline a lasciare immu­tati gli squi­li­brati rap­porti di forza materiali. 

Già, ma allora si impone una domanda ine­vi­ta­bile: per­ché il comu­ni­smo, volendo tra­sfor­mare le con­di­zioni reali della mag­gior parte degli oppressi, per di più armato di un’arma teo­re­tica così potente e coe­rente, è stato sono­ra­mente scon­fitto da quel sistema capi­ta­li­stico che, per di più, viene sup­por­tato da una «scienza triste»? 
La rispo­sta di Vat­timo e Zabala è netta: per­ché il mar­xi­smo non ha saputo uscire dall’orizzonte meta­fi­sico in cui si è baloc­cato tutto il pen­siero filo­so­fico fino a Nie­tzsche. Ogget­ti­vando il reale, pre­ten­dendo di poter con­se­guire una verità certa e obiet­tiva, si è con­fi­gu­rato come un sistema che, lad­dove rea­liz­za­tosi e rea­liz­zan­tesi, in nulla sarebbe stato pre­fe­ri­bile al sistema capitalistico. 
Il pen­siero meta­fi­sico è pro­prio dei forti, scri­vono i due stu­diosi, ossia di coloro che deten­gono il potere e pre­ten­dono di affer­mare lo sta­tus quo come la realtà ogget­tiva da cui non è pos­si­bile scostarsi. 
L’unica alter­na­tiva per­cor­ri­bile risiede in un «comu­ni­smo erme­neu­tico» in cui l’apporto di Nie­tzsche e Hei­deg­ger (con­tro gli idoli del pen­siero meta­fi­sico e delle pre­sunte verità ogget­tive) inte­gri il mate­ria­li­smo sto­rico di Marx, inde­bo­lendo la nostra «forma men­tis ogget­ti­vi­stica» e, per esem­pio, get­tando uno sguardo curioso verso gli espe­ri­menti di vera demo­cra­zia popo­lare che pro­ven­gono dai paesi latino-americani (sulla scia di Chá­vez).


Con­vin­cente? Poco. Più che altro senza alter­na­tive cre­di­bili, al momento, né forti né deboli.



Il realismo sudamericano ci salverà 

Intervista. Un incontro con Gianni Vattimo, autore insieme a Santiago Zabala del libro «Comunismo ermeneutico. Da Heidegger a Marx», uscito per Garzanti. Un'analisi spregiudicata tra politica e filosofia
Paolo Ercolani, il Manifesto 9.4.2015
Il senso comune sug­ge­ri­sce che, a volte, un aned­doto si riveli più elo­quente di cen­ti­naia di pagine in cui cam­peg­giano raf­fi­na­tis­sime ana­lisi filo­so­fi­che.

Sarà per que­sto che, a leg­gere il nuovo libro di Gianni Vat­timo e San­tiago Zabala (Comu­ni­smo erme­neu­tico. Da Hei­deg­ger a Marx, Gar­zanti, pp.181, euro 22), torna alla mente l’episodio di Marx con la signora Kugel­mann, la moglie del noto gine­co­logo che ospitò il filo­sofo a casa sua, per alcuni mesi, dopo che aveva ulti­mato la ste­sura del primo libro del Capitale.Tro­van­dosi tutti insieme a tavola, si narra che un ospite avesse pun­zec­chiato la «vec­chia Talpa» pro­vo­can­dolo con una domanda su chi avrebbe luci­dato le scarpe nella società comu­ni­sta. «Lei, natu­ral­mente!», lo ful­minò Marx.

La signora Kugel­mann, per stem­pe­rare il clima, com­mentò scher­zo­sa­mente che non riu­sciva a imma­gi­narsi Marx in una società vera­mente egua­li­ta­ria, visti i suoi gusti e le sue abi­tu­dini così ari­sto­cra­tici. «Nem­meno io», fu la rispo­sta del filo­sofo tede­sco, «quell’epoca verrà ma noi non ci saremo più!». Ne par­liamo con Gianni Vat­timo.

Nel libro viene pro­po­sta un «comu­ni­smo erme­neu­tico» come deri­va­zione del socia­li­smo boli­va­riano. Chá­vez e il Vene­zuela eredi di Castro e Cuba, insomma… Ma è rea­li­stico?

Il richiamo ai lati­noa­me­ri­cani, anche se non si limita alla dedica del libro, non è però l’indicazione di un modello poli­tico che si voglia appli­care alle nostre con­di­zioni euro­pee. È piut­to­sto una sem­plice allu­sione alla pos­si­bi­lità, oggi, di un ordine diverso da quello capi­ta­li­stico ed euro-atlantico. Come a dire: guar­date che un mondo diverso è pos­si­bile, si è rea­liz­zato e si sta ancora rea­liz­zando là dove non sem­brava potersi tro­vare. Se vuoi, è una spe­cie di pre­oc­cu­pa­zione «rea­li­stica» quella che cer­chiamo di espri­mere con quei richiami. E non solo: che esi­sta e si con­so­lidi un socia­li­smo lati­noa­me­ri­cano è deci­sivo per noi anche a livello mon­diale. Solo se appare sulla scena un com­plesso di paesi anti­ca­pi­ta­li­stici che bilan­cino, anche in sede di Onu, il potere delle mul­ti­na­zio­nali ancora sem­pre basate nell’Occidente «atlan­tico», è vero­si­mile che l’Europa si scuota di dosso il domi­nio euro-americano-bancario che la soffoca. 
Le «misio­nes» instau­rate da Chá­vez (gruppi di cit­ta­dini volon­tari che affian­cano l’amministrazione pub­blica in set­tori nevral­gici, «ndr»), che hanno entu­sia­smato per­so­na­lità come Chom­sky e Oli­ver Stone, sem­brano rac­con­tare di una par­te­ci­pa­zione popo­lare fat­tiva, ben al di là dei miti popu­li­stici dei nostri lidi. Dei Soviet del XXI secolo?
Le misio­nes ci sem­brano feno­meni esem­plari per­ché sono il modo in cui Chá­vez ha rea­liz­zato una pro­fonda tra­sfor­ma­zione dello stato, senza sca­te­nare una lotta san­gui­nosa con­tro le vec­chie buro­cra­zie: ha loro affian­cato, come ausi­lio, sti­molo, forse anche forma di con­trollo, una sorta di «bri­gate» popo­lari. Direi per­sino che era lo scopo che si pre­fig­geva la «rivo­lu­zione cul­tu­rale» cinese, comun­que sia poi finita. E molto più sem­pli­ce­mente offrono l’esempio di una pos­si­bile par­te­ci­pa­zione demo­cra­tica al governo di un paese che non si riduca ad andare alle urne una volta ogni cin­que anni. È vero che in paesi come il Vene­zuela o altre nazioni lati­noa­me­ri­cane ci sono tra­di­zioni comu­ni­ta­rie diverse e più vive che da noi. Dun­que, l’esempio delle misio­nes o di forme di par­te­ci­pa­zione simili deve essere con­si­de­rato con pru­denza e con­sa­pe­vo­lezza delle dif­fe­renze. Ma non pos­siamo negare che anche qui c’è qual­che sug­ge­stione valida per la nostra demo­cra­zia così asfit­tica.
Il vostro «comu­ni­smo erme­neu­tico» nasce da una filo­so­fia anti­rea­li­sta che non vuole fon­darsi sulla «verità dei fatti». Per­ché, scri­vete, que­sta pre­sunta realtà è mani­po­lata dai media del main­stream, vero oppio dei popoli della nostra epoca. Siamo di fronte a una nuova appli­ca­zione del «pen­siero debole»?
L’attributo «erme­neu­tico» che accom­pa­gna il comu­ni­smo nel titolo del libro ha anzi­tutto il senso di togliere l’illusione e la pre­tesa del socia­li­smo «scien­ti­fico». Non cre­diamo affatto che l’economia mar­xi­sta sia scien­ti­fi­ca­mente migliore di quella bor­ghese del capi­ta­li­smo, anche per­ché la stessa idea di una eco­no­mia poli­tica come «scienza» con gli attri­buti di ogget­ti­vità e di spe­ri­men­ta­lità, che una scienza moderna dovrebbe avere, è già un mostro ideo­lo­gico. Que­sto lo sapeva bene anche Marx. Il quale però con­ti­nuava a col­ti­vare l’idea posi­ti­vi­stica, sostan­zial­mente, che la sua dot­trina, almeno come filo­so­fia della sto­ria, avesse una qual­che cor­ri­spon­denza con la realtà del mondo. Ma essendo un hege­liano, sia pure con i piedi per terra, non poteva vederla dav­vero in que­sto modo. Che solo il pro­le­ta­riato espro­priato, secondo lui, potesse cogliere e attuare il vero senso della sto­ria mostra che anche lui stava più dalla parte dell’ermeneutica che da quella del «rea­li­smo» vec­chio o nuovo. E, in defi­ni­tiva, è vero che il comu­ni­smo erme­neu­tico è una decli­na­zione poli­tica del pen­siero debole: non ci sono fatti, solo inter­pre­ta­zioni, secondo la più scan­da­losa affer­ma­zione di Nie­tzsche, per il quale però «anche que­sta è un’interpretazione».
Marx e Hei­deg­ger sono i teo­rici ispi­ra­tori della vostra pro­po­sta. Ma il primo era un razio­na­li­sta dell’oggettività e per nulla un erme­neuta. Il secondo, in com­penso, ripren­deva l’empito ari­sto­cra­tico già pro­prio di Nie­tzsche. Come con­ci­liarli in un pro­getto rea­li­sti­ca­mente inno­va­tivo?
I nostri filo­sofi di rife­ri­mento, non solo Marx e Hei­deg­ger ma anche Nie­tzsche, Rorty, e Schür­mann, sono figure da «inter­pre­tare». Lasciamo qui da parte Marx, ma certo Nie­tzsche e Hei­deg­ger sono per­so­naggi con­flit­tuali che noi ripren­diamo con­sa­pe­voli delle loro pro­ble­ma­ti­cità. Entrambi hanno un peso deci­sivo in quanto teo­rici della moder­nità come avvento del nichi­li­smo.
La sto­ria del nichi­li­smo come pro­cesso di dis­so­lu­zione pro­gres­siva della «ogget­ti­vità» a favore di un mondo sem­pre più ine­stri­ca­bile dai sog­getti, indi­vi­dui e gruppi, che lo abi­tano, lo tra­sfor­mano e lo mani­po­lano — in altre parole: che lo inter­pre­tano — per il quale è la sola filo­so­fia della sto­ria capace di soste­nere il nostro «comu­ni­smo erme­neu­tico». Sia Nie­tzsche, sia Hei­deg­ger, sono letti qui in con­tra­sto con la vul­gata, che fa dell’uno un ante­si­gnano del nazi­smo e dell’altro, nel migliore dei casi, un fumoso mistico con­vinto di ascol­tare la voce dell’Essere. Natu­ral­mente, leg­giamo l’uno e l’altro senza alcuna pre­tesa di ogget­ti­vità sto­rio­gra­fica, nean­che le loro opere sono «fatti». Il pro­getto che per­se­guiamo con que­sto lavoro teo­rico del resto, non chiede certo di essere discusso come una pro­po­sta sto­rio­gra­fica.
Due radici euro­pee, insomma, per pro­porre un comu­ni­smo erme­neu­tico che sem­bra rivol­gersi a terre lon­tane (il Suda­me­rica), rispetto alle quali noi sem­briamo quella civiltà al tra­monto paven­tata da Hei­deg­ger. È così?
Dici che guar­diamo a terre lon­tane, come se fos­simo coscienti di tro­varci in una civiltà al tra­monto? Occi­dente, Abend-land..? Que­sto Occi­dente non sem­bra affatto ras­se­gnato a tra­mon­tare, anzi diventa sem­pre più aggres­sivo. Ma certo, dato quel che è stato e che è diven­tato finora, sem­bra un ragio­ne­vole segno di vita­lità cer­care la sal­vezza fuori di esso. Aspet­tando i barbari?

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