venerdì 22 maggio 2015

Decisionismo astratto come crisi della democrazia

Riporto un brano da "Democrazia Cercasi", che converge con quanto dice Urbinati  [SGA]

5. Vittoria e declino del mondo del lavoro

Questo scenario di progresso, che ho appena descritto come un processo di ascesa della democrazia moderna, è lo stesso che nel 1975 motivava Michel J. Crozier, Samuel P. Huntington e Joji Watanuki a indirizzare alla Commissione trilaterale un celebre rapporto dal titolo «La crisi della democrazia». Nel quale veniva lamentato un eccesso ingestibile di democrazia moderna e ci si interrogava sulla sua possibile «governabilità»[1], fornendo indicazioni puntigliose sulle modalità di una sua riduzione allo stato minimo.
É un segnale importante. Al di là delle sciocchezze paranoiche sul «piano del capitale», è in questo momento, infatti, che nel cuore della storia e dei suoi rapporti di produzione matura un repentino rovesciamento dialettico sollecitato da interessi oggettivi. Proprio il riequilibrio dei rapporti di forza e l’avanzata imponente delle classi subalterne che abbiamo appena visto sollecita il capitalismo mondiale a cambiare, a modernizzarsi e compiere un salto di qualità. Entrando in una fase evolutiva nuova e dando avvio ad un «processo di transizione»[2] che ci porterà presto molto lontani dal fordismo. Nel momento in cui sembra costretto a sempre più ampie concessioni politiche e sociali, dunque, questo sistema di relazioni si sta in realtà trasformando molecolarmente e si sta rilanciando su un nuovo piano. Simultaneamente, nel momento in cui la classe operaia ha ottenuto il riconoscimento e sembra aver raggiunto la propria massima potenza politica e rivendicativa è già cominciato il suo declino.
In virtù del proprio stesso meccanismo di accumulazione, dalla metà degli anni Settanta il capitale reagisce alla sfida operaia per la piena inclusione delle masse e per il loro accesso alla modernità. Una sfida che in Italia, ad esempio, aveva saputo dar vita ad un lungo ciclo di lotte e che già nel decennio precedente era arrivata a porre la questione del controllo dei lavoratori sul ciclo produttivo[3]. Anche sull’onda della recessione e della crisi energetica, la direzione strategica delle imprese capitalistiche si dimostra in grado di operare una ristrutturazione complessiva che comporterà un’impetuosa trasformazione dei rapporti di produzione e delle forze produttive, mutando integralmente il panorama sociale e la fase storica[4].
La sottomissione reale della ricerca e della conoscenza scientifica – il cui esito ultimo, in seguito al cosiddetto Bologna Process, si riversa oggi nelle università europee con la totale subordinazione del sapere umanistico e della ricerca di base alle esigenze di riorganizzazione capitalistica[5] - conduce ad uno sfruttamento industriale intensivo del macchinismo e all’espulsione dal ciclo di milioni di lavoratori. La società ne risulta d’un tratto stravolta perché il lavoro liberato dalle macchine non “finisce” né si tramuta in una riduzione dell’orario di lavoro generalizzata ma si riversa nel settore terziario e nei servizi, iniziando un’opera di divisione e frastagliamento delle classi lavoratrici che è ancora pienamente in corso. Ma il controllo e l’uso capitalistico della conoscenza, che genera ampi strati di lavoro autonomo parasubordinato in cui è forte l’incidenza dell’elemento intellettuale, cognitivo e persino emotivo-relazionale, è palese anche nella rivoluzione informatica, che a partire da quel momento sarà una delle basi materiali della complessiva ristrutturazione «postfordista» dell’apparato produttivo sia delle merci, sia, attraverso molteplici mediazioni, della coscienza sociale[6].
É uno di quei momenti-chiave nell’evoluzione di un modo di produzione in cui, come sostiene David Harvey, si determina dapprima inavvertita una «compressione spazio-temporale»[7]. Una brusca accelerazione all’interno dell’orizzonte di senso vigente che, a partire da riaggiustamenti nella base materiale, muta la stessa percezione della realtà. Le forme di coscienza sociale si adeguano alle nuove condizioni della riproduzione e compiono così un salto, sfociando nella dimensione individualistica e spettacolarizzata del «postmoderno».
Si tratta di una fase controversa e ancora in gran parte da studiare. Al cui interno i fattori strutturali (scomposizione del ciclo produttivo, rimodellamento della forza-lavoro, esternalizzazioni, delocalizzazioni, precarizzazione, finanziarizzazione del capitale…) sono certo importanti ma per il cui esito il ruolo decisivo è comunque giocato, come sempre accade nella storia, dall’elemento politico.
Le debolezze del movimento comunista internazionale, anzitutto, irrigiditosi e incapace di fronteggiare la questione nazionale in Europa orientale e ai confini tra Urss e Cina ma anche di uscire da quella spirale perpetua tra utopismo ideologico e stato d’eccezione permanente che aveva bloccato la costruzione di un sistema politico “normale” e regolato[8]. L’impotenza de facto dei partiti operai occidentali, cui era per definizione precluso minacciare i limiti stabiliti dall’ordine di Yalta, pena il passaggio dello Stato borghese sul terreno della repressione diretta, della strategia della tensione e dell’eversione dello stesso ordine liberaldemocratico. Ma anche la cosiddetta «globalizzazione» – che va distinta dal normale e progressivo processo di «mondializzazione» - è stata, a guardar bene, una precisa strategia politico-economica atlantista: un progetto che nel corso del secondo dopoguerra, attraverso l’istituzione di un’aggressiva area di libero scambio occidentale a base Nato, garantisce la solidarietà internazionale anticomunista e favorisce la stabilità dei paesi “liberi”[9]. Quale sovranità e dunque quale autentica libertà di scelta politica hanno, del resto, paesi come l’Italia, che ospitano arsenali nucleari ed eserciti stranieri e si configurano come semicolonie o protettorati?
Ma certamente – come vedremo - un peso importante in questi processi di mutazione ha avuto anche la dimensione culturale, la trasformazione delle forme di coscienza sollecitata dall’oggettività. In questo senso, decisivo e anch’esso ancora poco indagato in quest’ottica è il ruolo giocato dal ciclo di contestazione 1968-’77 nel favorire involontariamente - attraverso lo svecchiamento delle gerarchie generazionali, l’affermazione del ruolo della coscienza e dei bisogni individuali, la rivendicazione del desiderio e dell’accesso ai consumi – non già la rivoluzione comunista o addirittura l’egualitarismo maoista declamato nelle assemblee e nei cortei ma la diffusione di una «morale liberale» e la modernizzazione sentimentale di una società borghese che si appresta a diventare post-industriale, fornendole i materiali che altri utilizzeranno distorcendoli[10].
Proprio questo processo, semmai, e non certo la partecipazione dei partiti delle classi subalterne alla costruzione della democrazia moderna nei tre decenni successivi alla Seconda guerra mondiale, mi sembra aver costituito la vera dorsale della «rivoluzione passiva» che ha cambiato lo scenario attorno a noi, nonostante quanto sostengono certe tendenze settarie. É stato un processo impetuoso che ha mutato il volto del nostro paese nel corso di pochi anni[11]. La promulgazione dello Statuto dei lavoratori nel 1970, la grande avanzata del Pci nel 1975-’76 e poi, subito dopo, la solidarietà nazionale e la stagione terroristica: in un decennio oscuro e tormentato, nel quale il conflitto è stato tremendo sia alla luce del sole della sfera pubblica che nell’oscurità delle trame che si dipanavano sotto di essa, la parabola del movimento operaio in Italia giunge al termine della sua fase ascendente e si avvia sulla china di una progressiva discesa, inaugurata dalla sconfitta del 1980 alla Fiat e da quella del 1985 nel referendum sulla scala mobile promosso dal Pci (un referendum che si tiene quando Berlinguer è già morto e con l’ostilità esplicita della Cgil di Luciano Lama).
Sono due segnali inequivocabili del fatto che qualcosa è inavvertitamente cambiato sotto la superficie delle cose. Che la fase è ormai diversa. Che i rapporti di forza tra le classi hanno subito un ulteriore riaggiustamento sostanziale e la tendenza storica si è invertita.


[1] Crozier, Huntington, Watanuki 1977. Cfr, Burgio 2009, p. 56.
[2] Mastropaolo 2011, p. 56.
[3] Le Sette tesi sulla questione del controllo operaio di Raniero Panzieri e Lucio Libertini appaiono su “Mondo Operaio” già nel 1956 mentre i “Quaderni rossi” cominciano a uscire nel 1961.
[4] Cfr. Vasapollo 2003.
[5] Roggero 2010.
[6] Su questa complessa trasformazione sono stati ormai scritti innumerevoli lavori, che hanno spesso fornito interpretazioni diverse e contrastanti. Mi limito a citare Gorz 1992; Ingrao - Rossanda 1995; Revelli 1997; Rullani-Romano 1998; Rifkin 2000; Negri,-Hardt 2002; Vercellone 2006; Cremaschi 2010.
[7] Harvey 1993, pp. 186, 234, 348-9, 397 sgg.
[8] Cfr. Losurdo 1996b, Premessa.
[9] Cfr. Azzarà 1999; Burgio 2009, p. 74 sgg.
[10] Cfr. Preve 1994, pp. 53, 183 sgg.
[11] Cfr. Burgio 2009, p. 48 sgg.

I rischi di chi decide senza deliberare
di Nadia Urbinati Repubblica 22.5.15
LA CRISI economica ha cambiato il carattere e lo stile delle democrazie europee. Ha messo in discussione il rapporto tra deliberare e decidere facendo pendere il piatto della bilancia dalla parte degli esecutivi, come ha ricordato Marc Lazar su questo giornale. L’amichevole inimicizia tra deliberazione e decisione è proverbiale nella democrazia, che i detrattori hanno per secoli identificato con la perdita di tempo in chiacchiere, il troppo deliberare e poco decidere. Queste sono le opinioni ingenerose e non provate dei suoi detrattori. La decisione nelle democrazie è un momento finale, mai ultimo, di un processo deliberativo al quale partecipa, direttamente e indirettamente, un numero ampio di soggetti, singoli e collettivi. Nei governi rappresentativi la deliberazione è un gioco complesso che si avvale sia della selezione dei rappresentanti sia di un rapporto permanente del Parlamento con la molteplicità delle opinioni che animano la società. Se le elezioni concludono temporaneamente il flusso deliberativo, la discussione non è tuttavia mai interrotta né lo sono la riflessione ragionata del pubblico e l’influenza che i cittadini cercano di esercitare sulle istituzioni. La deliberazione non ostacola o ritarda la decisione, quindi, ma la incalza, la prepara e la cambia.
I pensatori democratici si trovano in disaccordo sull’intensità di questa tensione e sull’ampiezza dell’apporto deliberativo a elezioni concluse. Quarant’anni fa, nel 1975, la Commissione Trilaterale (ispirata da Samuel Huntington) pubblicava il suo primo rapporto sulla “governabilità” nei Paesi occidentali dal titolo eloquente, “La crisi della democrazia”. Il rapporto diceva, in sostanza, che la governabilità è messa a rischio dalla troppo ampia deliberazione, dai movimenti per i diritti civili e sociali e dalle richieste che questi rivolgono ai governi, i quali per mantenere il consenso dei cittadini sono indotti ad ampliare il loro intervento sociale così da generare una spirale di nuove richieste. Secondo Huntington, gli Stati democratici stavano perdendo autorità a causa del peso troppo forte rivendicato dal pluralismo sociale: era questa la crisi di governabilità decretata dalla Trilaterale, che suggeriva agli Stati occidentali (soprattutto quelli a democrazia parlamentare) di rafforzare gli esecutivi, deprimere lo stato sociale, contenere la contestazione e i movimenti. “Eccesso di democrazia” era il problema: come nel mercato così anche nella politica, un’alta partecipazione era indice di un forte bisogno; ma contrariamente al mercato, in politica questo attivismo era segno di instabilità. All’opposto stava l’apatia, indice di soddisfazione.
La concezione deliberativa della democrazia, associata a Jürgen Habermas e alla teoria critica francofortese, prese corpo proprio in quegli anni, discutendo sul significato della “crisi” e della governabilità, e contestando la visione minimalista del processo decisionale. Deliberare era più che votare; aveva un significato ampio, proprio come i critici della Trilaterale avevano temuto: la decisione per Habermas è una conclusione temporanea di un processo al quale in modo diretto e indiretto partecipa una pluralità di attori sociali e politici. Una società civile vibrante e non apatica è il segno non di una crisi di governabilità ma di una forte legittimità del sistema perché la decisione, ottenuta comunque a maggioranza, viene percepita da tutti non come un esito divisivo di una parte contro l’altra.
In Europa, la visione deliberativa ha caratterizzato la natura della democrazia nei decenni a partire dagli anni Settanta, mettendo a segno importanti risultati in termini di politiche sociali nazionali e di impulso alla costruzione dei trattati costituzionali dell’Unione Europea. Il suo declino, che la crisi economica ha accelerato, corrisponde oggi a un’impennata della volontà decisionale degli esecutivi sia nazionali che comunitari, e a un desiderio di allentare i lacci imposti dalla deliberazione, parlamentare e sociale, e di alleggerire l’impegno dei governi nelle politiche sociali. A livello europeo, questo cambio di passo è stato impresso dalla pratica dei trattati inter-governativi che hanno depresso la consuetudine comunitaria e, nello stesso tempo, esaltato il ruolo degli esecutivi degli Stati. La sterzata verso un federalismo di e tra esecutivi, con credenziali democratiche deboli, ha avuto un effetto a valanga negli Stati membri. La crisi sembra rilanciare il progetto della Trilaterale, dunque. Mette al tappeto la democrazia deliberativa decretando la centralità del potere di decisione dei governi centrali. Si tratta di vedere se la democrazia decisionista ci darà più efficienza nel rispetto dei fondamenti democratici, meno sprechi e meno corruzione, come promette di fare. 

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