sabato 23 maggio 2015

Il professor Golpe Democratico festeggia la vittoria sullo storicismo gramsciano seduto su un cumulo di macerie

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Alberto Asor Rosa: Scrittori e popolo 1965. Scrittori e massa 2015, Einaudi, pagg. 432, euro 32

Risvolto
Rimanendo fedele a un metodo critico sempre attento all'individuazione di temi, linguaggi e forme, Asor Rosa isola ciò che non c'è piú e ciò che è profondamente mutato, rintracciandolo nelle narrazioni di quegli scrittori che ancora vogliono e sanno raccontare il disagio del nostro tempo senza storia e identità.

In Scrittori e popolo Asor Rosa ricostruiva il quadro storico dello sviluppo del tema populista nella letteratura italiana del Novecento, demistificando alcuni dei «luoghi comuni» di quella cultura, riassumibili nella valorizzazione mitica del «popolo» da un punto di vista piccolo-borghese, una peculiarità dei gruppi intellettuali italiani ereditata dall'Ottocento. Oggi molti aspetti delle vecchie stratificazioni sociali sono andati perduti, le élite intellettuali hanno perso il loro ruolo egemonico e al «popolo» si è sostituita la «massa». Sono di conseguenza cambiate le strutture primarie del sapere, della conoscenza e della creazione artistica e letteraria. L'ampia generazione di scrittori nati dopo il 1960 ha per lo piú smesso di dialogare con la tradizione, rinchiudendosi in un atomismo individualistico. A questo paesaggio magmatico, l'autore cerca di dare ordine ed espressione in Scrittori e massa. Rimanendo fedele a un metodo critico sempre attento all'individuazione di temi, linguaggi e forme, Asor Rosa isola ciò che non c'è piú e ciò che è profondamente mutato, rintracciandolo nelle narrazioni di quegli scrittori che ancora vogliono e sanno raccontare il disagio del nostro tempo senza storia e identità.                           

Siamo rimasti senza scrittori e senza popolo
Intervista ad Alberto Asor Rosa. Torna il suo celebre saggio. Con un sequel
di Simonetta Fiori Repubblica 23.5.15
CINQUANT’ANNI fa con Scrittori e popolo fece piangere i mostri sacri della sinistra intellettuale. Oggi con Scrittori e massa, che praticamente ne è un sequel, non fustiga più nessuno. O meglio, non fustiga più nessuno in particolare, forse per mancanza sia degli autori che del popolo. Alberto Asor Rosa ridacchia in un angolo della sua luminosa casa di Borgo Pio, determinato a non accettare provocazioni. «Il popolo non c’è più, sostituito dalla massa. Ma gli scrittori resistono, altrimenti non avrei scritto il nuovo libro».

Certo fa effetto leggere tutto di filato l’ opus maximum del 1965, un attacco radicale alle fondamenta gramsciano-storiciste del sistema culturale italiano, e il lavoro successivo dedicato al grande mutamento. In un unico volume (Scrittori e popolo 1965. Scrittori e massa 2015, Einaudi) è racchiusa la storia culturale di questo paese, incluso il terremoto degli ultimi decenni. Con qualche risultato paradossale, che attiene alla biografia di Asor.
Irriverente, severo, anche un po’ aggressivo con Pasolini e Calvino, Vittorini e Pavese. E rispettoso, attento, misurato con Piccolo, Scurati e Veronesi, per citare tra i più famosi. Professore, che succede?
«Una prima spiegazione è anagrafica: al giovane spregiudicato e ribelle è subentrato un vecchio rispettoso del suo prossimo, per un fatto biologico. E poi m’è parso che nei confronti degli scrittori più recenti fosse più opportuno un atteggiamento di comprensione ».
Perché?
«Sono stati meno fortunati della nostra generazione. A 30, a 40, forse anche a 50 anni, non beneficiano di nessuna delle condizioni positive di cui abbiamo beneficiato noi. Nessuno di loro gode del sostegno di una società letteraria ormai dissolta».
Devono cavarsela da soli.
«Può sembrare paradossale, ma nella società di massa ognuno è costretto a cercare da sé. E nell’assenza di aggregati culturali si riempie il vuoto con una rete di relazioni private. Pensi a quel nuovo genere letterario che è il ringraziamento. Alla fine di ogni romanzo compaiono tabulae gratulatorie di impressionante ampiezza: compagni di vita, editor, amicizie varie. Ma quando mai Moravia o Calvino hanno ritenuto di dover ringraziare qualcuno?».
E in questa nuova rete l’editor diventa signore assoluto.
«Il rapporto tra autore e redazioni editoriali s’è fatto sempre più stretto e il compito di entrambi mi sembra sia quello di costruire trame che piacciano al pubblico. Naturalmente il rapporto con il mercato non è sempre così meccanico. Però mi convince l’analisi di Emanuele Trevi: la letteratura ha smesso di pensare. E l’unico compito che lo scrittore si assegna è lo story teller ».
Oggi la parola narrazione ha assunto una centralità ossessiva.
«Anche nella politica. E la narrazione deve soddisfare determinati criteri, che sono nel segno della normalizzazione».
È interessante la sua analisi: l’elemento che caratterizza la generazione di scrittori nati dal 1960 in poi è la rottura con la tradizione. La ignorano, non la conoscono.
«Hanno scavato un fossato rispetto alle generazioni precedenti. Fino a qualche tempo fa gli scrittori spendevano parte della ricerca nel confrontarsi con chi era venuto prima. Pasolini, Fortini e Calvino — gli ultimi tre classici — radicano la loro novità su una riflessione intorno al passato. Poi c’è stata la generazione degli eredi, ancora immersi nel clima culturale precedente: Cerami e Tabucchi, Starnone e Busi, Tondelli e Mari, per citarne alcuni. Infine la grande massa di autori degli ultimi decenni: tranne poche eccezioni come Mazzucco, pensano “il nuovo” come sciolto da qualsiasi debito con il passato».
Con quali conseguenze?
«Lingua e stile nascono dal ripensamento di una lingua e di uno stile di qualcuno che c’era prima. Se non c’è conoscenza, non può esserci conflitto. E se non c’è conflitto, non c’è pensiero nuovo. E se non c’è pensiero nuovo non c’è nuova rappresentazione. L’unico frammento di tradizione che ogni tanto emerge è quella pasoliniana, ad esempio nel Saviano della testimonianza etico-politica: io so. Ma il Calvino delle Lezioni americane che erano un grande lascito per gli scrittori del nuovo millennio, è scomparso».
Questo cosa comporta?
«Negli scrittori più giovani la riflessione razionale su ciò che significa scrivere e su come si scrive si è molto indebolita. Il messaggio calviniano che mescola fantasia e razionalità è inapplicabile. E insieme a Calvino — cosa ancor più grave — esce di scena la tradizione occidentale in cui questi elementi si sono mescolati in modo profondo. È difficile ravvisare nei romanzi degli ultimi vent’anni l’impronta di Baudelaire o di Kakfa o di Mann. Gli ormeggi si sono totalmente liberati ».
Lei lamenta la mancanza di follia. A cosa si riferisce?
«La follia è quella che trovi in Pirandello o Svevo, la derogazione dalle regole. Oggi non ce n’è uno che deroghi dalle regole. E tra l’assenza di follia e l’assenza di tragedia il nesso è stretto. Per usare una terminologia infantile, è raro imbattersi in romanzi che finiscano male. Un’eccezione è nel primo Giordano. Anche Ammaniti che pure ci presenta storie drammatiche non ce le fa mai leggere come tragedia, preferendo la commedia».
Un po’ di follia era in Scrittori e Popolo , che prendeva a schiaffi il meglio della cultura progressista.
«Direi meglio, incredibile sfrontatezza».
Cosa aveva in testa? Far saltare il sistema culturale della sinistra?
«Noi pensavamo che si potesse realizzare il progetto politico operaista. E per fare questo occorreva sgombrare il campo dal principale ostacolo al rinnovamento che era lo storicismo: una linea culturale — Croce-De Sanctis- Gramsci — condivisa non solo dal Pci ma da tutta l’intellettualità italiana del tempo».
Accusava Pasolini e Vittorini, anche un po’ il Calvino de Il sentiero dei nidi diragno, di essere subalterni alla tradizione che impediva di creare cose nuove. Agli scrittori di oggi rimprovera il contrario, di non conoscerla per niente la tradizione. Si ricorda il vecchio detto? Rivoluzionari a vent’anni, conservatori a ottanta.
«Non c’è dubbio. Ma la differenza di atteggiamento dipende anche dal diverso clima culturale. All’epoca le spinte al rinnovamento erano formidabili. Mentre scrivevo quel libro andavo a fare volantinaggio davanti ai cancelli delle fabbriche e non sentivo alcuna separazione tra la mia vita da letterato e la milizia politica. Oggi dove ti attacchi? Questo però non bisogna dirlo: un vecchio professore non deve essere né fustigatore né tragicamente pessimista».
Gliela fecero pagare, all’epoca?
«Si arrabbiarono molto. Sull’ Unità uscì un veemente attacco di Carlo Salinari dall’espressivo titolo: Un piccolo borghese sul piedistallo . Mentre un giorno sorpresi Sapegno che ridacchiava con il mio libro in mano: “Queste cose le ho sempre pensate”».
Pasolini non la perdonò.
«Incontrandomi all’Università mi guardò con gli occhi a mirino: Asor, l’uomo che mi ha fatto più male nella vita».
Si è annoiato molto a leggere i giovani contemporanei?
«No, affatto. Non ho mai smesso di farlo pur continuando a studiare Dante e Boccaccio. Scrivono un po’ troppo, questo sì. Credo che dipenda dalle potenzialità del computer. Potrei chiedere un provvedimento di legge perché si torni all’uso della penna».

Romanzieri di oggi, dov’è il conflitto?
Alberto asor rosa, cinquant'anni di «Scrittori e popolo», con aggiornamenti. Riproposto da Einaudi, l’esordio dell’allievo di Sapegno denuncia tutta l’opacità sociale e l’individualismo delle «belle storie». Agli autori dice: «Senza il conflitto non c’è rappresentazione...Massimo Raffaeli il Manifesto 7.6.2015, 2:04
Pochi libri di cri­tica hanno inciso così pro­fon­da­mente nel senso comune come Scrit­tori e popolo, uscito cinquant’anni fa da una pic­cola edi­trice romana, Samonà e Savelli, che allora garan­tiva una spe­cie di samiz­dat alla sini­stra extra­par­la­men­tare. Lo fir­mava uno stu­dioso ancora gio­va­nis­simo, poco più che tren­tenne, Alberto Asor Rosa, allievo di Nata­lino Sape­gno all’università di Roma, attivo nei «Qua­derni Rossi» e com­pa­gno di via di Raniero Pan­zieri. Quell’esordio, geniale, sor­prese per la padro­nanza di una stru­men­ta­zione in cui la capa­cità di deli­neare un qua­dro sto­rico per ampie cam­pi­ture e tagli dia­let­tici si inte­grava a una micro­fi­sica testuale, nel cam­pio­na­rio dei testi ana­liz­zati, di secca e per­sino spie­tata pre­ci­sione ana­li­tica. Para­dos­sal­mente, non si trat­tava di un libro ideo­lo­gico ma di un libro cri­tico, nell’accezione eti­mo­lo­gica, il cui oriz­zonte d’attesa era di totale alte­rità rispetto al qua­dro con­ve­nuto della sini­stra isti­tu­zio­nale e della cosid­detta via ita­liana al socia­li­smo. In effetti, Scrit­tori e popolo era un libro di cri­tica della «ita­lia­nità» let­te­ra­ria ana­liz­zata nella lunga durata e con un’ottica che oggi diremmo anna­li­stica circa una nozione, il popu­li­smo, decli­nata a destra quale fol­clore endo­geno o clau­sura autar­chica e dedotta, o meglio diluita, a sini­stra nei ter­mini di un gene­rico o ire­nico pro­gres­si­smo. Que­sto era infatti l’incipit fol­go­rante di quel libro: «L’uso del ter­mine popu­li­smo è legit­timo solo quando sia pre­sente nel discorso let­te­ra­rio una valu­ta­zione posi­tiva del popolo, sotto il pro­filo ideo­lo­gico oppure storico-sociale oppure etico. Per­ché ci sia popu­li­smo, è neces­sa­rio insomma che il popolo sia rap­pre­sen­tato come un modello».
Diviso in due, la prima parte di Scrit­tori e popolo trac­ciava un qua­dro sto­rico a maglie fit­tis­sime di quella nozione capi­tale, dall’Unità alla Resi­stenza, dalle rifles­sioni di Gio­berti e Oriani ai Qua­derni di Gram­sci, coglien­done la vischio­sità e l’ambiguità per esem­pio tra i «fasci­sti di sini­stra» (Vit­to­rini per primo) quasi fosse, il popu­li­smo, una incom­benza ipo­te­ca­ria fatal­mente rice­vuta anche fra i con­ver­titi, nel secondo dopo­guerra, al neo­rea­li­smo e/o al comu­ni­smo (e, qui sia detto per inciso, pro­prio tale qua­dro è in realtà la sino­pia dell’altro grande con­tri­buto di Asor Rosa, cioè il quarto volume, tomo secondo della Sto­ria d’Italia einau­diana, inti­to­lato La cul­tura che taluni allora pre­sero, nel ’75, per una pali­no­dia); la seconda parte di Scrit­tori e popolo con­tiene invece quelle che l’autore defi­niva «eser­ci­ta­zioni», ana­lisi in vitro della pro­du­zione di Cas­sola e Paso­lini, seve­ris­sime e tut­ta­via utili non tanto a un giu­di­zio di valore com­ples­sivo, meno che mai a una loro ever­sione in blocco, quanto alla messa a fuoco di una serie di con­trad­di­zioni o di apo­rie (l’intimismo di Cas­sola, l’estetismo di Paso­lini) da misu­rare col metro della pro­du­zione grande-borghese, Piran­dello, Svevo, Mon­tale.
Cinquant’anni e però sem­brano molti di più: que­sto giova al valore del libro (pochi testi della nostra cri­tica, dopo tutto, appa­iono meno datati e per­ciò ancora discu­ti­bili, vale a dire saldi nell’impianto e sicuri nelle solu­zioni inter­pre­ta­tive) ma que­sto dice d’altra parte che il qua­dro è mutato irre­ver­si­bil­mente, come adesso atte­sta la ristampa arric­chita da una sua neces­sa­ria appen­dice, Scrit­tori e popolo 1965. Scrit­tori e massa 2015 (Einaudi, «Pic­cola Biblio­teca Einaudi Ns», pp. VIII — 432, euro 32,00). Asor Rosa nel suo più recente con­tri­buto muove dalla con­sa­pe­vo­lezza che è venuta meno, e nei modi di una disin­te­gra­zione, l’esistenza stessa di un «popolo» e con essa delle «éli­tes» che ne inter­pre­ta­vano e insieme con­vo­glia­vano le dina­mi­che sociali e poli­ti­che, per dar luogo qui e ora a una massa assog­get­tata e reclusa negli spazi di quella che pure defi­ni­sce una «demo­cra­zia pas­siva». Ciò ai suoi occhi com­porta una serie di con­se­guenze capi­tali, grosso modo a par­tire dal pas­sag­gio di mil­len­nio: il tra­monto della moder­nità quale spa­zio del con­flitto (di idee, posi­zioni, orga­niz­za­zioni); la rot­tura del rap­porto con una tra­di­zione seco­lare di testi, valori, orien­ta­menti; l’obsolescenza della cri­tica e della sua fun­zione pri­mor­diale che è quella di mirare sem­pre a una alte­rità nella stessa per­ce­zione degli oggetti sot­to­po­sti al suo vaglio; infine la pre­senza ubi­qui­ta­ria di un’industria cul­tu­rale che ha saputo tra­sfor­mare il mer­cato e i suoi cicli di pro­du­zione e con­sumo in un vero e pro­prio stato di natura. Anche in Scrit­tori e massa non inte­ressa allo stu­dioso indi­vi­duare ritratti mono­gra­fici e sti­lare spe­ci­fici giu­dizi di valore ma la messa a fuoco di un comune oriz­zonte, di costanti tema­ti­che den­tro un cam­pio­na­rio che asso­cia nar­ra­tori e poeti nati fra gli anni cin­quanta e ottanta del secolo scorso.
Quello che col­pi­sce, con evi­denza sta­ti­stica, è non sol­tanto la loro pro­dut­ti­vità (sol­le­ci­tata dai ritmi ormai con­vulsi della edi­to­ria) e la dif­fusa ori­gi­na­lità delle fisio­no­mie testuali (indotta magari dal ri-uso delle fonti tra­di­zio­nali o dalla con­ta­mi­na­zione per­pe­tua con i mezzi di comu­ni­ca­zione di massa), quanto uno stato di iso­la­mento, o peg­gio, di «ato­mi­smo indi­vi­dua­li­stico» che li obbliga a pro­durre in una spe­cie di trance e nello spazio-tempo di un eterno pre­sente. Il che vuol dire che si chiede loro di pro­durre delle sto­rie, delle «belle» sto­rie, ma non di riflet­tere, di pren­dere la parola, e di con­ti­nuo, ma non di pren­dere una posi­zione circa il vivere in società, in que­sta società, o sui destini gene­rali come era d’uso vice­versa fra gli ultimi grandi mae­stri (Paso­lini, For­tini, Cal­vino) per cui dirsi scrit­tori e intel­let­tuali era sino­nimo. Asor Rosa non rin­via gli scrit­tori di oggi alla pra­tica dell’engagement ma piut­to­sto indi­vi­dua il tabù più dif­fuso, per cui la pra­tica dello sto­ry­tel­ling è appunto la com­pen­sa­zione del silen­zio tom­bale riguardo ai mec­ca­ni­smi sociali, al pen­siero unico che governa le coscienze, ai grandi poteri che pro­pon­gono la glo­ba­liz­za­zione e i suoi isti­tuti economico-finanziari come il solo e il migliore dei mondi pos­si­bili. (Esem­plare in tal senso è l’analisi di Gomorra e del caso Saviano nella inter­se­zione, come nella ambi­guità, di testi­mo­nianza e fic­tion). È pro­ba­bile che Asor Rosa qui tra­scuri alcuni segnali in con­tro­ten­denza, quali il ritorno della let­te­ra­tura di repor­tage e di docu­fic­tion, non­ché il redi­vivo dibat­tito intorno alla nozione di «rea­li­smo», ma è comun­que com­pren­si­bile il fatto che colga nella parola dei più ato­miz­zati e iso­lati rispetto al con­te­sto, i poeti e le donne spe­cial­mente, tra opa­cità sociale e vivida sus­sul­tante espe­rienza del corpo, quei nessi di fer­tile con­trad­di­zione e quelle verità che ai nar­ra­tori per lo più sono ini­bite o deli­be­ra­ta­mente impe­dite. Così si con­clude Scrit­tori e massa: «In let­te­ra­tura, come in qual­siasi altra ope­ra­zione sto­rica umana, non c’è disve­la­mento della verità senza con­flitto. Solo l’‘opposizione’ con­sente il disve­la­mento delle appa­renze e l’emergere dei tratti più nuovi del reale – e del pen­siero. Se non c’è con­flitto, non c’è pen­siero nuovo; e se non c’è pen­siero nuovo non c’è nuova rap­pre­sen­ta­zione – il mondo resta una veste este­riore che rico­pre a stento, sem­pre, le vec­chie appa­renze». Scrit­tori e popolo era nato da un’identica per­sua­sione ma oggi è un grido che risuona, abba­stanza dispe­rato, nella nostra pace domestica.


Solo lettori massa?
Cesare De Michelis Domenicale 13 9 2015
Al vertice c’era la classe operaia che, sovvertito l’ordine capitalista, avrebbe governato la società comunista degli eguali, più sotto il popolo, privo di coscienza rivoluzionaria, che conservava i valori della millenaria civiltà contadina in una prospettiva moralistica che si reggeva sul rispetto della tradizione e il rifiuto «di qualsiasi avventura avanguardistica e novecentesca», e, ancora più sotto, la massa, che, azzerando ogni individualità, subisce ottusa il trionfo di un consumismo privo di valore e valori: questo è l’itinerario nel degrado della cultura letteraria italiana che Alberto Asor Rosa ha compiuto durante cinquant’anni, tra la prima edizione di Scrittori e popolo (1965) e il recente Scrittori e massa. Dopo una spregiudicata rilettura dei mitici anni Sessanta, nei quali un impetuoso sviluppo economico (il boom), il radicalismo operaio (Quaderni Rossi) e una “seria” iniziativa riformista (il primo centro-sinistra) avrebbero marciato per oltre un decennio «nella medesima direzione, o per lo meno affiancati, se non solidali», Asor, tirando le somme, constata amaramente che «ora di tutto questo non resta più niente»: classe e popolo si sono dissolti e con essi «anche la democrazia, o, meglio, il funzionamento del sistema democratico si è fortemente indebolito».
La classe era rivoluzionaria, il popolo democratico, la massa inesorabilmente post-democratica, perché «son venuti meno i capisaldi di quello che, in altri tempi, si sarebbe definito un sistema democratico-culturale fondato sul moderno» e con esso sono finite la tradizione, la società e la teoria letteraria, o la critica: in questo vuoto traumatico la cultura di massa è obbligata a soddisfare i “bisogni” di un destinatario ottuso e uniforme, mentre della libertà non resta quasi più traccia.
La narrativa di questa prima stagione post-novecentesca ha rinunciato a qualsiasi proposito di interpretazione del reale, a qualsiasi analisi delle contraddizioni sociali e, in definitiva, a qualsiasi ambizione di conoscenza; i suoi sforzi si riducono a “intrattenere” un pubblico che ignora la Storia è consuma un’infinità di storie sempre più futili ed effimere: Asor scopre solo ora che la narrativa è diventata conservatrice, giungendo così paradossalmente a confermare le conclusioni del suo studio originario con più rassegnata disperazione, sempre senza prendere in considerazione le buone ragioni di questo antimodernismo letterario che attraversa intero il secolo passato e resta tuttora senza alternativa in questa fase di crisi irrisolta che non riesce a intravvedere all’orizzonte un diverso destino. In fondo il successo diffusionale della narrativa di genere e intrattenimento comincia già nelle metropoli del secondo Ottocento dove il moderno celebrava spavaldo l’avvento e il trionfo dell’innovazione tecnologica e inseguiva una sorta di celebrazione del nuovo che finiva col coincidere con le ardite sperimentazioni dell’avanguardia: per un verso, dunque, del futuro si disegnava un profilo immaginario e per l’altro si abbandonava il passato come un imbarazzante e superfluo bagaglio.
La letteratura si affannava a preservare la memoria di un mondo che intanto languiva e giorno dopo giorno spariva abbandonato: c’era poco da capire e ancor meno su cui confidare, bastava, per non perdersi, conservare i valori di una tradizione secolare, nella quale l’uomo era stato al centro e la sua cultura aveva progressivamente integrato in un disegno unitario ogni successivo apporto della conoscenza; che poi i feuilleton consolassero i lettori e li intrattenessero, distogliendone l’attenzione dalle ansie e dalle minacce del futuro, ripetendo intrecci e schemi sperimentati, era persino rassicurante, perché non bisognava cedere alla paura e allo sconforto.
L’attuale disperazione di Asor che liquida tutto il presente facendo di ogni erba un fascio, anche se poi si affanna a stilare classifiche e a mettere in salvo qualcosa, evoca il monito che non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire e suggerisce l’invito ad affinare l’udito: nel tempo della discontinuità bisogni esercitarsi a distinguere lasciando che l’effimero svanisca, ma anche con la certezza che in qualche testo il vero, il buono e il bello resistono anticipando il divenire.

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