mercoledì 27 maggio 2015

Ripubblicate da Morcelliana le opere principali di Italo Mancini




Italo Mancini, il teologo dei doppi pensieri 

Intervista. La ripubblicazione da parte della casa editrice Morcelliana delle opere più significative del noto filosofo della religione Italo Mancini. Parla Piergiorgio Grassi, docente a Urbino e suo allievo

Paolo Ercolani il Manifesto 27.5.2015
Italo Man­cini, sacer­dote e teo­logo ita­liano, è stato fra i pen­sa­tori cri­stiani più attenti al con­fronto con posi­zioni teorico-pratiche distanti dalla pro­pria. Con­sa­pe­vole che la verità è un ani­male che rara­mente si lascia irre­tire all’interno di una defi­ni­zione uni­voca e con­chiusa. Da let­tore dell’Idiota di Dostoe­v­skij, Man­cini pra­ti­cava piut­to­sto una «teo­lo­gia dei doppi pen­sieri», alla ricerca di acqui­si­zioni che non si esau­ri­scono mai in un atto unico, ma sono vestite di dop­piezza, dua­lità, ambi­guità. Ne par­liamo con Pier­gior­gio Grassi, pro­fes­sore eme­rito di filo­so­fia a Urbino e allievo di Mancini. 


Una delle tesi che mag­gior­mente col­pi­scono di Italo Man­cini riguarda il «pri­mato del rico­no­scere sul pen­sare». Risiede qui l’essenza della sua filo­so­fia della reli­gione e per­fino della sua religiosità? 

Man­cini inten­deva ela­bo­rare una filo­so­fia della reli­gione e non una filo­so­fia religiosa. Filo­so­fia della reli­gione che pone in primo piano il dato sto­rico della rive­la­zione. Per Man­cini reli­gione è una pro­po­sta radi­cale di sal­vezza che viene da «Altro» e non un discorso meta­fi­sico su Dio o una espe­rienza par­ti­co­lare del sacro, come quelle di cui par­lano Rudolf Otto e Mir­cea Eliade. Di fronte a que­sto «dato» l’atteggiamento giu­sto è quello erme­neu­tico, che attra­verso una serie di con­fronti (con la teo­ria e con la prassi) cerca di rico­no­scerlo nella sua spe­ci­fi­cità. Ciò non esclude il pen­sare: il pen­sare meta­fi­sico, all’interno della strut­tura erme­neu­tica, ha lo scopo di ela­bo­rare lo schema di pos­si­bi­lità di un evento straor­di­na­rio di sal­vezza. Sal­vezza in senso forte: dalla morte indi­vi­duale e dalla «impo­tenza col­let­tiva d’amore», come scri­veva Jean Paul Sar­tre. Que­sta impo­sta­zione com­porta che il cri­stiano si ponga nella sequela del Cri­sto e si carat­te­rizzi per il suo essere– per– gli altri, attento alla dimen­sione etico-politica. Una reli­gio­sità attiva e insieme sospet­tosa nei con­fronti di espe­rienze emo­zio­nali e privatistiche. 

Intenso il con­fronto del teo­logo con Nie­tzsche e con quella «logica della disgre­ga­zione» che ne rap­pre­sen­tava uno dei lasciti più forti, soprat­tutto nella sua forma attua­liz­zata da Deleuze e Guat­tari. Ce lo spiega? 

Man­cini con­sta­tava che nella seconda metà del Nove­cento si stava affer­mando una forma di pen­siero che era pro­fon­da­mente influen­zata da Nie­tzsche e che egli chia­mava «pen­siero nega­tivo». L’accento veniva posto sulla diver­sità, l’opposizione, la fran­tu­ma­zione, al posto degli anti­chi segni della civiltà occi­den­tale rac­colti attorno al tema dell’unità e della totalità. 

L’emozione e il sen­ti­mento, sem­pre ribelli ad ogni legge, pren­de­vano il posto della con­sa­pe­vo­lezza basata sul pen­siero che rac­co­glie e domina il diverso. Come scri­veva: «Il carat­tere babe­lico della inco­mu­ni­ca­bi­lità stava pren­dendo il posto dei pen­sieri domi­nanti e delle cer­tezze comuni in cui tutti un tempo si ritro­va­vano». Rizoma, il volume scritto a due mani da Deleuze e Guat­tari, era meta­fora e insieme l’apologia della destrut­tu­ra­zione, del fram­men­ta­ri­smo del pen­siero, «del pen­siero come pul­sione non pro­gram­mata, discon­ti­nua, nascente». Con esiti poten­zial­mente vio­lenti, com’è acca­duto per le auto­no­mie ope­raie che si sono ispi­rate a que­ste prospettive. 

Man­cini rite­neva che si doves­sero creare dei con­tro movi­menti cul­tu­rali, in grado di con­tra­stare tali derive in vista di una cul­tura della ricon­ci­lia­zione, sulla base di con­ver­genze eti­che con tutti gli uomini di buona volontà. 

Da filo­sofo del diritto Man­cini cri­ticò for­te­mente l’idea nie­tzscheana dell’«innocenza del dive­nire», intesa alla stre­gua di un «dire sì alla vita» che si libera da resi­dui mora­li­stici come la colpa e il pec­cato. Con quali esiti? 

Leg­geva que­sta espres­sione come il frutto della pre­oc­cu­pa­zione nie­tzscheana di sal­vare l’uomo e di con­durlo alle terre dell’eterno ritorno. Mai si può par­lare di pena e mai si può par­lare di colpa se ogni azione è inno­cente e non si deve ren­der conto a nes­suno di ciò che si fa, dal momento che non esi­ste limite alla volontà di potenza. Citava dai Fram­menti postumi 1987–1988, quella parte in cui Nie­tzsche dichia­rava di voler essere mis­sio­na­rio di un pen­siero più ricco, vale a dire «che nes­suno ha dato all’uomo le sue qua­lità, ne Dio, né la società, né i suoi geni­tori e pro­ge­ni­tori, né lui stesso. È un grande ristoro – osser­vava – pen­sare che un tale essere manchi». 

Uti­liz­zando una bella espres­sione del teo­logo tede­sco Jür­gen Molt­mann, Man­cini defi­niva il mar­xi­smo una «reli­gione in ere­dità», cioè che inten­deva risol­vere non reli­gio­sa­mente i pro­blemi pro­pri della reli­gione. In che senso? 

Nel senso che per il cri­stia­ne­simo e per Marx esi­ste una que­stione: libe­rare l’umano da una situa­zione di disfatta, di caduta, diver­sa­mente iden­ti­fi­cata. Libe­ra­zione che nel cri­stia­ne­simo si attua attra­verso la media­zione della figura del Cri­sto, men­tre per Marx si esige la media­zione del pro­le­ta­riato. Un pro­le­ta­riato che pre­senta carat­teri in qual­che modo mes­sia­nici: la somma dei suoi dolori, l’alienazione totale nei con­fronti dei con­te­sti della società civile, lo pon­gono come reale pro­ta­go­ni­sta non solo della pro­pria libe­ra­zione, ma anche dell’intera società. Non caso Karl Kor­sch aveva dichia­rato che una reli­gione dell’aldilà (il cri­stia­ne­simo), sarebbe stata sosti­tuita da una reli­gione dell’aldiqua, il comunismo. 

Grandi altezze teo­re­ti­che ven­gono rag­giunte nel con­fronto con la cri­tica al pen­siero meta­fi­sico. In par­ti­co­lare Hei­deg­ger e la sua teo­ria dell’«ultimo Dio» come total­mente altro, su cui si affa­ticò Mancini… 

Il rap­porto di Man­cini con il pen­siero di Hei­deg­ger è stato tor­men­tato e ha accom­pa­gnato la sua lunga rifles­sione. Nelle ricer­che gio­va­nili sul filo­sofo tede­sco, Man­cini aveva messo in luce il carat­tere tota­liz­zante e poten­zial­mente tota­li­ta­rio della sua onto­lo­gia. L’ontologia sup­pone un pro­cesso cono­sci­tivo che non mette al cen­tro la respon­sa­bi­lità verso l’altro, non mette al cen­tro l’etica, come voleva il filo­sofo Emma­nuel Lèvi­nas. Nel tema dell’ultimo Dio pre­sente nei Bei­träge zur Phi­lo­so­phie – Man­cini ne parla dif­fu­sa­mente nel suo testo postumo Fram­mento su Dio (del 2000) – intrav­ve­deva, sia pure con note­voli ambi­guità, l’apertura di un varco verso la tra­scen­denza: era l’attesa di un Dio con­ce­pito come avvento sto­rico, che «si mostra da sé», eman­ci­pato da ogni rela­zione con la meta­fi­sica greca. Un Dio, per­tanto, più vicino alla tra­di­zione giu­daica. Mi rimane la curio­sità di sapere cosa avrebbe detto Man­cini di fronte alla recente appa­ri­zione dei «Qua­derni neri», in cui il pen­sa­tore di Mes­skir­sch si è lasciato andare a duri giu­dizi anti­se­miti, senza com­piere alcuna ritrat­ta­zione della sua pre­coce ade­sione al nazionalsocialismo.

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