mercoledì 3 giugno 2015

Renzi estirpi la sinistra PD e dopo vada pure a sbattere. Ma solo dopo

L’analisi di Renzi sulle urne: in periferia il cambiamento non lo abbiamo dimostrato

di Maria Teresa Meli Corriere 3.6.15
ROMA «Ora arriva il bello»: il segretario-premier in realtà, ieri, era in tutt’altre faccende affaccendato. Pensava al prossimo — e vicino — G7, ma, inevitabilmente, con l’attenzione volta anche al partito. «Vedo — spiegava ai collaboratori che gli portavano i dossier del vertice internazionale — che nella minoranza c’è chi chiede un chiarimento. In realtà sono io che lo chiedo, perché sono stufo di questo andazzo, che rischia di rendere l’Italia un Paese poco credibile».
È questo quello che il premier non sopporta: l’idea che mentre lui spiega all’Europa che il «fiscal compact è diventato un problema», arrivi un «D’Attorre qualsiasi a sciorinare emendamenti su emendamenti contro una qualsiasi riforma che ci renderebbe più forti nei confronti della Ue». A tutto, secondo Renzi, c’è un limite. E per quello che lo riguarda quel confine è stato abbondantemente superato.
Il presidente del Consiglio lo ha spiegato ai fedelissimi: «Basta con i tentativi inutili di mediazione con la minoranza interna di Bersani. Abbiamo dato. Dobbiamo fare meno compromessi al ribasso, sennò il popolo del Pd non ci capisce, cosa che è stata ampiamente dimostrata da queste elezioni». E ancora: «Non è più accettabile che ci siano gruppi organizzati dentro il partito che non votino la fiducia a riforme che il governo ritiene delle priorità. Basta».
È una minaccia, finora, quella di Renzi: «Avevo detto e ripetuto che i bilanci li avremmo fatti a urne chiuse e quindi ora è giunto il tempo di farli», spiega ai suoi. Una minaccia che serve anche a saggiare la resistenza di quell’area che si oppone al segretario «senza se e senza ma». Un avvertimento che serve anche a capire da quale parte vogliono posizionarsi i quarantenni della minoranza bersaniana. Gli Speranza e gli Stumpo, per intendersi. Vogliono seguire Bersani? O accettano una normale dialettica interna, dove «è chiaro che se la maggioranza prende una decisione la si rispetta nei gruppi parlamentari?».
A loro la decisione. Perché con la minoranza morbida dei Damiano e degli Amendola, il premier è già pronto al dialogo. E non solo. Ci sono posti di governo e di sottogoverno. Ci sono presidenze di Commissione che vanno riconfermate, la maggior parte del centrodestra, ma alcune anche dei bersaniani come la «Attività produttive» di Montecitorio, attualmente guidata da Guglielmo Epifani. Insomma, ci sono posti da distribuire.
Nella direzione di lunedì prossimo il premier dimostrerà che è pronto a offrire un ramoscello d’ulivo solo alla minoranza che non cerca lo sgambetto e «la coltellata alla schiena», a quella che non lo «boicotta per principio»: «Voglio il pieno coinvolgimento di quell’area minoritaria che ci ha appoggiato, che ha fatto delle proposte di modifica alle nostre leggi non per pregiudizio e che, infatti, noi abbiamo in parte appoggiato».
Per farla breve: non solo la minoranza che ha già deciso di abbandonare Bersani, ma anche quella che, seppur tra mille dubbi, ha finora seguito la linea oltranzista dell’ex segretario dovrà decidere in tempi brevi, anzi, brevissimi, che cosa fare, «perché così non si può andare avanti». Anche perché l’azione del governo «va potenziata»: «Ci vuole più velocità sulle riforme». Ma per raggiungere questo traguardo ci vuole un «partito unito», non un Pd, «dove ci sono gruppi pronti a preparare agguati al segretario e al governo».
D’altronde, secondo Renzi, anche per questo il Pd è stato frenato dalle elezioni: «Lo sappiamo tutti che i nostri militanti non amano le liti e dovrebbero saperlo anche quelli che hanno aperto un contenzioso nella speranza che il Pd perdesse punti e che, quindi, io ne uscissi ammaccato».
Il che non vuol dire che Renzi neghi l’evidenza: «L’astensionismo questa volta ha colpito noi, perché noi non abbiamo dimostrato anche in periferia che il partito è cambiato sul serio. Non abbiamo perso voti a sinistra, perché la sinistra siamo noi, quella che crea i posti di lavoro e elimina le diseguaglianze».
Ma il nemico questa volta il premier potrebbe averlo in casa: tra quei renziani sostenitori di Delrio che vorrebbero arginare il «giglio magico» e regalare la vicesegreteria unica a un ex Ds come Enzo Amendola per non esacerbare ulteriormente gli animi.


Civati, Sel, Landini: quanto vale il «fronte Podemos»

di Alessandro Trocino Corriere 3.6.15
Un «sogno di mezza estate». «Un sasso nella palude». Come promesso, dopo il voto delle Regionali Pippo Civati lancia il suo «Possibile». Movimento «leggero e orizzontale», che aspira a essere il perno della nuova costituente a sinistra in stile Podemos. Una nuova ripartenza per i delusi del Pd renziano, ma anche per quel che resta della sinistra radicale, per gli astenuti e per chi ha creduto nel Movimento 5 Stelle. Il buon risultato di Luca Pastorino, in Liguria, dà l’abbrivio a Civati. Primo step di questo movimento che «nasce dal basso» è la proposta ai «possibili compagni di viaggio» di alcuni referendum su legge elettorale, sblocca Italia, Jobs act, riforma della scuola e legalizzazione della cannabis. Civati convoca tutti a Roma al 21 giugno. Il primo appuntamento elettorale possibile sono le Comunali di Milano e di Bologna del prossimo anno. Ma che lista ci sarà? «Possibile» o una più ampia? «Vedremo — spiega il fondatore — “Possibile” non è il partito di Civati, è un luogo per stimolare l’aggregazione, un punto di partenza. Si vedrà se il suo compito sarà quello di assorbire altri oppure se entrerà in un contenitore più grande». Nicola Fratoianni, di Sel, parla di «contributo importante»: «Spero che si torni a una sinistra unitaria e innovativa. Naturalmente nessuna iniziativa da sola è sufficiente, a cominciare da Sel. Serve un punto di aggregazione finale». Intanto, potrebbero nascere i gruppi parlamentari uniti, di cui si ribadirà l’importanza oggi nella Direzione di Sel. Si aspetta che qualche dissidente pd faccia la sua mossa. Per Stefano Fassina i tempi non sono maturi: «L’iniziativa di Civati è un contributo utile, il fiume della sinistra deve avere tanti affluenti. Ma io voglio prima vedere come Renzi affronterà il risultato elettorale, che evidenzia una lacerazione profonda con il popolo democratico». E mentre sul territorio ci sono i primi contraccolpi — come le dimissioni della civatiana Francesca Bianchi dal Pd — Paolo Flores D’Arcais, direttore di Micromega, lancia una «rottamazione» di Matteo Renzi in «tre mosse»: far cadere il premier in una delle fiducie, chiedere un immediato congresso del Pd e candidare alla segreteria il leader Fiom Maurizio Landini .


Dopo il voto la guerriglia Prove di logoramento contro Renzi

di Lina Palmerini Il Sole 3.6.15
Le regionali hanno suonato il fischio di inizio per le prove di logoramento del premier. E non solo dalla minoranza Pd che al Senato cercherà l'effetto-Liguria e la guerriglia, ma pure dagli alleati di Governo. Il partito di Alfano potrebbe essere un altro centro di fibrillazioni. Il primo cerchio di fuoco da saltare è il partito. La direzione di lunedì si annuncia come una resa dei conti o un passaggio per cercare la tregua, ma una soluzione, comunque, ci vuole. Perché dopo le regionali e il risultato della Liguria, la sinistra Pd non sembra cercare più la scissione ma il logoramento del premier.
Insomma, molti che sembravano a un passo dall'uscio potrebbero cambiare strategia. Cos'è cambiato? Che la perfomance della sinistra in Liguria è stata modesta anche se ha fatto perdere la candidata democratica. E che i voti usciti dal Pd, come raccontano le analisi dell'Istituto Cattaneo, o sono andati all'astensione o sono andati ai 5 Stelle. L'esempio di La Spezia è quasi sconcertante perché il Pd perde voti a vantaggio dei grillini (4%), dell'astensione (3,2%), perfino della Lega (3%) e solo del 2,3% verso la Lista Pastorino e Rete a sinistra. Come direbbe qualcuno, si facciano una domanda e si diano una risposta.
Del resto i temi che hanno influenzato questa campagna elettorale sono cibo indigesto per la sinistra “comme il faut”: immigrazione, sicurezza, euro. E infatti cresce Salvini non Sel. E neppure Grillo. A meno che la sinistra non scelga definitivamente di diventare la lista Tsipras delle europee e ritrovarsi dove si trova ora il premier greco, alle prese con negoziati estenuanti con l'Europa e con l'opposizione interna di Syriza. Se quindi non c'è una vita felice oltre il Pd, l'unica è rendere il Pd un posto migliore per quella che è oggi la minoranza. E il Senato è il luogo ideale da dove far partire la guerriglia di logoramento di Renzi che lì ha pochi numeri e molti nemici.
Oggi cominciano i giochi sulla riforma della scuola, terreno ideale per il tema e anche per il luogo, la commissione Istruzione del Senato. Ci sono già oltre 1.900 emendamenti che sono, appunto, presagio di quel tentativo di paralizzare l'azione del Governo. Un tentativo, però, che potrebbe arrivare anche dal fuoco amico nell'Esecutivo perché sta crescendo un'area di malessere nel partito di Alfano. Il successo di Salvini spinge il Cavaliere a scendere a patti con lui e da questi sarebbe esclusa Area popolare. Dall'altra parte Renzi non offre “garanzie” a nessuno di loro né ha intenzione di dare dignità politica a un'area di centro-destra che nasca sul fianco moderato del Pd. Per Renzi lo schema ideale è quello che sta nascendo: un Pd che sfida una destra-destra di Salvini e che diventa – così – anche il collante per tenere insieme i pezzi alla sua sinistra.
Insomma, per Alfano si chiude sia la strada verso il Pd che verso un'alternativa di tutti i moderati e questo potrebbe indurlo a prestarsi a una manovra di logoramento su Renzi nella speranza che, tolto lui, si possano riaprire i giochi politici. Non è un caso che Gaetano Quagliariello ieri abbia chiesto modifiche all'Italicum appena approvato che toglie spazio vitale ai piccoli partiti e cancella le coalizioni. Stesso malessere si avverte in quel mondo che gravita in Forza Italia e che non avrà più cittadinanza con la vittoria di Toti e del cerchio magico. Per intenderci, diventa difficile anche per Verdini e i suoi dare un sostegno a Renzi in Parlamento in cambio di nulla. Per sopravvivere al Senato, al premier servirebbe un nuovo accordo con il Cavaliere ma il risultato delle regionali chiude questo spazio. Almeno oggi che Salvini diventa il leader senza il quale il centro-destra perde. E dunque Renzi si trova a navigare in acque molto incerte, senza più ciambelle di salvataggio e con un'insofferenza crescente nel Pd e tra gli alleati.


Perché Renzi rischia di cadere nella trappola dei due partiti

Da una parte quello del Sud che dà una mano a De Luca, dall’altro quello più intransigente del Nord
di Stefano Folli Repubblica 3.6.15
 NON è di buon auspicio, sul terreno dei simboli, che il primo atto della nuova legislatura regionale a Napoli sia la denuncia presentata dal vincitore De Luca nei confronti di Rosy Bindi, presidente della commissione Antimafia. Motivo, l’attentato ai «diritti costituzionali» commesso rendendo pubblica la famosa lista degli «impresentabili» a due giorni dal voto. Non è la sola denuncia contro la Bindi: ce ne sono altre due, per le stesse ragioni, firmate da altri candidati (fra cui la moglie di Clemente Mastella, non eletta).
Ovvio che si tratta di fuochi artificiali privi di conseguenze, almeno sul piano giudiziario. Un conto sono le polemiche politiche, altro sarebbe immaginare ciò che non è immaginabile: la presidente dell’Antimafia chiamata a rispondere in tribunale dei propri atti parlamentari. Ma ovviamente il gesto di De Luca ha un senso politico, perché é volto a impressionare la sua gente in Campania e anche qualcuno a Roma. Il messaggio è chiaro: intendo restare al mio posto per tutto il tempo necessario, forzando per quanto è possibile i limiti della legge Severino, e mi aspetto il massimo sostegno dal governo e dal mio partito.
Prevedibile, certo. Tuttavia la denuncia a carico di Rosy Bindi allarga le ferite all’interno del Pd. È vero che la presidente ha raccolto una solidarietà molto scarsa con la sua lista di proscrizione, ad eccezione di Bersani e pochi altri. Ma è altrettanto vero che questo accadeva prima delle elezioni. Ora che la scossa si è verificata e che Renzi — almeno il Renzi segretario del partito — è più debole, il quadro potrebbe cambiare. Di fatto il caso Campania comincia adesso. Con De Luca che reclama l’appoggio del premier e il vertice del Pd in apparenza disposto a garantirglielo. Per ora è una questione procedurale, nel rispetto della norma. Come ha detto il vicesegretario Guerini, «c’è una legge che assegna competenze ad organi di governo che si riuniranno in tal senso, ma non c’è alcuna decadenza. La legge parla eventualmente di sospensione ».
In sostanza, si vorrebbe lasciare a De Luca tutto il tempo di insediare la giunta e nominare il vice-presidente che dovrà agire in suo nome quando la sospensione sarà effettiva. Ma le cose non sono semplici come sembrano. Il sentiero è stretto e la guerra intestina nel Pd potrebbe divampare nei prossimi giorni, quando prenderà forma il chiarimento interno che Renzi interpreta in un modo (resa dei conti con i «traditori») e la minoranza in un altro (ripensamento sui programmi, le riforme e lo stile di governo). La vicenda De Luca potrebbe diventare, e forse lo è già, una bandiera da agitare contro il gruppo dirigente renziano in nome della questione morale.
La verità è che Rosy Bindi, agendo quasi da «kamikaze» politico, ha disseminato di potenti mine il cammino di Renzi e dei suoi. Compreso indirettamente il presidente del partito, Orfini, di cui qualcuno ha voluto ripescare un vecchio «tweet» dell’anno scorso molto critico verso la disinvoltura di De Luca a Salerno. Il presidente del Consiglio può apparire come l’uomo che asseconda il neo-governatore in nome della «realpolitik»? Renzi è in grado di sfidare l’opinione pubblica esterna e le manovre interne degli scontenti del Pd? Dopo il voto tutto è diventato più complicato e acquista una logica l’argomento secondo cui a Berlusconi il centrosinistra mai avrebbe perdonato la linea morbida a favore di un «governatore» di Forza Italia che si fosse trovato nella stessa condizione di De Luca.
Ma soprattutto c’è una trappola politica che Renzi deve in ogni modo evitare. Non può permettersi che nascano due Pd con diverse sensibilità. Un partito del Sud che dà una mano a De Luca, sia pure nel rispetto formale delle procedure; e un partito del Nord, punito nelle urne dalla Liguria al Veneto, e proprio per questo intransigente sui temi dell’etica pubblica. Non disposto a compromettere la propria immagine — e le prospettive di rivincita — per coprire nel Mezzogiorno gruppi di potere che non sono nemmeno amici del premier.


“Imploderemo se Matteo punta davvero al repulisti”

Il bersaniano Gotor: “Si parla di misure prefettizie ma non abbiamo bisogno di un piccolo Napoleone”
intervista di Carlo Bertini La Stampa 3.6.15
Leggo sui giornali che Renzi avrebbe in serbo un repulisti dei quadri della minoranza in tutte le regioni e una serie di misure prefettizie per piegare il partito a sua immagine e somiglianza. Beh così il Pd imploderebbe e per fare una battuta da storico non credo che il Pd abbia bisogno di un piccolo Napoleone». Miguel Gotor, braccio destro di Bersani al Senato, sorride per sdrammatizzare questo clima da scontro finale che aleggia nel partito dopo le regionali e la dura sconfitta in Liguria. «Un voto che sconta un’insoddisfazione che non ci aspettavamo così elevata. E ridurla a un problema maggioranza-minoranza è sbagliato».
Bersani il giorno prima del voto diceva “prima o poi tornerà il Pd delle origini”. Sbagliano ad accusarvi di aver remato contro?
«Bersani e tutti noi abbiamo fatto campagna per il Pd. E va detto che la minoranza in questa fase porta voti e Renzi dovrebbe ringraziarci. Una nostra presenza, se pur critica su alcuni punti, ha contenuto un esito negativo. Quanta gente ci diceva “voto Pd perché ci siete voi, ma è l’ultima volta”».
Quindi è anche merito vostro se Renzi può dire che quelle regioni erano 6 a 6 e oggi 10 a 2?
«È vero, il calcolo è quello. Ma se restiamo al piano numerico, allora il Pd ha perso due milioni di voti sulle europee del 2014 e un milione di voti rispetto alle politiche del 2013».
Una «non sconfitta» l’ha definita. Soddisfatti delle analogie?
«Se c’è un’analogia è che non ci aspettavamo un calo di questa portata, che mette in discussione il progetto di partito-nazione di Renzi. Si blocca l’espansione a destra che si è autorganizzata intorno a Salvini. E c’è un congelamento con una sospensione di giudizio nel voto a sinistra, perché l’astensionismo in regioni come Toscana e Umbria riporta al problema dell’Emilia Romagna che Renzi ha sottovalutato. Sarebbe importante avere coscienza del problema: l’astensionismo non è solo contro la politica, ma è anche quello di una sinistra che si ferma un giro. Un’astensionismo che non cerca avventure minoritarie, ma non è persuaso dalla curvatura che Renzi ha impresso al Pd. Il primo problema è lo sciopero del voto».
E il secondo problema?
«La crescita della Lega a livello nazionale e un Movimento 5stelle in salute anche con Grillo in ombra, ci dicono che Renzi non è un argine alle forze anti-sistema e populiste, ma rischia di arare e concimare il terreno dove prosperano perché gioca nel loro campo. Ma è difficile farlo governando al tempo stesso».
Ora con i vostri venti voti essenziali per la vita del governo, vi metterete di traverso sulle riforme al Senato?
«La riforma del Senato continueremo a sostenerla chiedendo dei miglioramenti. Sulla scuola abbiamo presentato una serie di emendamenti sul ruolo dei presidi, sui precari e sui finanziamenti alle paritarie. Con dei cambiamenti ci sono le condizioni perché passi».
E nello scontro De Luca-Bindi con chi parteggia?
«E’ un pasticcio nato male che rischia di finire peggio. Sbaglia De Luca a querelare la Bindi per reato di lesa maestà, perché il vero problema è il rispetto della Severino».


Gianni Cuperlo “Su scuola e Senato Matteo ci ascolti e esca dalla playstation”

L’appello al leader dell’ex presidente dem: “Lui guida il partito e io resto, senza rimpiangere la vecchia ditta, ma il voto ha dato ragione alle battaglie della sinistra” “Ora serve un chiarimento su come si sta nel partito, ma al centro non c’è la disciplina bensì l’idea di Paese”“Basta con la storia dei gufi e degli agguati. La prima è una sciocchezza, la seconda una canagliata”
intervista di Giovanna Casadio Repubblica 3.6.15
ROMA «La sinistra dem non rema contro, direi che è tempo di finirla con questa storia di gufi e agguati al premier. La prima è una sciocchezza, la seconda una canagliata... ». Gianni Cuperlo, leader di Sinistradem, scalda i muscoli in vista della direzione del Pd di lunedì.
Cuperlo, siamo alle querele: De Luca denuncia Bindi che pretende le scuse del Pd. E in Liguria, Burlando accusa la sinistra dem di avere fatto perdere Paita. Il Pd è un deposito di veleni?
«Vedo il rischio e lavoro per evitarlo. Leadership e classi dirigenti si distinguono da come reagiscono alle difficoltà e la prima regola è rifuggire da vendette e capri espiatori. La Liguria è una sconfitta ma scaricarne la colpa sugli altri non aiuta a capire. Quanto a De Luca penso sia saggio che un uomo pubblico, quando assume un incarico istituzionale, eventuali querele le ritira non le deposita».
È la prima sconfitta politica per il Pd di Renzi?
«Penso che avere strappato 5 regioni su 7 sia un risultato importante, ma che non si possa ignorare di aver perso la metà dei voti di un anno fa. Siamo tornati alla percentuale delle politiche e questo dovrebbe impegnare tutti, maggioranza e minoranze, a una discussione seria».
Il 41% delle europee si allontana, ma anche la trasformazione del Pd in Partito della Nazione?
«E questa, se Dio vuole, è una buona notizia. Soprattutto per il significato che alla formula si è impresso. Quell’idea di un partito fast food capace di ingoiare tutti e tutto. Piegando la sinistra perché tanto su quel versante non c’è alternativa e sfondando l’altro campo con un grande partito piantato a centro scena. La realtà non funziona così e basta il dato deludente del Veneto a descrivere i limiti di quella impostazione».
La sinistra dem ha remato contro?
«Direi che è tempo di finirla con questa storia dei gufi e di agguati al premier. La prima cosa è una sciocchezza, la seconda una canagliata. Renzi ha vinto il congresso e deve guidare il Pd, ma questo voto rende giustizia alla battaglia di molti tra noi per correggere la delega lavoro, le riforme di Costituzione e legge elettorale, la buona scuola. Dovrebbe esser chiaro che quello era anche il modo per non spezzare il legame con una parte di società».
Nessuno si fida dell’altro Renzi della sinistra del partito e la sinistra del partito di Renzi -. E intanto crescono astensionismo e populismi?
«Io di Renzi voglio potermi fidare ma lui deve capire che una parte del Pd si batte per una sinistra di governo, aperta, inclusiva. Sono persone che non si adattano ad applaudire scelte che in passato hanno contrastato. Dipingere questo sentimento come il morto che afferra il vivo non aiuta a vedere dove siamo e temo precipiti il premier in una playstation».
Cosa consiglia a Renzi?
«Non avere paura di cambiare lo spartito».
Il Pd ha bisogno di un nuovo assetto?
«Questo lo valuterà il segretario. Io vedo un’ansia di compiacere che restituisce il profilo di un Paese segnato da trasformismi e lusinghe al potere, con il rischio di una classe dirigente inadeguata».
Resa dei conti in direzione, lunedì?
«Non è nel mio stile. Spero in una discussione franca. Dove dire che vogliamo un partito di nuovo radicato nel lavoro, nelle periferie, dove la società si organizza. E questo chiede a tutti, lo dico anche alle minoranze, uno scatto di ambizione, progetto, visione. Con SinistraDem lavoriamo per questo ».
A sinistra ci si organizza, Civati lancia il suo movimento e Vendola annuncia che presto ci sarà il nuovo partito. Lei traccheggia o pensa di approdare là?
«Io resto qui, anche perché credo nei ponti con quanto di buono c’è fuori da noi. Ma voglio un chiarimento su come si sta dentro un partito. Sono io a dire a Renzi: pensi che un tema del genere sia una questione solo di disciplina o non è tempo di discutere sull’idea di Paese, sui principi e sulle forze con cui presentarci agli elettori quando verrà il momento? Non rimpiango la vecchia ditta, sono per percorrere strade nuove perché resto convinto che senza una sinistra della speranza questo partito sbanda. Ma quella sinistra dev’essere una forza riconosciuta e non una testimonianza da esporre in vetrina o uno scalpo da esibire. Pensiamoci assieme».


La resa dei conti nel Pd minoranza dem all’attacco “Ora le riforme cambino” Renzi: “Io vado avanti”

L’ipotesi di rinviare la direzione convocata lunedì per evitare lo scontro in vista dei prossimi ballottaggi
di Francesco Bei, Goffredo De Marchis Repubblica 3.6.15
ROMA Il terreno dello scontro sarà la riforma costituzionale. Ovvero l’aula parlamentare del Senato dove la legge tornerà prima della pausa estiva. Per la precisione: i voti necessari ad approvarla in terza lettura. Voti che sulla carta non ci sono più. Perché serve la maggioranza assoluta degli aventi diritto, 161 “sì”. Senza Forza Italia, senza il soccorso azzurro di qualche spezzone di Fi (dopo le regionali più improbabile), senza i 20-30 dissidenti del Pd, quei voti mancano all’appello. La sinistra del Pd vuole lo scalpo della riforma, convinta che il combinato Italicum-abolizione del Senato sia un pericolo per gli equilibri democratici. Ma quelle norme sono anche il caposaldo della politica di Matteo Renzi. Impallinarle significa azzoppare il premier. «Se vuole un accordo può far decantare la situazione rinviando tutto a dopo l’estate — dice un bersaniano di ferro —. Altrimenti deve fare un’apertura vera per modifiche radicali».
Il presidente del Pd Matteo Orfini però non vede margini di trattativa. Nemmeno uno. «La narrazione della sconfitta alle regionali si basa su dati falsi. Basta prendere l’analisi di Vassallo che comprende anche le liste civiche assimilabili ai partiti. Forza Italia crolla, il Movimento 5 stelle passa dal 22 per cento al 17 e il Pd dal 42 al 37. È complicata definirla una disfatta». Manca la base sulla quale costruire una rivincita. Perciò Orfini è favorevole alla linea dura, almeno in questa prima fase. «Non si torna indietro sulle riforme, questo è chiaro». Ma non solo. «È necessario un chiarimento, una volta per tutte. Basta con i ricatti dei dissidenti. Abbiamo perso perché siamo stati 6 mesi a parlare di noi anziché del Paese».
Linea dura significa provvedimenti disciplinari per i ribelli? Orfini non lo dice ma mette insieme tre episodi: «Speranza voleva fare una dichiarazione di voto contro il suo gruppo sulla scuola. Così ci si comporta in una federazione di partiti non in una comunità omogenea. L’ex segretario Bersani dice in un’intervista, il giorno del voto, che il Pd fa schifo. Rosy Bindi chiede le scuse dopo il delirio degli impresentabili. Pazzesco. Quasi quasi De Luca fa bene a querelarla». Questo è il clima, dunque, a pochi giorni dalla direzione dell’8 giugno, la data del “chiarimento”. Che probabilmente slitterà, dopo che qualcuno ha fatto notare il pasticcio di appuntamenti. «Fare una direzione nella settimana dei ballottaggi non mi sembra una grande idea — dice Nico Stumpo —. Con queste premesse poi...».
Renzi è furioso con la sinistra. Pensa che occorra accelerare altro che frenare. Sulla scuola, altro provvedimento che è al Senato, le aperture sono già state fatte. Sulla riforma costituzionale, a Palazzo Chigi si ragiona intorno a due possibili correzioni: una legge ordinaria che restituisca agli elettori il potere di scegliere i senatori o un cambiamento radicale del testo che lo farebbe ripartire daccapo. Ma non è ancora il momento di cedere. «Renzi è determinato a non fare concessioni », spiega il vicesegretario Lorenzo Guerini. Ma la minoranza è sicura che il premier tratterà. «Renza manda avanti i soliti noti che fanno un po’ di casino — osserva l’ex capogruppo Roberto Speranza — ma in realtà capisce che la situazione è molto seria e deve aggiustare la linea». Altrimenti i dissidenti hanno oggi armi più potenti per convincerlo (i voti a Palazzo Madama) e un possibile piano B sotto forma di ribaltone, con un nuovo governo pronto a sostituire l’attuale. «Una follia — ribatte Orfini —. Se un pezzo del Pd fa mancare i voti in Parlamento si va alle elezioni. Punto».
I problemi al Senato non finiscono con la minoranza Pd. In queste ore una faglia verticale sta attraversando Area popolare, che a palazzo Madama conta su 36 senatori. Decisivi per Renzi. L’innesco della bomba è stata l’uscita di Gaetano Quagliariello, pronto a chiedere una «riflessione » sulla permanenza nell’esecutivo se il premier non dovesse accettare una revisione dell’Italicum con l’abolizione del premio alla lista. La verità, raccontano, è che ormai nel partito convivono due posizioni sempre più distanti. Quagliariello, d’accordo in questo con Maurizio Lupi, ritiene che il tempo della collaborazione con il Pd sia ormai esaurito, che sia meglio sganciarsi il prima possibile per costruire un’alternativa di centro- destra. Andrea Augello lo va predicando da tempo: «Alle regionali il vecchio Pdl, nelle sue varie articolazioni, è arrivato a totalizzare 18-20 punti percentuali senza più un leader e nelle condizioni peggiori. Figuratevi insieme alla Lega e con un candidato premier decente. Secondo me dobbiamo individuare un percorso federativo e poi indire subito le primarie del centrodestra. Affidando proprio alle primarie, cioè agli elettori, la scelta se dobbiamo restare al governo o farlo cadere».
A questa linea si contrappone quella del ministro Beatrice Lorenzin, convinta che la traiettoria di Area popolare sia ormai legata indissolubilmente al programma di riforme insieme al Pd. Tanto da non escludere in futuro una qualche forma di convergenza, anche elettorale, con il partito della Nazione. In ogni caso molti, dentro Ncd, ritengono sbagliata la rottura con Renzi ipotizzata da Quagliariello (di cui apripista è stata Nunzia De Girolamo). Proprio le due vice capogruppo al Senato, Laura Bianconi e Federica Chiavaroli, spalleggiate dal senatore Guido Viceconte, hanno minacciato il coordinatore di aspettarsi «amare sorprese» nel caso si dovesse votare nei gruppi l’uscita dal governo.


L’avvertimento dei ribelli dem

A sinistra molti sono convinti che il premier sia in realtà pronto ad aprire alla minoranza su nuovo Senato, scuola e persino sull’ItalicumGotor: Le Regionali sono andate in modo imprevedibilmente negativo per Renzi D’Attorre: Il dissenso che si èp manifestato è molto più ampio di quello visto in Parlamento Fassina: Se Renzi continua a menare fendenti sulla sinistra, il Pd con l’Italicum rischia
di Monica Guerzoni Corriere 3.6.15
ROMA Basta con le «prove muscolari» dell’uomo solo al comando, che «pretende disciplina» e trasforma gli organismi del Pd in un «votificio». Così ragiona la minoranza dopo la «non sconfitta» delle Regionali e si prepara ad alzare la voce lunedì, quando Renzi in direzione analizzerà i risultati del voto.
Bersani, Speranza e gli altri leader «barricaderi» non condividono la lettura «trionfalistica» di un Pd che vince per 5 a 2 e, dove perde, lo fa per colpa della «sinistra masochista». L’analisi della minoranza è assai più impietosa. Se i «dem» hanno perso due milioni di elettori dal 2014 è perché la base è delusa dalle scelte del governo, che paga pegno su scuola e jobs act. La prima conseguenza, stando sempre ai ragionamenti dell’ala sinistra, è che il partito della nazione è morto ancor prima di nascere. La seconda è che, d’ora in avanti, se vuole restare a Palazzo Chigi il premier-segretario dovrà «scendere a patti» con la minoranza dura e pura. Quella che non ha votato la fiducia sulla legge elettorale e che, al Senato, dispone di una ventina di voti in grado di far ballare la rumba al governo.
D’Attorre la vede così: «Il dissenso è molto più ampio di quello che si manifesta in Parlamento. Noi siamo un pallido riflesso dei veri gufi, che sono gli elettori... Renzi raddrizzi la barca». Toni che in direzione potrebbero alzarsi ancora di qualche decibel, visto che D’Attorre si augura lunedì di assistere a una analisi del voto «meno superficiale e autoconsolatoria». Per i dissidenti il punto politico è che la minoranza, come tanti elettori che si sono rifugiati nell’astensione, non è più disposta a «fare politiche non di sinistra con i voti della destra». E quindi Renzi deve cambiare registro, se vuole che il Pd non si spacchi. «La scissione l’hanno fatta gli elettori», ammonisce Fassina. E conferma di essere pronto all’addio se l’esecutivo non cambierà linea su scuola e legge di stabilità. «Non si tratta di fare processi di piazza, né di chiedere la testa di qualcuno — spiega il senatore Federico Fornaro — Ma se Renzi continua a menare fendenti sulle architravi della sinistra, come scuola e lavoro, il Pd con l’Italicum rischia. L’uomo solo al comando non funziona». E Davide Zoggia annota: «A forza di procedere a colpi di maggioranza il Pd è molto ammaccato. Se siamo tornati al 25% Renzi non può prendersela con Pastorino, né con noi che abbiamo chiesto i voti per la ditta».
Bersani non vuole rompere, Speranza e Cuperlo nemmeno. «Ma la direzione di marcia deve cambiare». E guai a minacciare sanzioni o cacciate, perché i richiami alla disciplina — avvertono i barricaderi — servono solo a inasprire gli animi. In realtà a sinistra i più si sono convinti che Renzi, essendo «ben più intelligente di molti renziani», abbia compreso i rischi che sta correndo e sia pronto ad aprire alla minoranza. Come? Rivisitando la riforma costituzionale nella chiave del Senato di garanzia invocato da Bersani, accettando altri ritocchi al ddl sulla scuola e persino modificando l’Italicum. «Sarebbe un segnale politico...», conferma Nico Stumpo.
La premessa di Gotor è che «le Regionali sono andate in modo imprevedibilmente negativo per Renzi». Il senatore non ritiene che la suggestione di un ribaltone a Palazzo Chigi possa concretizzarsi «dall’interno», visti i numeri esigui della minoranza. «Ma con un Pd così debole — avverte Gotor — il governo rischia di essere ribaltato dall’esterno, dalla crisi o dall’Europa». Se è vero che la minoranza non complotta contro Renzi e lavora per costruire l’alternativa e riprendersi il Nazareno, di certo non è disposta a fare sconti al premier, né a subire «anatemi». Stumpo ha letto con fastidio gli avvertimenti attribuiti a Renzi, del genere «chi non vota secondo la linea del Pd si mette fuori da solo». Per il deputato che guidava la macchina del Pd ai tempi di Bersani, «se Renzi verrà a dirci queste cose andremo a sbattere». Il segretario dovrà fare autocritica, ammettere che qualcosa non quadra: «Il riformismo dall’alto non produce effetti e le riforme si fanno dal basso, non a dispetto dei santi». Insomma, se vuole portarle a casa «tolga il piede dall’acceleratore», accetti il confronto e «rinunci a scrivere regole punitive contro i dirigenti del Pd». Al congresso del 2017 mancano due anni, ma la battaglia è iniziata. Speranza è in campo e studia da leader. A meno che, come ama dire l’ ex capogruppo, «non arrivi Maradona». E in questo scenario i nomi che si fanno sono quelli di Enrico Letta, Nicola Zingaretti ed Enrico Rossi.


Perché l’Italicum può trasformarsi in una roulette russa

Il sistema elettorale si sta solidificando in tre poli non in due e la competizione bipolare appartiene a un passato che non ritorna
di Piero Ignazi Repubblica 3.6.15
LE ELEZIONI regionali prefigurano un ritorno al passato? Il calo del Pd e la crescita del centro-destra nel suo complesso hanno riportato in parità i due schieramenti che si sono contrapposti per vent’anni. In realtà, un tempo si parlava dello scontro tra un centrosinistra e un centro-destra; ora il centrosinistra non esiste più. È rimasto in gioco solo il Pd, che ha coronato la sua vocazione maggioritaria vampirizzando ogni possibile alleato e snobbando ogni ipotesi coalizionale. In splendida solitudine, i democratici si preparano alla sfida finale per il premio di maggioranza alle prossime elezioni politiche. L’Italicum, ritagliato su misura del “partito della Nazione” del 41% di un anno fa, rischia di diventare una roulette russa. Perché il sistema elettorale si sta solidificando in tre poli, non in due. La competizione bipolare appartiene ad un passato che non ritorna. Per tre ragioni.
La prima: finalmente si è capito che il M5S non era una meteora e che il 21% delle europee dell’anno scorso costituiva una conferma importantissima del successo iperbolico delle politiche, un risultato “ultraterreno” come brillantemente l’ha definito Piergiorgio Corbetta, dell’Istituto Cattaneo. Il M5S, arrivando oggi primo in tre regioni, secondo in due, si dimostra una forza politica consolidata e robusta. E questo nonostante il — o grazie al — passo indietro di Beppe Grillo. Il radicamento elettorale dei 5Stelle impedisce una competizione bipolare come l’abbiamo conosciuta. Perché sono loro i kingmaker nel caso in cui Pd e centro-destra in qualche forma ricomposto arrivassero al ballottaggio. Ha allora ragione il governatore della Puglia, Michele Emiliano, e altri con lui, a cercare un rapporto con il M5S in vista di scenari futuri? Esiste poi un’altra eventualità che vede i grillini protagonisti, e cioè che il ballottaggio sia tra Renzi e Di Maio. Cosa farà la destra a quel punto? In odio alla sinistra voterà in massa per il candidato grillino, come il caso Pizzarotti a Parma insegna? Oppure Renzi per scongiurare resusciterà — è il caso di dirlo — il Nazareno? Il gioco a tre ha molte varianti.
Il secondo fattore che impedisce un ritorno al passato è dato dalla nuova configurazione del centro-sinistra. Come detto, esiste solo il Pd, per ora. Che si riconosce, ed è riconosciuto, in Matteo Renzi. Il partito democratico dispone per la prima volta di una leadership di grande impatto mediatico. In queste elezioni, pur essendosi speso, Renzi non era direttamente in campo. Quando si voterà per il governo tutta l’attenzione sarà catalizzata su lui. Il leader democratico saprà farvi fronte dimostrando quale macchina da voti sia. Per questo il Pd è molto più competitivo rispetto al passato. Ad una condizione, però. Che il segretario smetta i panni gladiatori e strafottenti nei confronti dell’opposizione interna (ma si ricorda quello che diceva della classe dirigente del suo partito quando era all’opposizione?). Senza una opera di ricucitura interna — e di recupero dei fuoriusciti — le fratture diventano una zavorra insostenibile. E la tentazione di rimanere solo con i fedeli e i puri è sintomo di quella malattia infantile di cui parlava un grande rivoluzionario di inizio Novecento. Inoltre, senza una attenzione all’organizzazione periferica il Pd rischia di isterilirsi, di diventare un terreno popolato da notabili locali dotati di risorse persopochi nali tali da potersi autonomizzare dal centro. Un Pd più inclusivo e più attento al territorio garantisce, pur in solitudine, una maggiore competitività rispetto al passato.
Terza differenza rispetto agli assetti di un tempo, l’incerta configurazione della destra. Dal 1994 in poi tutto quello schieramento ruotava attorno al Re Sole Berlusconi. Il Cavaliere copriva con la sua immagine suadente e rassicurante l’animus aggressivo ed estremista dell’elettorato ex-democristiano e variamente qualunquista. Solo grazie ad un abile gioco di specchi e di manipolazione mediatica l’elettorato forza-leghista veniva scambiato per moderato. Ma non lo era per nulla. Anzi, il disprezzo per le regole del gioco e lo stato di diritto, le spallate alle istituzioni, l’aggressività becera contro gli avversari politici — basti pensare alle commissioni parlamentari di inchiesta anti-Prodi, Telekom-Serbia e Mitrokin — eccitavano gli animi allo scontro e alla delegittimazione. Oggi quella destra si trova pienamente rappresentata da Matteo Salvini, dalle cannonate contro gli immigrati e dalla ruspe contro gli insediamenti dei rom. Ma Salvini, non può essere un leader vincente perché se trionfa in Veneto, nel sud non prende nemmeno un voto. Rimarrebbe un leader dimezzato e, alla fine, perdente. La destra, quindi, è in cerca d’autore, sia per un programma, sia per una leadership unificante. Un tempo Berlusconi copriva tutto con il suo smagliante sorriso, ora ci sono solo le felpe salviniane. Troppo poco per contrastare un Pd ricalibrato. E persino un post-grillismo. Per cui, rischia di rimanere fuori dal ballottaggio. Insomma, con la tripartizione dello spazio politico l’Italicum è diventato una roulette russa.


L’astensione dei disillusi colpisce nelle regioni rosse

di Silvio Buzzanca Repubblica 3.6.15
ROMA I seggi sono chiusi, i voti contati, impazzano le analisi politiche sul voto delle 7 regioni di domenica. Ma il buco nero dell’astensionismo, il rifiuto del voto che ha colpito quasi metà degli elettori, è sotto gli occhi di tutti. Si è presentato al seggio infatti, solo il 53,9% dei 18.976354 aventi diritto. Cioè 10.228.250 votanti. Cosa che preoccupa molto la presidente della Camera Laura Boldrini che considera «l’astensionismo la cosa più terribile».
L’Istituto Cattaneo ha cercato di fare luce in questo tunnel in cui è entrata la democrazia italiana ed è giunto alla conclusione che «si è trattato di un forte calo, anche se va sottolineato come l’ipotesi più pessimistica di una replica del crollo del 2014, quando si votò in Emilia Romagna e Calabria, non si sia verificata nonostante tutte le condizioni sfavorevoli fossero presenti». Tuttavia «la lettura dei risultati mostra come l’astensione sia divenuta per la prima volta l’opzione maggioritaria o prossima ad esserla in diverse regioni del paese».
I ricercatori Dario Tuorti e Maria Regalia hanno messo insieme le serie storiche del voto regionale confrontandolo con quello per le politiche ed europee. E alla fine cifre e grafici rivelano che l’astensionismo alle Regionali è ormai di lunga durata. Ma soprattutto che domenica si è manifestato in maniera più forte nelle “regioni rosse”. Il primato è della Toscana, dove rispetto alle politiche del 2013 c’è un calo dell’affluenza del 30,9%. Il raffronto con le Europee dell’anno scorso dice meno 18%. Anche nelle Marche manca all’appello il 30% per cento dei votanti delle politiche e il 15,8% delle Europee. E in Umbria le due percentuali dicono meno 24,1% e meno 15,1%. E anche in Liguria la disaffezione si è fatta sentire con un meno 10 per cento rispetto alle due precedenti tornate elettorali.
Tuorti spiega che «il fenomeno si spiega con il fatto che in queste regioni c’erano aspettative molto elevate che sono state tradite. Ovviamente incidono anche la crisi che va avanti dal 2008 e gli scandali che hanno colpito i consigli regionali, la delegittimazione complessiva dell’istituto regionale». E in effetti, dicono al Cattaneo, anche se potrebbe sem- brare un paradosso, gli elettori oramai percepiscono più importanti le elezioni Europee che quelle regionali.
Tuttavia, continua Torti, il dato di sostanziale stabilità delle regioni meridionali non si spiega con «un possibile voto clientelare nelle regioni meridionali perché i margini per queste pratiche non esistono quasi più». E dunque il primato negativo del centro nord può trovare spiegazione in un fenomeno più generale.
«Nel passato - spiega Tuorti . una certa astensione esprimeva una forma di protesta verso il partito di appartenenza, un messaggio di disapprovazione. C’era insomma una forma di partecipazione attiva anche nell’astensione e si poteva tranquillamente tornare a votare al turno successivo». Oggi, continua il ricercatore del Cattaneo «siamo di fronte ad una massa di elettori che scivolano dall’astensionismo “attivo” verso l’altra forma, quella dell’apatia che tende a tenerli costantemente lontano dai seggi. I cittadini cominciano ad essere sempre di più disillusi davanti alla mancanza di risposte».
La cosa grave di questo fenomeno continua il ricercatore del Cattaneo, «è che l’astensionismo non è distribuito equamente fra le diverse fasce degli elettori, ma rappresenta solo certe fasce sociali che coinvolge disoccupati, marginali non garantiti». Un massa di cittadini che il sociologo Emanuele Ferragina chiama «la maggioranza invisibile» e quantifica in 23/25 milioni di elettori.


Meno preferenze sulla scheda. E l’astensione toglie voti al Pd

I flussi dell’Istituto Cattaneo nelle città Anche la Lega cresce a spese dei dem Molti gli elettori che non indicano nomi
di Renato Benedetto Corriere 3.6.15
Milano È il partito del non voto ad aver sottratto, in misura maggiore, consensi alle principali formazioni. A cominciare dal Pd, che è stato il simbolo più votato di queste Regionali, ma è quello che, nel confronto con le Europee di un anno fa, ha lasciato a casa più consensi (circa 2 milioni, voti quasi dimezzati). Il partito di Matteo Renzi ha sofferto soprattutto verso l’astensione, ma non solo: in alcune Regioni perde elettori a favore dei Cinque Stelle o della Lega. Anche il Movimento lascia al non voto un discreto pacchetto di consensi, ma dall’astensione riesce ancora, sebbene meno, a pescare. Mentre la Lega, unica ad aver ingrossato il bottino elettorale, ruba un po’ a tutti.
Questo il quadro che emerge dall’analisi dei flussi elettorali dell’Istituto Cattaneo, che ha confrontato i dati delle Europee 2014 con quelli delle Regionali in alcune città: La Spezia (per la Liguria), Padova (Veneto), Livorno (Toscana), Perugia (Umbria), Napoli e Salerno (Campania), Foggia (Puglia). Per rispondere al quesito: dove sono andati i voti persi dai partiti (o, per la Lega, da dove provengono)?
Il Pd è, appunto, il partito che ha più «flussi in uscita», cioè che rispetto alle Europee ha perso più consensi. «Come poteva non essere così? — commenta Piergiorgio Corbetta, del Cattaneo — . In Italia un partito del 41%, il risultato straordinario del Pd nel 2014, non si è mai visto negli ultimi 20 anni». I dem pagano il confronto con il loro record. In ogni caso le perdite vanno soprattutto verso l’astensione: con vette a Padova (il 10% dell’elettorato) e Livorno (11,7%). Potrebbero aver pesato le polemiche interne al partito e i conflitti della sinistra con il governo, che hanno disorientato parte dell’elettorato. Ma i dem cedono anche ai cinquestelle, in 6 casi su 7 (a Salerno però è De Luca ad attrarre voti grillini), con picchi in Toscana e in Liguria: a La Spezia danno il 4% al M5S; a Livorno il 2,8%. In queste due città cedono anche alla Lega: in Liguria il 3%. Qui gli elettori ex Pd seguono più il Carroccio di un ex pd: a Luca Pastorino e alla sinistra, dai dem, va il 2,3% degli elettori.
«Alle Europee il Pd aveva guadagnato voti anche a discapito dei 5 Stelle. Potrebbero essere tornati a casa: allora Renzi era la novità, ora è al governo. Poi possono aver giocato gli scandali o il caso impresentabili», spiega Corbetta. Per il flusso dal Pd alla Lega, invece, «può aver avuto un peso la protesta contro l’immigrazione o la criminalità, che trova un’accoglienza nell’elettorato popolare, più esposto a questo conflitto, anche per la crisi».
Quelli di protesta, in ogni caso, sono voti volatili. Ne sa qualcosa il M5S, che in queste elezioni, pur consolidandosi con percentuali tra il 10,4 e il 22,3, perde quasi 900 mila consensi rispetto alle Europee. Molti finiti all’astensione: soprattutto a Livorno (6,3%) e Foggia (9,9%). Ma dal non voto il Movimento prende ancora (a La Spezia, il 5,3% degli elettori). «Come se ci fosse una contiguità tra la protesta e il voto ai Cinque Stelle, un elettorato a cavallo che sceglie di volta in volta», per Corbetta.
La Lega, che in alcuni casi sottrae voti al Pd, prende anche dall’area «di protesta», da Grillo e dall’astensione. Appare invece basso il travaso di voti da Forza Italia al Carroccio. In Campania e Puglia le vittorie di Emiliano e De Luca sono state accompagnate dal successo delle liste a loro collegate, capaci di attrarre da più direzioni (dall’astensione, da Grillo e, in Campania, anche da FI) .
Da segnalare poi il ricorso, sempre minore, al voto di preferenza. Il «tasso di preferenza» (che misura quanto gli elettori abbiano usato questa possibilità, indicando uno o più nomi) va dal 25,7% in Umbria al 44,6% nelle Marche. Non supera mai la metà degli elettori. In Campania, dove è esploso il caso impresentabili, l’uso delle preferenze è passato dal 76,9% del 2005 al 38,6% in dieci anni. A usarle di più sono gli elettori Pd. Meno Lega e M5S . 

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