venerdì 9 ottobre 2015

Putin e Lukashenko vincono il Nobel per la letteratura per interposta persona

Risultati immagini per putin lukashenkoChiunque emigri da un paese non NATO ed abbia almeno scritto un biglietto d'auguri, rischia di vincere il nobel per la letteratura peggio che ai tempi della guerra fredda. Per la felicità del Manifesto [SGA].

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Aleksievic, Nobel in umanità
SVETLANA ALEKSIEVIC Avvenire 5 dicembre 2015

Così il Nobel della realtà rivoluziona la letteratura 
Con il riconoscimento alla Aleksievic cadono i pregiudizi sulla non fictionROBERTO SAVIANO Repubblica 12 10 2015

Mosca: una scelta politica 
Anna Zafesova Stampa 9 10 2015
Il Nobel per la letteratura torna a parlare russo: 28 anni dopo Iosif Brodskij gli accademici svedesi hanno premiato Svetlana Aleksievich, che si definisce come «appartenente al mondo bielorusso, alla cultura russa e una cosmopolita nel mondo». La scrittrice - che ieri ha parlato da Minsk, dove i suoi libri sono banditi - si definisce una «esploratrice della civiltà rossa», e considera i suoi cinque libri «un unico libro», una storia dell’homo sovieticus raccontata da lui stesso, affrontando argomenti scomodi e contundenti: la guerra, l’Afghanistan, Cernobil , la tragedia di un popolo, apparentemente infinita. Nel suo primo giorno di gloria mondiale parla della «occupazione» e «invasione» russa dell’Ucraina e denuncia i «dittatori come Putin e Lukashenko che confidano nella cultura del collaborazionismo».
Il governo di Minsk ha ignorato la sua connazionale più famosa, ma il Nobel di Alexievich imbarazza soprattutto Mosca. Svetlana è un esempio di quel «mondo russo» culturalmente più vasto dei confini della Federazione di cui Putin si è fatto paladino, ma precisa: «Amo il mondo russo dell’arte e della scienza, ma non amo l’84% dei russi che vogliono uccidere gli ucraini». Dal portavoce di Putin è arrivato un messaggio di congratulazioni a denti stretti: «Ci complimentiamo, ma sono certo che lei non sia informata per poter dare un giudizio positivo sull’Ucraina». Il governativo Rossiyskaya Gazeta l’ha applaudita, pur sottolineando le divergenze ideologiche. Altri commentatori preferiscono prendere le distanze: non è russa, anzi, di madre ucraina, non è una scrittrice ma solo una giornalista, non abita in patria ma in Europa, e il suo Nobel è troppo carico di politica.

Il messaggio è politico: un’altra Russia è possibile
9 ott 2015 Corriere della Sera di Luigi Ippolito © RIPRODUZIONE RISERVATA
Alla fine di un dibattito a Milano sul suo libro Tempo di seconda mano, Svetlana Aleksievic aveva un gran mal di testa. Un’addetta stampa tira fuori dalla borsa una bustina di Oki, ma la scrittrice la guarda con sospetto: «No, no, che cos’è questa roba, meglio di no...». E si tiene il mal di testa. La classica reazione russa, o meglio (post)sovietica, di fronte alle diavolerie occidentali. Perché la Aleksievic è metà bielorussa, metà ucraina e scrive in russo: ma è più di tutto questo, è la coscienza intellettuale dell’ex Urss. Ed è a quello spazio politico che bisogna guardare per capire la valenza di questo premio Nobel.
Lei stessa ieri ha messo in chiaro ancora una volta la sua posizione, dopo aver rivelato che la notizia dell’assegnazione l’aveva colta mentre «stava stirando a casa»: «Amo il buon mondo russo — ha detto —, amo il mondo umanitario russo, non amo il mondo russo di Stalin, Beria e Shoigu»: un riferimento alla dittatura, al Kgb e al militarismo (l’ultimo personaggio è il ministro della Difesa di Vladimir Putin). E non si tratta di accuse generiche: subito dopo ha bollato come «un’occupazione, un’invasione straniera» l’intervento russo in Ucraina.
Ma è tutta l’opera della Aleksievic ad essere eminentemente politica: «Una mappatura dell’anima» delle genti sovietiche e postsovietiche, l’ha definita l’Accademia del Nobel. Ma con una portata critica verso l’attualità: alla fine del suo libro più recente individuava la speranza futura nei nastri bianchi comparsi sul petto dei manifestanti che erano scesi in piazza a Mosca nel 2012 per reclamare più democrazia.
«Sono emozioni complicate», è stata la sua reazione al premio. «Evoca immediatamente grandi nomi come Bunin o Pasternak. È una sensazione fantastica, ma che allo stesso tempo disturba». Lei voleva certamente schermirsi, ma il segnale arrivato da Stoccolma va proprio in quella direzione, quella dell’autore del
Dottor Živago (e poi di Solženitsyn): scrittori che hanno testimoniato con la vita e con l’opera la resistenza al totalitarismo.
E forse non è neppure una coincidenza che il giorno prima dell’annuncio cadesse il nono anniversario dell’assassinio di Anna Politkovskaja: come la giornalista moscovita, anche la Aleksievic è una delle poche voci rimaste a bucare la cappa del conformismo, nonostante il prezzo personale (tanto da confidare di sentirsi più al sicuro a risiedere in Bielorussia, pur oppressa dal regime di Lukashenko).
È questo il messaggio lanciato da Stoccolma: Putin, Lukashenko, l’autoritarismo, non sono l’unico orizzonte possibile per i popoli usciti dall’Unione Sovietica. Un’altra Russia è (ancora) possibile.

«In Bielorussia è tempo di barricate Le elezioni di domenica? Non voterò»
9 ott 2015 Corriere della Sera
Le prime dichiarazioni, al canale svedese Stv subito dopo l’annuncio dell’Accademia, hanno dato la misura di quanto quello a Svetlana Aleksievic sia un Nobel politico: «Ringrazio la Svezia perché capisce il dolore russo». Poi, a Minsk, nella sede del giornale d’opposizione «Nasha Niva», le bordate al governo bielorusso, accusato di boicottarla e ignorarla, e a Vladimir Putin. Alle accuse sulla «occupazione» dell’Ucraina ha ribattuto Dmitri Peskov, portavoce di Putin: «Probabilmente non possiede tutte le informazioni necessarie per dare una valutazione positiva di ciò che sta accadendo». Parlando del suo Paese la scrittrice ha detto: «Il potere bielorusso fa finta che io non ci sia, non pubblicano i miei libri, non posso fare discorsi da nessuna parte». Poi ha aggiunto: «Non sono una barricadera, ma i tempi ci trascinano verso le barricate perché quello che sta avvenendo è vergognoso». La scrittrice ha annunciato che probabilmente non voterà alle presidenziali di domenica, dove Aleksandr Lukashenko si presenta per un quinto mandato, ma che se dovesse farlo voterà la candidata dell’opposizione Titiana Karatkevich. In serata le congratulazioni di Lukashenko: «Sono sinceramente lieto del suo successo — si legge in una nota —. Spero molto che il suo premio serva al nostro Stato».      

La scrittrice bielorussa che raccontò Chernobyl l’Afghanistan e la “nuova voglia di impero”
Il Nobel di Svetlana Il premio alla Aleksievic “Amo la Russia,non Putin”WLODEKGOLDKORN Repubblica
Capita che la grande letteratura nasca in periferia, nelle cucine odoranti di cibi, sulle panchine dei giardini pubblici in mezzo ai villaggi anonimi dove l’unico passatempo è raccontare e ascoltare storie. È il caso di Svetlana Aleksievic, Nobel per la letteratura 2015, nata nel 1948 in Ucraina, in una città che una volta si chiamava Stanislawow, che oggi porta il nome Ivano Frankivsk; lei stessa mezza ucraina e mezza bielorussa, ma scrittrice di lingua russa; cresciuta in un paesino tra foreste e stagni. E anche l’ambiente in cui si è tenuta la conferenza stampa della scrittrice ha qualcosa di periferico, ma anche di immediatamente politico: stanze modeste, arredate come se fossimo negli anni Settanta, in una città, Minsk, che porta ancora, intatti, i segni del periodo sovietico. Sembrava una riunione di dissidenti, la conferenza stampa. Lei, la protagonista, prima di incontrare giornalisti e fan confessa alla tv svedese, con sconcertante semplicità: «Stavo stirando mentre mi è arrivata la telefonata con l’annuncio del premio». Ma subito come, appunto, in una riunione dei dissidenti, si parla di politica. E giustamente: in fondo, questo è un Nobel che premia una scrittura di profondi risvolti esistenziali, ma che narra l’attualità e la cronaca. «Amo il mondo russo, ma non quello di Stalin e Putin», dice e aggiunge: «E non mi piace neanche l’84 per cento dei russi che chiede che gli ucraini vengano uccisi». Per quanto riguarda l’impegno dei soldati di Putin in Siria, pensa che si tratti di un’avventura che possa trasformarsi in una tragedia come lo fu per i sovietici la guerra in Afghanistan. Definisce la politica russa in Ucraina «un’occupazione» ma ce l’ha anche con il presidente bielorusso Lukashenko, ex capo di un kolkhoz, al potere dal 1994 e che ha trasformato il Paese in una specie di riproduzione postmoderna di quella che fu l’Urss. Aleksievic chiarisce: «Il potere bielorusso fa finta che io non ci sia». Domenica si vota per le presidenziali e quindi lei continua a parlare di politica: «Non sono una barricadera, ma i tempi ci trascinano verso le barricate perché quello che sta avvenendo è vergognoso». Politica, dunque, come politica è stata la scelta degli accademici di Stoccolma. Ma anche letteraria. La narrazione della scrittrice nasce nella sua infanzia, in due piccoli villaggi: l’uno, bielorusso, dove abitava, l’altro, ucraino, dove andava in vacanza.
Da sempre ama raccontare Aleksievic: «Sono cresciuta ascoltando narrare le vicine di casa, le donne del villaggio. Parlavano della guerra». In Bielorussia e Ucraina, la guerra fu particolarmente crudele – tra attività dei partigiani sovietici, rappresaglie dei tedeschi e massacri degli ebrei – come forse da nessun’altra parte del nostro continente. Infatti, come rilevato dalla giuria di Stoccolma e da numerosi critici, i libri di Aleksievic sono polifonici, corali, assomigliano a delle sinfonie, ma sopratutto sono intrisi dal dolore.
Dai racconti delle donne sentiti nell’infanzia è nata la curiosità per la storia ai tempi della morte facile e delle scelte difficili, e per le storie delle donne. Diventata nel frattempo giornalista, Aleksievic, e siamo alla fine degli anni Settanta e primi Ottanta, va in giro per l’Urss e intervista donne che hanno partecipato a quella che Stalin chiamò e che si chiama ancora “La grande guerra patriottica”. Ne viene fuori un libro sconvolgente, La guerra non ha un volto di donna (in Italia uscirà a novembre con Bompiani) che le procura guai con le autorità e difficoltà con la censura. «La guerra al femminile ha i suoi colori particolari, le proprie parole. Nella guerra al femminile non ci sono eroi», ha scritto nel libro. E ha raccontato come le donne non parlino di vittorie, ma dell’anima. Stupendo in quel libro il racconto di una militare (perché c’erano donne cecchini e donne carriste) che vede sull’acqua, durante l’assedio di Leningrado scorrere centinaia di berretti da soldati; è quello che rimane della truppa. E terribile è il racconto di una telegrafista partigiana che annega suo figlio piangente per paura che il suo reparto fosse scoperto dai tedeschi.
A quel punto Aleksievic, è ormai avviata alla carriera letteraria. In aiuto le viene la perestrojka di Gorbaciov. Ma prima viene la glasnost, la trasparenza. Dovuta, a sua volta, alla catastrofe di Chernobyl. «Chernobyl mi ha cambiata, mi ha pro-iettato in un’altra realtà, dove la natura, l’acqua, le piante, tutto è diventato minaccioso», raccontò. E per tornare alle donne: «Vidi i funzionari e i militari smarriti. Solo le anziane donne riuscivano a comprendere». Preghiera per Chernobyl (tradotto in Italia da e/o) è un bestseller, tradotto in numerose lingue, e la proietta allo status di celebrità internazionale. Aleksievic è convinta che la sua «letteratura dei fatti sia oggi più potente della fiction, delle storie che possiamo inventarci». Nel dirlo, la Nobel rimanda a due modelli letterari, in cui si riconosce. Il primo è Dostoevskij: «Le sue storie le cercava sui giornali»; l’altro da lei stessa riconosciuto come un maestro diretto è Ales Adamovic. Partigiano, scrittore bielorusso (ma scriveva anche in russo), Adamovic, sconosciuto all’estero ma venerato nell’ex Urss, raccontava ciò che ha vissuto e visto. E infatti, uno dei libri più belli e che segnano il coinvolgimento politico diretto di Aleksievic è Ragazzi di zinco (e/o), racconto, sempre corale, dei soldati sovietici in Afghanistan. Ha detto una volta: «Visitavo ospedali militari. Vedevo dei ragazzi senza gambe e senza braccia. Oggi non credo che avrei il coraggio di farlo». E parlando della guerra oggi in Ucraina: «Ho visto in una foto un convoglio che portava le bare coi soldati caduti; ar- rivava in un paesino e tutta la popolazione, si inginocchiava lungo la strada. E io piangevo e piango ancora, perché mi rendo conto quanto poco possa fare la parola». E tuttavia, la parola rimane la sua arma, come dimostra in Tempo di seconda mano (Bompiani): 700 pagine di racconti delle gente comune che riflette su quel che è rimasto del comunismo, con forti rimandi alla Russia di oggi, a Putin e con una sorprendente nostalgia per Stalin e per l’Urss. Figlia di due insegnanti Aleksievic ama ricordare: «Mio padre era comunista, ha voluto che nella sua bara ci fosse anche la sua tessera di Partito ». Ecco, l’animo umano, di cui pochi scrittori sanno narrare come lei, per Aleksievic è un qualcosa di complesso, contraddittorio, degno sempre di interesse.
Il Nobel l’ha sorpresa mentre stava indaffarata in vicende domestiche. E la cucina è davvero un luogo che cita spesso. Un anno fa ha spiegato a Repubblica quanto ai tempi eroici del dissenso, gli oppositori si riunissero nelle cucine delle loro case, e come «dalle cucine non siamo mai usciti, visto che non abbiamo compreso che la storia avrebbe prodotto Putin, la voglia di impero e il consenso popolare per tutto questo». Letteratura e la politica: certo contro Putin e contro Lukashenko, ma prima di tutto dalla parte delle donne. Sempre.


Nobel a Aleksievic, la voce anti Putin
La scrittura come protesta interiore «Voglio restare un essere umano e non arrendermi all’enormità del male»
9 ott 2015 Corriere della Sera di Maria Nadotti Ippolito con un inedito di Svetlana Aleksievic
Massimo riconoscimento per la letteratura all’autrice e giornalista bielorussa Svetlana Aleksievic: per la «polifonica scrittura nel raccontare un monumento alla sofferenza e al coraggio dei nostri tempi». Un messaggio di Stoccolma anche alla Russia di Putin. La bielorussa Svetlana Aleksievic è una scrittrice amata in tutto il mondo e invisa al regime del suo Paese. «Oggi — mi ha scritto qualche tempo fa, subito dopo l’assassinio camuffato da suicidio del giornalista bielorusso Oleg Bebenin, fondatore del sito d’opposizione Charter97 — è particolarmente importante sentire che non si è soli».
La sua metodologia di scrittura è complessa, rigorosa, controcorrente. Come lei stessa dice: «Ho cercato un metodo letterario che mi permettesse di accostarmi quanto più possibile alla vita reale. La realtà mi ha sempre attirata come un magnete, torturandomi e ipnotizzandomi. Volevo catturarla sulla pagina e alla fine ho scelto un “genere” che combina la viva voce di uomini e donne, confessioni, testimonianze oculari e documenti. È così che percepisco e vedo il mondo: un coro di voci individuali e un collage di dettagli quotidiani. Solo in questo modo il mio potenziale mentale ed emotivo trova piena realizzazione. Non posso fare a meno di essere allo stesso tempo scrittrice, reporter, sociologa, psicologa, sacerdote».
Le opere di Aleksievic potrebbero essere definite una cronaca della nostra epoca, il tracciato evolutivo di varie generazioni sovietiche, dall’infatuazione, seguita dal disincanto, di fronte alla grande utopia al disorientamento del cittadino post-sovietico davanti al suo crollo e alla nuova realtà. La storia nel suo farsi viene «riferita» da donne e uomini comuni. Compito di chi scrive è restituirla con onestà e lucidità, senza sovrapporsi ai propri «informatori» e senza mai dimenticare il debito di fiducia che si è contratto nei loro confronti.
Nata nel 1948, Aleksievic si è laureata in Giornalismo presso l’Università di Minsk e, prima di scegliere definitivamente la strada del reportage di ampio respiro e della scrittura per il teatro, ha lavorato per varie testate giornalistiche. In Francia, Germania, Svezia, Svizzera, Bulgaria i suoi libri sono stati adattati per il teatro e portati sulla scena, dai suoi drammi teatrali sono stati ricavati svariati film documentari.
Nonostante l’enorme popolarità, dopo il successo di The War’s Unwomanly Face ( La guerra non ha un volto di donna, edito nel 1983, in uscita per Bompiani), è stata accusata di «aver dipinto a tinte non sufficientemente eroiche la donna sovietica» e, fino all’avvento della perestrojka, ha vissuto anni durissimi di persecuzione. È nel 1989, tuttavia, con il reportage Ragazzi di zinco (sulla guerra tra Urss e Afghanistan vista attraverso gli occhi dei protagonisti), che Aleksievic deve affrontare il periodo più cupo della sua vita professionale. Accusata di disfattismo, è denunciata e portata in tribunale. La salverà la mobilitazione degli intellettuali democratici russi e bielorussi e di varie organizzazioni internazionali per i diritti umani, che si schiereranno al suo fianco e bloccheranno l’azione legale intentata contro di lei.
Nel 1993 pubblica Incantati dalla morte, un requiem sulla fine dell’utopia e sullo smarrimento di chi, non sapendo ripensarsi fuori dalla cornice del socialismo reale, sceglie di sottrarsi all’ignoto attraverso il suicidio. Nel 1997 dà alle stampe Preghiera per Cernobyl, un amoroso, monumentale oratorio sul «dopo-disastro» in cui l’autrice smette di «scrutare» le sofferenze altrui per riconoscersi ella stessa testimone, «una in mezzo agli altri». È da qui, dalla semplice constatazione che tra voce narrante e cosa narrata non c’è margine o possibile distanza, che hanno origine un esperimento di scrittura e un’invenzione narrativa che vanno dritti al cuore e alla coscienza di chi legge. Quel dichiararsi dell’autrice parte del «popolo di Cernobyl» produce una sorta di vortice emotivo: d’ora in avanti le molteplici voci da lei raccolte, le infinite piccole storie di vita, sofferenza, malattia e morte, pazientemente registrate in tre anni di ricerca, diventeranno la sua voce. Un abisso di dolore e di sgomento, la presa d’atto che a Cernobyl è successo l’impensabile. Quel giorno, insieme al quarto reattore della centrale, si è infranta per sempre la possibilità di affidarci alle percezioni corporee, di contare sui nostri sensi.     
Il metodo di Aleksievic ha del vertiginoso. Ciò che la muove è la volontà di capire dall’interno e dal basso come si sia riorganizzata la vita di chi, in pochi secondi, si è visto proiettare in un universo che neanche la letteratura fantascientifica più terminale aveva saputo anticipare. Il suo strumento d’indagine è l’ascolto, la capacità di stare a lungo, indifesa e modesta, accanto a tante persone comuni, fino a guadagnarsene la fiducia e a ricostruire con loro quei dettagli che, assai meglio di qualsiasi teoria, sanno illuminare i processi della storia. «Noi cernobyliani — le dice un insegnante di applicazioni tecniche — siamo spesso silenziosi. Non gridiamo e non ci lamentiamo. Sopportiamo. Anche perché non ci sono ancora le parole. Il mondo si è diviso: ci siamo noi, quelli di Cernobyl, e ci siete voi, tutte le altre persone...». Questo «popolo a parte», cui il male assoluto ha fornito una cittadinanza inedita, è ora alla ricerca di un senso. Non per farsi una ragione di ciò che è accaduto, ma per non affondare nel caos totalitario della paura. Paradossalmente, infatti, questa corale Preghiera per Cernobyl, che si interroga e interroga sul mistero del male, è un formidabile testo sull’amore. Perché, come dice l’autrice, «la mia scrittura è un atto di protesta interiore: voglio restare un essere umano e non arrendermi all’enormità del male. Il lavoro dell’intellettuale è avvicinarsi sempre più alla realtà. Se però non si riesce a mettere a fuoco il senso di questa ricerca,
ne viene fuori solo il magazzino degli orrori. Dobbiamo chiederci come liberare i nostri testi da ogni incrostazione emotiva, pur senza perdere la nostra individualità; come trasformare in arte, in parola, ciò che nella vita reale può farci svenire. Descrivere lentamente la morte di un uomo non è estetizzarla, è dire che non è giusto morire così».
La sua ultima opera, il monumentale Tempo di seconda mano, alla cui scrittura Aleksievic ha dedicato tredici anni della sua vita e che le è valso il meritatissimo premio Nobel per la letteratura, è un’indagine sulle alterazioni prodotte dal crollo dell’impero sovietico nella vita materiale e nello spirito dei suoi non più «asserviti» cittadini, è portatore di verità brucianti e dolorose. Con la consueta capacità di guardare il reale senza distogliere lo sguardo, Aleksievic racconta la disfatta del modello comunista, restituendo con implacabile fedeltà le voci dell’uomo e della donna della strada. La guerra in Cecenia narrata dai suoi intervistati è, per esempio, un mestiere come tanti. Ci si arruola per sbarcare il lunario.
«Prima di imparare a scrivere bene — mi diceva tempo fa l’autrice — bisogna trovare se stessi. Quel che definisce il grande scrittore non è soltanto la sua capacità di scrittura. Il grande scrittore è una totalità, un mondo, una maniera di pensare, di cui lo stile non è altro che il risultato. Per scrivere un libro non basta raccogliere i fatti e parlare anche con mille persone. Per sentire cose nuove, bisogna porre domande nuove. Per farlo bisogna crearsi una propria visione delle cose. Solo allora si può trarre un qualche senso dai fatti, perché a questo punto si ha un centro che lo attiva. Là fuori ci sono centinaia di romanzi che aspettano di essere scritti, ma per riuscire a scriverli bisogna che le voci di cui si compongono coincidano con qualcosa che è dentro di noi. Che i miei libri siano pubblicati in tanti Paesi dipende dal fatto che parlo non di eventi, ma di sentimenti. Il Ventesimo è probabilmente il secolo della fine delle idee che contano più della vita umana. Quando scrivo i miei libri vedo l’essere umano su due piani: l’essere sociale, vale a dire l’individuo del suo tempo, ed è la sfera del giornalismo puro; e poi la persona nuda sulla nuda terra, e qui, nell’interrogarsi sulla natura umana, inizia la letteratura».

Quelle voci di donna sono l’altra metà della guerra SVETLANA ALEKSIEVIC
«Sono una insegnante di storia… Per quanto mi ricordo il sussidiario di storia è stato riscritto tre volte. Io ho insegnato la storia ai bambini attenendomi al primo, al secondo e al terzo… Chieda a noi, finché siamo vivi. Non trascriva poi senza di noi. Continui a chiedere… Sa com’è difficile uccidere una persona. Io lavoravo nella resistenza clandestina. Dopo sei mesi mi hanno affidato una missione: farmi assumere come cameriera alla mensa ufficiali... Ero giovane, bella… Mi hanno presa, Avrei dovuto mettere del veleno nella pentola della zuppa e il giorno stesso raggiungere i partigiani. Ma mi ero ormai abituata a loro e anche se erano i nostri nemici quando li vedi ogni giorno e ti dicono: “ Danke Schön… Danke Schön… ” diventa tutto più complicato… Uccidere può fare più paura che morire… Ho insegnato storia per tutta la vita… E non ho mai saputo come raccontare tutto questo. Con quali parole… ». *** Ho fatto anch’io una mia guerra… Ho percorso un lungo cammino in compagnia delle mie eroine. Al pari di esse per molto tempo non ho voluto credere che la nostra Vittoria avesse due volti, uno di grande bellezza e l’altro deturpato dalle cicatrici di un insostenibile orrore. «Nei combattimenti corpo a corpo, ammazzando un uomo, lo si guarda negli occhi. Non è come quando si sganciano bombe o si spara dalle trincee» mi raccontavano.
Ascoltare di come le persone ammazzavano e morivano è lo stesso che guardarli negli occhi… Un vecchio edificio di due piani nella periferia di Minsk, di quelli che alla fine della guerra vennero costruiti in gran fretta in qualità, si pensava allora, di sistemazione provvisoria, e che invece resistono ancora, abbelliti da folti cespugli di gelsomino. È iniziata lì la mia ricerca, destinata a durare sette anni, straordinari e tormentosi, che mi avrebbero permesso di conoscere il mondo della guerra, un mondo del quale il senso ci resta tuttora incomprensibile. Ho provato dolore, odio, tentazione… Tenerezza e sconcerto… Ho cercato di comprendere la differenza tra morte e uccisione e dove si trovi la frontiera tra l’umano e l’inumano. Come l’uomo rimanga solo a tu per tu con la folle idea di poter uccidere un altro uomo. Addirittura di averne il dovere. E ho scoperto che la guerra non si riduce alla morte, ma è costituita da quella moltitudine di elementi che caratterizzano anche l’ordinaria vita quotidiana. Mi sono trovata di fronte l’infinita molteplicità di verità e destini. Del loro mistero. Ho cominciato a riflettere su questioni della cui esistenza neppure sospettavo. Ad esempio, come mai non ci stupiamo di fronte al male? Sembra quasi che ce ne manchi la capacità.
È stato un lungo percorso e tante strade… Decine di viaggi attraverso l’intero paese, centinaia di cassette registrate, migliaia di metri di nastro magnetico. Cinquecento conversazioni, dopo le quali ho messo di contare, i volti sono stati cancellati dal tempo, ma non le voci. Tutto un coro che continua a echeggiarmi nella memoria. Un grande coro dalle parole a tratti indistinguibili, ma non il pianto.
Tratto da La guerra non ha un volto di donna, in uscita da Bompiani a novembre (Traduzione di Sergio Rapetti)  

L’imbarazzo di Minsk,il gelo di Mosca Lukashenko si dice “contento” del riconoscimento, ma la critica la snobba: “Autrice mediocre”NICOLA LOMBARDOZZI MOSCA .
Dopo un giorno intero di riflessione, alla fine il grande nemico di Svetlana Aleksievic ha deciso per un gesto politicamente corretto. Aleksandr Lukashenko, presidente della Bielorussia, nonché “ultimo dittatore d’Europa”, si è congratulato per l’assegnazione del Nobel «sperando che questo premio porti benefici al nostro Stato e al nostro popolo ». Seguivano auguri di «altre opere creative e di felicità per una scrittrice che ha lasciato il segno nei lettori bielorussi e non solo». Tutto qui. Nessun accenno alle persecuzioni che hanno costretto Aleksievic a fuggire, né al fatto che i suoi libri si trovino solo in edizione russa essendone vietata la riproduzione in lingua locale. Lukashenko, che si appresta a vincere domenica l’ennesima elezione senza un solo rivale a piede libero, deve aver fatto qualche calcolo. Il silenzio assoluto e la unica breve notizia fatta dare in coda al telegiornale fino alle 10 di sera, non avrebbero fatto un bell’effetto. E il presidente, sdoganato come mediatore sull’Ucraina, ha molto da perdere in fatto di immagine.
In Russia invece sembrava di essere tornati ai tempi di Solzhenytsin o di Sakharov, quando l’assegnazione di un Nobel veniva considerata una provocazione al regime sovietico. Il compito di demolire la dissidente viene affidato a giornalisti e critici come Jurij Poljakov, direttore della Literaturnaja Gazeta : «Scrittrice mediocre. Si è fatta conoscere perché va contro il suo Paese. Per questo è stata premiata, come Brodskij e gli altri prima di lui».Il Cremlino ha invece snobbato la notizia. Una breccia nel muro di silenzio si è aperta solo quando Aleksievic ha toccato il tasto dolente dell’Ucraina. Il portavoce di Putin, Dmitrj Peskov, usa toni sarcastici: «Probabilmente la signora a cui tutti fanno gli auguri, non ha elementi sufficienti per giudicare quello che succede nel Donbass». Giornali e tv, esaltano il fatto che sia stato dato un premio a una scrittrice di lingua russa. Ma si evita accuratamente di parlare di politica. I libri di Aleksievic non sono proibiti come a Minsk, ma provate pure a cercarne uno se vi riesce in una libreria russa... Quello che preoccupa sono i primi libri sulla guerra patriottica e sulla infelice spedizione in Afghanistan. «Troppo pacifisti, sminuiscono i veri valori dell’anima russa e della donna sovietica», dicevano i critici di allora e ripetono pari pari quelli di adesso.


Così compresi la necessità di descrivere la guerra con le parole delle donne
IPubblichiamo un brano inedito tratto dal libro di Svetlana Aleksievic «La guerra non ha un volto di donna», che esce in novembre per l’editore Bompiani
9 ott 2015 Corriere della Sera Di Svetlana Aleksievic © BOMPIANI
l villaggio della mia infanzia dopo la guerra era un villaggio femminile. Di sole donne. Non ricordo una voce maschile. E così questo mi è rimasto: la guerra la raccontano le donne. Piangono. O cantano, ma è anche questo un pianto. Nella biblioteca scolastica una buona metà dei libri era sulla guerra. La stessa cosa nella biblioteca rurale e in quella del capoluogo di distretto, dove mio padre si recava spesso a prendere in prestito dei libri. Come mai? Adesso sono in grado di rispondere. Non è certo per caso, ma perché noi quando non eravamo in guerra ci preparavamo comunque a farla. Non abbiamo mai vissuto in altro modo. A scuola ci hanno insegnato ad amare la morte. Abbiamo scritto dei componimenti sul fatto che volevamo morire in nome… Fantasticavamo… Ma le voci della strada gridavano d’altro e attiravano di più. Sono stata per molto tempo una persona libresca, avulsa dalla realtà, anche se mi attraeva e spaventava al tempo stesso. Ma in definitiva l’ignoranza della vita reale ha reso possibile la temerarietà successiva. (...) Per due anni, più che incontrare persone e annotare i loro racconti, ho pensato. Ho letto. Di cosa avrebbe parlato il mio libro? Beh, sarebbe stato un altro libro sulla guerra… A che scopo? C’erano già state migliaia di guerre, grandi e piccole, note e meno note. E i libri che le avevano narrate erano ancora più numerosi. Ma… erano libri scritti da uomini e parlavano di uomini: questo balzava subito all’occhio. Tutto quello che sapevamo della guerra ci era stato trasmesso da voci «maschili». Siamo tutti prigionieri di una rappresentazione «maschile» della guerra. Che nasce da percezioni prettamente «maschili». Rese con parole «maschili». Nel silenzio delle donne. Nessuno, tranne me, ha mai chiesto niente a mia nonna, a mia madre. Tacciono perfino quelle che sono state al fronte. Se pure all’improvviso cominciano a ricordare, non raccontano la loro guerra «femminile», ma quella «maschile». Si adattano al canone invalso. E solo in casa o, piangendo, nella cerchia delle proprie amiche veterane, si mettono a narrare la propria guerra. A rivelarla. Ed è una guerra sconosciuta. Non solo per me, ma per tutti noi. Nelle mie trasferte sono stata più di una volta testimone, e sola ascoltatrice di testi assolutamente nuovi. E ne ero fortemente emozionata, come dalle letture giovanili. In quei racconti balenava talvolta, come un digrignare di denti, il terribile scintillio di un feroce mistero. Nei racconti delle donne non c’è, o non c’è quasi mai, ciò che siamo abituati a sentire: gente che ammazza eroicamente altra gente e vince. O viene sconfitta. E la tecnica schierata in campo e i generali. I racconti femminili sono altri e parlano d’altro. La guerra «al femminile» ha i propri colori, odori, una sua interpretazione dei fatti ed estensione dei sentimenti. E parole sue. Dove non ci sono eroi e strabilianti imprese, ma persone reali impegnate nella più disumana delle occupazioni dell’uomo. E a soffrirne non sono solo loro (le persone!), ma anche i campi, e gli uccelli, e gli alberi. Ogni cosa che convive con noi su questa terra. E, tranne noi, a soffrire erano esseri privi della parola, in una angoscia aggravata dalla mutezza. Ma come è potuto accadere? — me lo sono chiesto più di un volta: come mai, una volta acquisito e occupato il proprio posto in un mondo un tempo esclusivamente maschile, le donne non hanno saputo far valere con altrettanta forza la propria storia? Le proprie parole e sentimenti? Non ci hanno abbastanza creduto neanche loro. Tenendoci così nascosto tutto un mondo. La loro guerra è rimasta sconosciuta… Voglio scrivere la storia di questa guerra. Una storia al femminile.
(Traduzione di Sergio Rapetti)

La giornalista e scrittrice Bielorussa

Alessandro Zaccuri Avvenire 8 ottobre 2015

Nobel alla scrittrice anti Putin che smontò l'utopia comunista
Svetlana Aleksievič lottò contro il comunismo. Ma oggi accusa: "Russia nuovo impero del male"

Liberale ma non dissidente Una voce sempre contro dall'Urss alla Russia di oggi
Bielorussa di sangue ucraino, è molto critica verso i governi di Mosca e Minsk. Ora rischia di essere strumentalizzata

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