martedì 24 novembre 2015

Agamben contro il delirio occidentalista

Risultati immagini per agamben“Perché lo stato di emergenza non può essere permanente”
Il filosofo critica la decisione di Hollande di modificare la Costituzione “È pericoloso accettare qualsiasi limitazione della libertà in nome della sicurezza”
MARIE RICHEUX Repubblica 24 11  2015

Questo testo è un estratto dell’intervista rilasciata da Giorgio Agamben a France Culture, la radio pubblica francese, che ha mandato in onda uno speciale sulla strage del 13 novembre e sulla rezione del governo invitando il filosofo a riflettere su questo tema in particolare: “ Francois Hollande ha proposto di modificare la Costituzione cambiando durata e modalità dello “ stato di emergenza” per rispondere al meglio al “ terrorismo di guerra”.
«Lo stato di emergenza non è un scudo per lo stato di diritto come ha detto qualcuno. La storia insegna che è vero esattamente il contrario. Tutti dovrebbero sapere che è proprio lo stato di emergenza previsto dall’articolo 48 della Repubblica di Weimar che ha permesso ad Hitler di stabilire e mantenere il regime nazista, dichiarando immediatamente dopo la sua nomina a Cancelliere uno stato di eccezione che non fu mai revocato. Quando oggi ci si stupisce che si siano potuto commettere in Germania tali crimini, si dimentica che non si trattava di crimini, che era tutto perfettamente legale, perché la Germania era in stato di eccezione e le libertà individuali erano sospese. Perché lo stesso scenario non potrebbe ripetersi in Francia? Quello che voglio dire è che, com’ è avvenuto in Germania, un partito di estrema destra potrebbe domani servirsi dello stato di emergenza introdotto dalla socialdemocrazia.
Bisognerebbe riflettere sulla nozione di sicurezza, che oggi si sta sostituendo a ogni altro concetto politico... La gente deve capire che la sicurezza di cui si parla tanto non serve a prevenire le cause, ma a governare gli effetti. E’ quel che avviene col terrorismo.
I dispositivi biometrici di sicurezza, che sono state inventati in Francia da Bertillon nel XIX secolo, erano pensati per i “recidivisti”, servivano cioè a impedire un secondo colpo. Ma il terrorismo è una serie di primi colpi, che è impossibile prevenire. Ciò che dobbiamo capire è che le ragioni di sicurezza non sono rivolte alla prevenzione dei delitti, ma a stabilire un nuovo modello di governo degli uomini, un nuovo modello di Stato, che i politologi americani chiamano appunto “security State”, stato di sicurezza. Di questo Stato, che sta prendendo ovunque il posto delle democrazie parlamentari, sappiamo poco, ma sicuramente non è uno Stato di diritto, è piuttosto uno stato di controlli sempre più generalizzati. È uno Stato in cui, come avviene oggi, la partecipazione dei cittadini alla politica si riduce drasticamente e il cittadino, di cui si pretende di garantire la sicurezza, è trattato nello stesso tempo come un terrorista in potenza...
Lo stato di emergenza è qualcosa che esiste da molto tempo, ma è sempre stato pensato come una misura provvisoria, per fronteggiare un evento specifico limitato nel tempo al quale si rispondeva con misure limitate nel tempo... Nello Stato di sicurezza, il patto sociale cambia di natura e degli uomini che vengono mantenuti sotto la pressione della paura sono pronti ad accettare qualunque limitazione delle libertà».
«Hollande ha detto che la Francia è in guerra, ma il terrorismo non è esattamente la stessa cosa della guerra. Siamo in guerra, ma contro chi? Perché vi sia una guerra, è necessario che vi sia un nemico chiaramente identificabile. Nel terrorismo, la figura del nemico si indetermina e diventa fluida, il terrorismo è per definizione una nebulosa, dentro la quale agiscono attori di ogni genere, compresi in prima fila i servizi segreti di stati con cui si intrattengono relazioni amichevoli.
Dire che la Francia è in guerra contro il terrorismo equivale a dire che è in guerra contro un nemico che non si conosce e che potrebbe essere chiunque. Non è con lo stato di eccezione e con i dispositivi di sicurezza che si può combattere il terrorismo, ma con un cambiamento radicale della politica estera, per esempio, cessando di vendere armi e di avere rapporti privilegiati con gli stati che direttamente o indirettamente alimentano il terrorismo».


Gli strateghi della guerra inutile
Daesh. In guerra, ma senza sapere come combatterladi Marco Bascetta il manifesto 24.11.15
Muoviamo da una ipotesi non nuova e piuttosto diffusa: Daesh è uno stato e non lo è. Potremmo definirlo un centro di irradiazione, piuttosto o, per così dire, una Mecca ideologico-militare del Jihad. Lo stato islamico interpreta a suo modo, e cioè in una forma violenta e totalitaria, la vocazione antinazionalista dell’Islam, quella che si rivolge alla comunità dei credenti aldilà da qualsiasi frontiera nazionale. Per questa ragione il suo insediamento a macchia di leopardo, dal Medio oriente all’Africa settentrionale e sub sahariana, fino alle periferie delle grandi metropoli europee non costituisce una debolezza, ma una forza.
Una realtà del tutto coerente con i principi a cui si ispira, un elemento di coesione e non di frammentazione. Del resto l’islamismo radicale contemporaneo, quello in armi, nasce nella fase conclusiva della guerra fredda come un’arma rivolta contro i nazionalismi “progressisti” e laici, cresciuti nella stagione delle lotte anticoloniali e presto degenerati in sistemi autoritari e corrotti di governo. Su questo terreno convergeranno, ma per poco, la strategia antisovietica americana e diffusi sentimenti popolari contro le caste burocratico-militari subentrate al dominio coloniale. Per principio, dunque, Daesh non può scendere a patti con nessuno stato nazionale, e nemmeno, fino in fondo, con quelli ideologicamente affini da cui riceve aiuto e sostegno, che può al massimo considerare come utili assetti di potere transitori nell’inarrestabile espansione della comunità islamica combattente. Anche l’Arabia saudita gioca dunque con il fuoco nel momento in cui si illude di poter ridurre l’entità jihadista a uno strumento docilmente asservito ai propri interessi nazionali e dinastici di egemonia regionale.
Questi brevi cenni, che non rendono certo giustizia alla estrema complessità della questione, solo allo scopo di chiarire come in nessun modo, per via diretta o indiretta, Daesh possa rappresentare un soggetto di interlocuzione diplomatica, neanche sul piano elementare dello scambio di prigionieri (fatta salva la vendita di ostaggi). La stessa ideologia e pratica del martirio lo impedirebbero. Solo ai bordi dell’Is, in un contesto allargato, la pressione delle cancellerie potrebbe forse conseguire qualche risultato, a patto di rinunciare però a voler salvare capra e cavoli, affari e diritti umani.
Dunque, la guerra. Che questa sia in atto è una circostanza innegabile, che non sia semplicemente interpretabile in termini teologici è altrettanto evidente, ma anche che senza il richiamo allo spazio potenzialmente illimitato della comunità dei credenti, intesa come esercito potenziale, non potrebbe mai raggiungere l’intensità e le ramificazioni che la contraddistinguono. Resta il fatto che la Mecca jihadista di Raqqa e Mosul, dove i giovani musulmani radicalizzati d’Occidente si recano in una sorta di pellegrinaggio, qualcosa di più di un semplice addestramento militare, prima di tornare ad agire nei rispettivi paesi, non si sgretolerà più senza un’azione di forza. C’è un punto oltre il quale la dimensione della guerra non è più revocabile. Così le sue retoriche risuonano da ogni parte. Chi invoca la “guerra totale”, come Goebbels nel celebre discorso del febbraio 1943, chi la civiltà contro la barbarie, chi la guerra identitaria, chi la guerra globale di lunga durata contro il terrorismo sulla scia della dottrina Bush. Converrà, tuttavia, mettere da parte proclami e rullar di tamburi, ma anche, per vederci un poco più chiaro, disertare il terreno dell’etica, le dispute su quanto valgono i “valori” e cioè il tema scivoloso della “guerra giusta”, per rivolgere l’attenzione a quello, assai più banale, della “guerra utile”. Una “guerra giusta” la si può anche perdere, ma una “guerra utile”, va da sé, non può che essere vincente, pena trasformarsi nel suo contrario.
Ma che cosa significa esattamente vincente? Un tempo le cose erano molto più chiare: vincere significava annettere o assoggettare un territorio imponendo alla sua popolazione le leggi (e le imposte) dei vincitori. Poi è venuto il tempo dei “governi fantoccio” e delle forme sempre più indirette, ma non per questo poco efficaci, di dominio. Oggi, per semplificare all’estremo, significa stabilizzare un’area attraversata da conflitti e turbolenze, imponendo un compromesso tra gli interessi che vi insistono (compresi naturalmente i propri), garantito da strutture politiche il più possibile solide e affidabili. E a questo scopo è necessario cancellare senza residui e con ogni mezzo necessario, i fattori irriducibili a una qualsiasi condizione di equilibrio. Nel nostro caso Daesh.
Se ci atteniamo a questo banale schema, nessuna delle guerre condotte in Medio oriente o in Africa dagli Stati uniti e dalle diverse coalizioni internazionali che si sono succedute nel tempo regge alla prova della “guerra utile”. Né la guerra in Afghanistan, né le due guerre irachene, per non parlare degli interventi in Somalia e Mali o dell’impresa di Libia possono definirsi in alcun modo vincenti. E il conflitto in Siria è ben avviato su questa stessa strada. Le innumerevoli vittime che hanno mietuto e i molteplici, incontrollati focolai di conflitto che hanno alimentato rappresentano il risvolto sanguinoso di questa inutilità. Gli strateghi geopolitici, imperversano da decenni come dilettanti allo sbaraglio, incassando una sequela interminabile di scommesse perse. Resta il fatto che lo Stato islamico con le sue mostruose manifestazioni deve essere spazzato via in tutte le sue articolazioni, al centro come alla periferia. Non si può certo attendere che la sua forza propulsiva si esaurisca e i suoi adepti si convincano col tempo ad abbandonarne i costumi e le insostenibili forme di vita. Le vittime non possono essere lasciate al loro destino.
La “guerra giusta” contro questa forma di fascismo confessionale deve però dimostrarsi anche utile. Alla qual cosa non gioveranno né spirito di vendetta, né esibizioni patriottiche ad uso interno dei governanti europei, né il revanscismo russo. Quale sia la strada, giunti a questo punto, è difficile a dirsi, se non che non sarà in nessun modo pacifica. Di certo, la situazione non consente più di manovrare le popolazioni della regione come marionette secondo logiche di potenza peraltro disorientate e governate dall’improvvisazione. Sarà una Yalta tra Iran e Arabia saudita e una guerra fredda tra sciiti e sunniti, l’esito del conflitto? Con i kurdi nella parte dei non allineati? Non abbiamo che fantasie e vecchi parametri, in fondo, saperi storici recenti o remoti, per leggere gli eventi. Saremo anche in guerra, ma certo è che non sappiamo come combatterla. Un criterio però si dovrebbe adottare.
Se Daesh punta a stringere il legame tra il fascismo islamista con la sua Mecca mesopotamica e l’emarginazione metropolitana in Europa, noi dovremmo puntare a reciderlo. Non in chiave nazionalpatriottica, ma sul terreno dei desideri di libertà e di benessere che attraversano le periferie metropolitane e non solo i frequentatori del Bataclan.
L’ennesima “guerra inutile” e perdente sarebbe quella contro le cosiddette “classi pericolose”. Possiamo solo sperare che i ragazzi di Saint Denis e dei grandi ghetti della cintura metropolitana parigina gettino via le cinture esplosive per tornare a incendiare le banlieues contro i loro colonizzatori, islamisti o repubblicani che siano. Poliziotti razzisti o predicatori barbuti. Ogni sovversivo in più sarà un terrorista di meno. 

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