domenica 31 gennaio 2016

Cina, economia di mercato, socialismo di mercato

Risultati immagini per cinaPerché la Cina non è ancora una vera economia di mercato
La concessione dello «status» renderebbe inefficaci le misure antidumping

di Manfred Weber Il  Sole 30.1.16
Nonostante la discussione sull’immigrazione, l’Europa ha anche un’altra priorità: creare posti di lavoro. Abbiamo bisogno di accordi commerciali, e in un mondo globalizzato vogliamo creare partnership di successo. Un accordo commerciale è sempre una chiave strategica per avere una maggiore crescita economica, e più posti di lavoro, ed offre benefici reciproci senza costi aggiuntivi. È questa la strategia che vogliamo utilizzare per l’Europa. In assenza di un accordo globale per il libero commercio, il Gruppo Ppe ha spinto per concludere accordi bilaterali con i principali partner commerciali dell’Europa: il Ttip con gli Stati Uniti, e altri accordi con la Corea del Sud e il Giappone. Con il Canada (Ceta) abbiamo concluso i negoziati e vogliamo proseguire verso l’attuazione il più velocemente possibile. Ceta è un accordo commerciale che favorisce soprattutto le Pmi che rappresentano il 99% di tutte le attività in Europa e negli ultimi cinque anni hanno creato circa l’85% dei nuovi posti di lavoro. Ogni giorno che passa senza attuazione degli accordi, perdiamo l’opportunità di creare nuovi posti di lavoro.
L’Ue e la Cina sono due dei maggiori operatori commerciali del mondo. La Cina è il secondo partner commerciale dell’Ue, dopo gli Stati Uniti, e l’Unione europea è il principale partner commerciale della Cina. Tra la Cina e l’Europa attualmente si registra un commercio di ben oltre 1 miliardo di euro al giorno. La Cina ha fatto buoni progressi nell’attuazione dei suoi impegni in seno alla Wto, sin dalla sua adesione nel 2001; ma ci sono ancora problemi in sospeso: mancanza di trasparenza, esistenza di misure in Cina che discriminano le imprese straniere, forte intervento del governo nell’economia, protezione ed applicazione inadeguata della proprietà dei diritti intellettuali, restrizioni alle esportazioni cinesi di materie prime - come terre rare. I cinesi hanno mostrato come funziona il protezionismo: infatti una azienda che non produce in Cina, deve confrontarsi con elevate tariffe penalizzanti se vuole vendere i suoi prodotti sul mercato cinese. In alternativa se una azienda vuole produrre in Cina, lo può fare solo diventando partner più piccolo di un azionista di maggioranza cinese.
L’Ue ritiene che tutto ciò stia violando le regole generali della Wto. Il Gruppo Ppe ha sostenuto l’adozione di adeguate misure di difesa commerciale, per contrastare le imprese non europee, che grazie a sovvenzioni statali illegali o tariffe di dumping hanno cercato di vendere i loro prodotti in Europa.
La Commissione europea ha in corso 28 inchieste antidumping, 16 delle quali coinvolgono la Cina. Il maggior numero di casi di difesa commerciale dell’Unione europea e le relative misure, riguardano ferro e acciaio , e sempre più, le industrie energetiche (pannelli solari, biocarburanti).
La domanda cruciale è: possiamo concedere lo Status di Economia di Mercato (Mes) alla Cina 15 anni dopo la data di adesione alla Wto come è previsto dall’Organizzazione? Per l’Ue la Cina non è una cosiddetta Economia di Mercato. Se concediamo alla Cina questo status, le misure antidumping che salvaguardano centinaia di migliaia di posti di lavoro di una vasta gamma di industrie europee strategiche, diventerebbero inefficaci di fronte alla concorrenza sleale della Cina.
I produttori europei sono preoccupati che, in questa eventualità, le importazioni cinesi aumentino dal 25% al 50% considerando il trend previsto nei prossimi 3-5 anni, mettendo a rischio nell’Ue fino a 3,5 milioni di posti di lavoro. Nel caso in cui concedessimo lo Status di Economia di Mercato alla Cina, significherebbe darle la possibilità di ridurre il margine di dumping del 30%, consentendole di ridurre ulteriormente i prezzi. La Cina, infatti, non è un’economia di mercato. Quando guardiamo l’economia cinese, vediamo ancora le ombre di una economia pianificata. I leader cinesi che si sono succeduti hanno seguito il modello di una “economia socialista di mercato”, in cui il governo controlla le imprese statali che dominano settori come l’acciaio, la produzione di energia e il minerario - ognuno dei quali gode di un sostegno importante da parte dello Stato. Penso che ci dovremmo impegnare in un ampio e franco dibattito con i cinesi (abbiamo anche bisogno di uno studio completo di valutazione di impatto),e l'Unione europea dovrebbe mantenere i suoi strumenti di difesa commerciale efficaci che prendono in considerazione la reale situazione del mercato in Cina.

Europarlamento in pressing sulla Cina
Maggioranza sempre più consistente contro la concessione dello status di economia di mercato di Beda Romano Il Sole 2.2.16
BRUXELLES È sempre più acceso il dibattito sulla possibilità di concedere lo status di economia di mercato alla Cina. La Commissione europea, a cui spetta fare nei prossimi mesi una proposta al Consiglio europeo e al Parlamento europeo, sta valutando il da farsi. Parlando ieri sera dinanzi all’assemblea parlamentare a Strasburgo, la commissaria al Commercio, la danese Cecilia Malmström, ha confermato che l’esecutivo comunitario sta studiando attentamente tre diverse opzioni.
«In ballo non c’è un giudizio sul fatto se la Cina sia una economia di mercato o meno. Sulla base della nostra visione non lo è – ha detto la signora Malmström –. Piuttosto in ballo c’è se è necessario modificare le nostre difese commerciali. Tre sono le opzioni. Possiamo lasciare le cose così come sono (…). Possiamo modificare lo status, e ciò avrebbe effetti dannosi da un punto di vista economico e sarebbe politicamente irrealistico. Oppure possiamo trovare soluzioni con misure che mitigano l’eventuale impatto».
Il protocollo d’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del Commercio, risalente al 2001, prevede che dopo 15 anni da quella data i partner della Cina debbano valutare se modificare lo status di Pechino. Poiché la concessione dello status di economia di mercato alla Cina comporterebbe giuridicamente un allentamento delle difese commerciali europee nei confronti dei prodotti cinesi, il timore di molti è che i mercati europei siano invasi da merce a basso costo.
In questi giorni, preoccupati si sono detti esponenti sia dei Popolari che dei Socialisti. Citando un primo studio preliminare preparato dalla stessa Commissione europea, la signora Malmström ha spiegato che scenari radicali prospettano la perdita di 210mila posti di lavoro, in assenza di misure mitiganti: «Le nostre stime sono assai più basse di quelle formulate da alcuni centri di ricerca». La commissaria ha annunciato che Bruxelles sta preparando un vero e proprio studio d’impatto.
Nei giorni scorsi, si è tenuto qui a Bruxelles un convegno organizzato dal Parlamento europeo. Robert Scott, un ricercatore dell’Economic Policy Institute, è tornato sulla questione, con nuovi dati ancor più preoccupanti rispetto a quelli dell’estate scorsa quando pubblicò una ricerca sponsorizzata da Aegis, una organizzazione europea che rappresenta 25 settori industriali e che sta dando battaglia contro la concessione alla Cina dello status di economia di mercato.
«Rispetto alla ricerca precedente – ha spiegato in una conversazione nei giorni scorsi lo stesso Scott, capofila degli economisti più preoccupati – nuovi dati dimostrano già oggi che l’attivo commerciale cinese è destinato a crescere enormemente nei prossimi anni. Nei fatti, il Paese sta esportando disoccupazione nel resto del mondo. In questa seconda analisi, rispetto a quella dell’estate scorsa, uso due diversi modelli per valutare le eventuali conseguenze di una scelta positiva nei confronti della Cina».
Secondo statistiche dell’Organizzazione mondiale del commercio, l’attivo commerciale cinese nel solo settore manifatturiero è salito da 531 miliardi di euro nel 2010 a 933 miliardi di euro nel 2014. Scott è criticato da alcuni economisti perché i suoi modelli non si basano né sulla piena occupazione né sul commercio equilibrato, come avviene di solito nei calcoli economici. «Questi due fattori – risponde il ricercatore americano - non possono essere parte del mio modello semplicemente perché non esistono nella realtà».
Nello specifico, Scott prevede che la concessione dello status comporterebbe la perdita di 1,7-3,5 milioni di posti di lavoro su un periodo di tre-cinque anni. Il Paese più colpito sarebbe la Germania, seguito dall’Italia (208.100-416.200 i posti di lavoro a rischio). Alcuni settori sarebbero colpiti più di altri: parti meccaniche di veicoli, prodotti di carta, acciaio, ceramica, vetro, alluminio, biciclette. Nel valutare la scelta, la Commissione, così come i Ventotto e il Parlamento, dovranno considerare anche le eventuali ripercussioni politiche.

Ue, frenata sullo status alla Cina
Bruxelles. Si compatta il fronte del no al riconoscimento del gigante asiatico come economia di mercato In tre mesi studio di impatto dettagliato. Possibile mediazione tenendo i dazi di Carmine Fotina Il Sole 3.2.16
ROMA Guadagna metri la posizione italiana sull’ipotesi di riconoscere alla Cina lo status di economia di mercato (Mes). Un ulteriore passo è stato compiuto ieri, nel corso del Consiglio informale dei ministri del commercio estero che si è svolto ad Amsterdam. Non sarebbero mancati toni decisi, con il viceministro allo Sviluppo economico Carlo Calenda (che a marzo assumerà formalmente l’incarico di rappresentante permanente dell’Italia a Bruxelles) che ha ribadito la contrarietà italiana, affiancato stavolta in modo più chiaro oltre che dalla Francia anche dalla Germania, ottenendo segnali considerati importanti. «Un primo parziale passo nella giusta direzione» lo definisce Calenda che, anche dopo l’addio al ministero dello Sviluppo, continuerà a seguire il tema in prima persona da Bruxelles al pari di altri dossier delicatissimi per il commercio internazionale come il Ttip (il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti).
La Commissione avrebbe garantito che non ci saranno fughe in avanti, una decisione potrebbe essere presa in estate ma solo dopo una vera valutazione di impatto. Uno studio dettagliato è una richiesta avanzata ufficialmente dall’Italia nelle settimane scorse, insieme ad altri sette Stati membri, con una lettera alla presidenza olandese e ribadita con forza nel corso della riunione di ieri. È indispensabile, secondo l’Italia, avviare un vero “Impact assessment”, sentendo anche le imprese (Business Europe) e i sindacati. Lo studio dovrebbe durare tre mesi ed «avere ad oggetto - dice Calenda - anche i rischi collegati al possibile allargamento della overcapacity cinese ad altri settori industriali rispetto a quelli che oggi sono in questa situazione» (in primis la siderurgia). Una valutazione accurata che, secondo l’Italia, non può ridursi ad alcuni numeri con fonti non ben chiarite presentati ieri durante l’incontro di Amsterdam dal commissario al Commercio Cecilia Malmström. In particolare, la relazione del commissario indica le perdite potenziali di posti di lavoro nella Ue in una forchetta tra 73mila e 188mila, ben al di sotto delle stime dell’Economic Policy Institute (in uno studio sponsorizzato mesi fa dall’organizzazione di imprese Aegis) che indicano in almeno 200mila, e fino a oltre 400mila, i posti a rischio nella sola Italia. «Abbiamo ottenuto che si effettui uno studio vero, molto più dettagliato rispetto ai numeri ascoltati oggi», sottolinea Calenda.
Nel merito, la faticosa soluzione che si sta via via delineando potrebbe a questo punto concretizzarsi con un riconoscimento del Mes alla Cina in termini formali, ma accompagnato dalla salvaguardia del sistema di calcolo antidumping attualmente in vigore e non solo, perché secondo l’Italia (appoggiata anche dalla Germania) bisognerebbe tenere conto anche di eventuali sconfinamenti produttivi cinesi che in futuro dovessero concretizzarsi in settori ad oggi non interessati.
C’è da dire che le posizioni tra i grandi Paesi del manifatturiero europeo si sono progressivamente saldate, con i soli Paesi nordici a costituire il blocco opposto. I risvolti politici della vicenda, dietro le quinte, appaiono però più complessi di quanto si possa immaginare se è vero che la Svezia, tra gli Stati favorevoli alla concessione del Mes, avrebbe fatto notare che una posizione sostanzialmente analoga su questo tema sarebbe stata espressa dall’Alto Rappresentante per la Politica estera e di Sicurezza ed ex ministro degli Esteri italiano, Federica Mogherini. Un’incongruenza che politicamente stride con la convinta battaglia portata avanti dall’Italia con Carlo Calenda, oggi da viceministro e domani da rappresentante permanente presso la Ue. Sicuramente un nodo da sciogliere, così come andranno calibrati tempi e sostanza della decisione con la posizione americana, «per evitare - dice Calenda - pericolosi effetti di “trade diversion”».
Il clima generale viene comunque giudicato dall’Italia più favorevole rispetto a qualche mese fa, «anche grazie all’intervento del presidente della Commissione, di esponenti del Parlamento europeo e di una maggiore partecipazione degli Stati Membri» afferma il viceministro dello Sviluppo. 

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