sabato 23 gennaio 2016

Die Totale Mobilmachung: si avvicina la giornata della memoria selettiva occidentocentrica e l'industria scalda i motori





L’afroamericano che fece vacillare Pio IX 
23 gen 2016  Corriere della Sera Di Antonio Carioti
Per quanto oggi quasi sconosciuto nel nostro Paese, lo scrittore Victor Séjour (1817-1874, nell’illustrazione a destra) non era un personaggio irrilevante. Fu il primo afroamericano a firmare con il suo nome un’opera di narrativa: il racconto antischiavista intitolato Il mulatto, uscito a Parigi nel 1837. E più tardi ebbe un ruolo anche nel Risorgimento italiano. 
A rievocare la vicenda, inserendola nel quadro delle lotte per la libertà di metà Ottocento, è Elèna Mortara, docente di Letteratura americana all’Università di Roma Tor Vergata, nel saggio Writing for Justice («Scrivere per la giustizia»), edito negli Stati Uniti da Dartmouth College Press. Un libro che merita di essere presto tradotto in Italia, anche perché direttamente collegato a un episodio avvenuto a Bologna. 
Si tratta del caso di Edgardo Mortara (fratello di una bisnonna dell’autrice), il bambino ebreo che nel 1858 venne strappato alla famiglia dalle autorità dello Stato pontificio: una domestica cattolica aveva dichiarato di averlo battezzato e quindi per le leggi in vigore andava educato nella fede cristiana. Il rapimento suscitò un enorme scalpore e tra coloro che s’indignarono c’era anche Séjour. 
Nato a New Orleans da genitori liberi di colore, poi giunto al successo come drammaturgo a Parigi, Séjour era un cattolico devoto, ma giudicava inaccettabile una simile ferita inferta al valore della famiglia. Scrisse così il lavoro teatrale La tireuse de cartes (in italiano L’indovina), in cui la storia di Edgardo veniva riadattata al femminile: ad essere rapita era una bambina, poi la madre faceva di tutto per recuperarla. L’opera fu rappresentata per la prima volta a Parigi nel dicembre 1859, poi in gennaio a Torino. E contribuì a indebolire la posizione del papa Pio IX, che si era impuntato sul caso Mortara e voleva conservare a tutti i costi il potere temporale. 
 Mulatto, americano e francofono, Séjour aveva la vocazione di oltrepassare i confini tra le culture: sposando la causa degli ebrei discriminati, nota Elèna Mortara, seppe conferire una dimensione universale al suo impegno, in sintonia con il moto di emancipazione, contro la schiavitù e il pregiudizio, che andava allora imponendosi sulle due sponde dell’Atlantico.

The Eichmann Show
Il ruolo storico della tv nel «processo del secolo»: le dirette sul gerarca nazista fecero capire al mondo gli orrori della Shoah di Aldo Grasso Corriere 23.1.16
Che ruolo hanno avuto la radio e la tv sulla comprensione della Shoah, in Israele e nel mondo? Per molti israeliani il processo Eichmann (aprile 1961), le cui udienze furono trasmesse in diretta, fu il primo contatto ravvicinato con l’Olocausto. In precedenza il loro approccio era stato caratterizzato da una incomprensione di fondo sull’ampiezza della tragedia e sulla terribile esperienza vissuta dai superstiti. Quell’evento, raccontato per la prima volta dalla tv, rappresentò una svolta nella memoria collettiva.
Il processo ad Adolf Eichmann fu un momento drammatico per Israele e non solo. Basti pensare ai resoconti che Hannah Arendt scrisse per il New Yorker (raccolti poi nel libro La banalità del male ) dove si sosteneva la «terribile normalità» della burocrazia nazista, capace di commettere le più grandi atrocità che il mondo avesse mai visto in nome di una cieca obbedienza. Il Male che Eichmann incarnava appariva alla Arendt «banale», e perciò tanto più terribile, perché i suoi servitori erano grigi impiegati.
Il film The Eichmann Show racconta appunto il ruolo che la tv ebbe nell’elevare questo processo a una sorta di presa di coscienza collettiva (è anche un piccolo trattato sulle riprese tv). Merito del produttore televisivo Milton Fruchtman (Martin Freeman), che chiamò Leo Hurwitz (Anthony LaPaglia) per occuparsi delle riprese. Hurwitz, regista molto amato dalla critica e pioniere nell’uso delle telecamere, era finito nella «lista nera» di McCarthy ed era rimasto inattivo per un decennio. Arrivando a Gerusalemme, si trovò per le mani un lavoro fuori dal normale: con l’aiuto di Milton, in tempi ristrettissimi dovette addestrare un team di riprese formato da professionisti inesperti e convincere i giudici a cambiare decisione, permettendo che il processo venisse ripreso.
Mentre in Israele la trasmissione andava in diretta, per gli altri Paesi fu approntato un sistema di distribuzione di «cassette», con le prime registrazioni fatte attraverso il sistema Ampex, un nastro da due pollici non facile da montare. Ben 37 Paesi (tra cui Usa, Francia, Inghilterra, Australia, Argentina…) vollero mandare in onda quelle registrazioni. Soprattutto in Israele, la tv svolse un ruolo catartico, liberatorio: di fronte allo shock delle immagini, la popolazione si confrontò con se stessa e soprattutto con i sopravvissuti.
I «salvati» non avevano voglia di parlare, non amavano raccontare la loro terribile esperienza, anche perché avevano la sensazione di non essere creduti. Gli scampati alla Shoah si coprivano con la camicia i numeri impressi a fuoco sulle braccia. Si sentivano «ebrei sconfitti» al confronto dei «pionieri» che apparivano invece come «ebrei vincenti». Queste anime così diverse che avevano vissuto la tragedia in maniera tanto dissimile riuscirono in un’aula di tribunale a esprimere insieme, per la prima volta dal 1948, un vero spirito unitario. Ci vollero quelle immagini televisive perché anche gli «altri» cominciassero a credere.
Da allora, la tv, non diversamente dal cinema, ha assunto sempre più la duplice veste di fonte e strumento di narrazione storica. Se il Novecento è stato definito il secolo «della testimonianza», questo si deve alla sempre più massiccia e pervasiva presenza dei mezzi di comunicazione di massa che affiancano, registrano e, talvolta, si pongono al centro della vita politica e culturale delle società tardomoderne. Dal processo Eichmann, la tv diventa il luogo di dispiegamento — reale, simbolico o meramente retorico — dei fatti storici, che non possono sottrarsi all’occhio della pubblica visibilità (sebbene, ovviamente, il mito della visibilità totale lasci fuori ampi coni d’ombra). Le trasmissioni televisive cominciano a incidersi nella memoria collettiva, raggiungendo una grandissima audience, intervenendo direttamente sul contesto in cui la storia stessa si realizza. La tv diventa «agente di storia».
The Eichmann Show ci fa rivivere i quattro mesi del processo e la difficoltà delle riprese, anche dal punto di vista morale. Spesso l’etica (mostrare anche le fasi più noiose del dibattimento) si scontrò con l’estetica: drammatizzare il male attraverso i primi piani dell’imputato. Ma quelle immagini scioccarono il mondo per l’evidente mancanza di rimorso del colpevole. L’80% della popolazione tedesca guardò almeno un’ora del programma ogni settimana. Il processo venne trasmesso su tutte e tre le reti statunitensi, con notiziari quotidiani in altri Paesi. Ci furono persone che svennero guardando il processo in tv. Intanto, in quei mesi, la tv si doveva anche occupare di Yuri Gagarin primo uomo nello spazio, della baia dei Porci, di Alan Shepard, il primo americano in orbita… Quanto alla tv italiana, si celebra il centenario dell’Unità d’Italia e nasce «Tribuna politica».
Oggi, grazie a un accordo tra gli Archivi di Stato Israeliani, lo Yad Vashem di Gerusalemme (il principale museo dedicato al ricordo dell’Olocausto) e Google, molte delle riprese televisive realizzate durante il processo sono visibili su YouTube. Tocca a Internet assumere ora il ruolo che in passato è stato mirabilmente svolto dalla televisione.


Nessun commento: