lunedì 22 febbraio 2016

Ancora le lettere di Céline alle amiche


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MAURIZIO CECCHETTI Avvenire 27 febbraio 2016

Céline, viaggio al termine dell’harem
NelleLettere alle amichegiochi goliardici e ossessioni erotiche. Angustiato dalla pesantezza della materia era attratto soprattutto dalle levità delle danzatrici 
Ernesto Ferrero Stampa 22 2 2016
Un harem decentrato e itinerante, una multinazionale dell’eros ginnico. A tirarne le fila, un Monsieur Verdoux nonviolento, uno scacchista che movimenta le sue pedine amatorie con talento spregiudicato, un Machiavelli della banlieue che dispensa consigli di cinismo pratico. È il dottor Louis Destouches, medico dei poveri e titolare del Dispensario di Clichy, nella più sofferente delle periferie parigine. All’inizio degli anni 30 diventa scrittore, assume il nome della nonna, si trasforma in Céline, e scrive il romanzo d’esordio più fragoroso di tutto il ’900, il Viaggio al termine della notte, in cui il secolo è già fissato magistralmente in quel che è e sarà. 
Un capolavoro anarcoide, grondante di amore deluso per gli uomini, un evergreen che è ancora capace di conquistare i giovani d’oggi. Le Lettere alle amiche del dottor Destouches non ancora del tutto Céline arrivano in Italia con molto ritardo, ma del gran romanzo restano parenti abbastanza strette (traduzione di Nicola Muschitiello, Adelphi, pp. 260, € 15). Vi si può riconoscere anzitutto quel culto della donna, «una sorta di musica di fondo», come chiave d’accesso ai misteri della vita. 
Perfezione fisica
La predilezione di Céline è anzitutto fisiologica, va alla perfezione del corpo femminile, mirabilmente incarnata da ballerine e ginnaste. Angustiato dalla pesantezza malevola della materia, anela la levità con cui la ballerina, abolendo la forza di gravità, si libra senza peso sulla cresta dell’attimo. Sono danzatrici Elizabeth Craig, l’americana che dopo un difficile ménage di otto anni nel 1933 se ne torna in patria, convinta che quell’uomo tormentato non le possa assicurare un futuro stabile (e vedrà giusto); e Lucette Almansor, la piccola, diafana ballerinetta dell’Opéra che diventerà la sua seconda moglie, un angelo di luminosa bontà e dedizione, tuttora vivente a 104 anni. 
In mezzo, ragazze spregiudicate che si assomigliano tutte, fascino perverso e cosce perfette. Così la danese Karen Maria Jensen, volto da diva, occhi blu e capelli neri, che spopola in un balletto di scena a Parigi, misteriosa, quasi inaccessibile («Che peccato che tu non sia un po’ più dolce. Saresti divina»). Anche Cillie Pam, che lui chiama N., è una campionessa di perfezione fisica. Ha 27 anni, è un’austriaca di origini ebraiche che insegna ginnastica a Vienna. Possiede un popo, culetto in tedesco, che manda letteralmente in visibilio il dottore. Non c’è lettera in cui non ci giochi un po’, con insistenza goliardica.
Cultura, salute e sesso
Erika Irrgang invece gli cade letteralmente tra le braccia. È una giovane pubblicista tedesca dai grandi occhi, impegnata a sinistra, che è venuta a Parigi con pochi soldi, fa la fame, e un giorno sviene in un caffè. Lui se la porta a casa, le diagnostica un’anemia grave, la rifocilla a bistecche, poi la trascina con sé nelle scorribande notturne in quartieri malfamati. Quando lei torna in patria, le prodiga consigli pratici per uscire «dalla miseria e dalla confusione»: «Usi tutte le sue armi, tutt’insieme, tutte, il sesso, il teatro, la cultura, il lavoro. Ma si mantenga in salute. Niente amore senza preservativo. Altrimenti da dietro. E coltivi il campo della letteratura e del teatro, se è un modo per farcela. Tenga d’occhio gli hitleriani ma attenzione, legga bene i giornali, non sia disinteressata dal punto di vista politico come tutte le donne». Può diventare paterno: «Lei ha un’indole eccellente e coraggiosa […] ma deve fare le cose usando la logica - il genio è una combinazione di follia e furbizia […]. Io qui faccio molta fatica -. È tutto molto difficile. Il libro [il Voyage. ndr] esce all’inizio d’ottobre. Ma sa, la letteratura è Morte. A tenerci in vita è solo l’affetto per le persone e le cose. Tutto il resto è niente». 
Dell’harem fa parte una scrittrice belga di romanzi sentimentali, Evelyne Pollet, coniugata con prole, che perde letteralmente la testa per il bel tenebroso, ma è portatrice di un’idea di letteratura da salotto buono che è l’esatto contrario di quella di lui. E c’è anche una pianista di fama internazionale, Lucienne Delforge. Il legame durerà poco: sono troppo artisti tutti e due per potersi dedicare a un partner. 
Con tutte, il dottore recita la parte del Grande Cinico che ha conosciuto il male del mondo e scongiura le amiche di sposare uomini facoltosi e non fare bambini. Un vieux garçon che irride il romanticismo (lo chiama «il bidet lirico»), convinto che «la volgarità comincia nel sentimento»: «Lei mi vuole bene, N., ma le faccio rabbia. Non parlo abbastanza d’amore. “Parlez-moi d’amour!..”. Ma non ci riesco. Non parlo mai, non ho mai parlato di queste cose. Parlo di popo. Capisco solo il popo. Mangio popo. Non sono adatto che al popo». 
Fautore del sesso come sana pratica sportiva, predica il vizio come un sadiano e si diletta di combinare amori di gruppo a prevalenza lesbica, di cui sembra essere più regista e spettatore che attore. La trasgressione erotica pare quasi essere un po’ il pendant di quella stilistica, ricerca esasperata (e angosciata) di una petite musique che nessuno ha ancora composto. 
L’orrore del fascismo
Intanto l’Europa si avvia alla tragedia. Nell’aprile 1933 il futuro antisemita comincia a preoccuparsi per la sua giovane amica ebrea N., teme l’invasione dell’Austria: «Pare proprio che alla fine Hitler schiaccerà l’opposizione come in Italia […]. La follia di Hitler finirà per dominare l’Europa per secoli. Il signor Freud non può farci niente». Nel febbraio del 1934 scrive: «Anche noi ora siamo avviati al fascismo […]. Sembra non finir mai l’Orrore». Il suo pessimismo annuncia un disastro epocale: «La ferocia delle masse è solo in attesa d’un pretesto. Qui o là, è lo stesso sadismo, la stessa opaca inerzia delle anime e dei corpi. Niente da fare. La nostra è una razza fallita[…]. L’Europa è troppo inebetita, troppo incancrenita, troppo corrotta». Il disgusto per il mondo cresce con il viaggio in Russia del 1936: «Che orrore! Che ignobile montatura! Che sporca stupida faccenda! Com’è grottesco, astratto e criminoso tutto questo!». Céline resta solo con i suoi deliri, le sue ossessioni, le sue certezze: «L’unico inventore del secolo! Io! Io! Io! Qua, davanti a lei! L’unico geniale, lo potete ben dire! Maledetto o non maledetto!».


Céline, il pigmalione igienico-morale 
Louis-Ferdinand Céline: escono, da Adelphi, «Lettere alle amiche». Negli anni trenta Céline ha rapporti amicali e carnali con molte donne: che il suo cinismo tratta, insieme, con sordida opacità e leggerezza 

Massimo Raffaeli Alias Manifesto 28.2.2016, 0:10 
Nello sguardo di Louis-Ferdinand Céline, che era quello di uno gnostico o forse di un cataro, la pésanteur e la grace, sordida opacità e leggerezza lievitante, si spartivano equamente il campo della percezione: da un lato lo investiva il peso di un mondo asservito alla carne, agli appetiti elementari (gli stessi che murano il fosco orizzonte del Voyage o di Mort à crédit) dall’altro lo smaltiva uno stile pulsionale ma stilizzato al ritmo dello spasmo interiore, quasi una musica dell’essere, sussultante e compulsiva, portata ai limiti della gratuità. Infatti, per autoassolversi, Céline giurava di non avere idee e si vantava altresì di una sua invenzione esclusiva, l’emozione stilizzata in pagina, la petite musique, la danza in prosa. È noto che a Parigi, negli anni trenta, si appostava nella scuola di danza di Madame Alessandri come un Degas vizioso, dove oggetto della sua scopofilia era il corpo delle giovanissime ballerine, solo linee incise e muscoli vibranti, come è noto che elesse a donne della propria vita due danzatrici di plastica eleganza, prima l’americana Elizabeth Craig, cui è dedicato il Voyage, poi Lucette Almanzor detta Lili, che gli sarà vicino da compagna/moglie/musa negli anni della guerra, della prigionia in Danimarca e nell’esilio terminale di Meudon.
Nell’interregno fra Elizabeth e Lili (il che significa fra il successo clamoroso del Voyage, 1932, e la pubblica infamia di Bagatelle per un massacro, il suo vomito antisemita del 1937) Céline ha rapporti amicali, sentimentali e carnali con un cospicuo numero di donne e ne reca ampia traccia il volume Lettere alle amiche (a cura di Colin W. Nettelbeck, Adelphi, «Piccola biblioteca», pp. 257, euro 15.00) che esce in italiano nella splendida versione di Nicola Muschitiello, un poeta già allievo di Guido Neri e rinomato traduttore fra gli altri di Baudelaire. Sono circa centoquaranta missive indirizzate a una decina di corrispondenti, un microuniverso cosmopolita di donne in genere più giovani di lui che ha appena valicato i quarant’anni, il dottor Destouches, medico nella banlieue rossa di Clichy, che ancora stenta a firmarsi in privato Céline. E fra costoro spiccano: Erika Irrgang, studentessa tedesca e futura scrittrice; Lucienne Delforge, pianista di caratura internazionale, giovanissima, l’unica forse che gli abbia suscitato qualcosa di simile all’amore nel senso corrente; Evelyne Pollet, giornalista e scrittrice di Anversa, una sua fan, e però di vena intimista, che nel dopoguerra ritrarrà dal vero la loro relazione nel romanzo Escaliers; Karen Marie Jensen, ballerina danese, sua eterna confidente nonché tramite bancario dei diritti d’autore depositati, in lingotti d’oro, a Copenaghen, dove Céline verrà arrestato nel dicembre del ’45 per l’accusa di collaborazionismo; infine colei che è cifrata nel libro con «N.», un’ebrea austriaca, ginnasta dal fisico scultoreo, legata agli ambienti della psicoanalisi ed in particolare ad Annie, l’ex moglie di Wilhelm Reich.
Con rare eccezioni, l’atteggiamento di Céline è costante e per sé tiene la parte di un Pigmalione che prodighi consigli d’ordine igienico e morale chiedendo in cambio affetto e una disponibilità fisica indenne comunque da legami ufficiali o, peggio, da pretese matrimoniali. In altri termini, egli è il cinico che conosce tutto della vita e non si fa più illusioni ma è un cinico che raccomanda alle sue donne (il tono è sempre quello di chi si rivolge a delle protette o a delle elette) un matrimonio borghese e rassicurante il quale garantisca loro un culto spregiudicato del corpo e la piena libertà di goderne. Nella igiene raccomandata dal dottor Destouches non rientrano né il pensiero astratto né la soverchia concretezza di una gravidanza. Questo il consiglio profilattico e ben paradossale che dà ad Erika il 21 giugno del ’32: «Usi tutte le sue armi, tutt’insieme, tutte, il sesso, il teatro, la cultura, il lavoro. Ma si mantenga in salute. Niente amore senza preservativo, ALTRIMENTI DA DIETRO».
Céline, mascherandosi da vecchio inerte e acciaccato, da nichilista cui il futuro è per sempre ostruito, non lesina rilievi sul presente e tende a usare le sue donne (pari a chiunque altro, sappiamo dall’epistolario) come specchio ustorio e barra d’appoggio per riflessioni che soltanto nei libelli o nei romanzi verranno totalmente stilizzate: alla Pollet, chiedendole riproduzioni di Bosch e di Brueghel, raccomanda di attenersi nello stile a un «tono irresistibil»”, a «N.» confessa interessi freudiani e domanda una copia di Trauer und melancholie, alla Jensen, reduce da un viaggio negli Stati Uniti all’inizio del ’37, comunica di essere passato dalla Scuola di Balanchine e ribadisce la passione rapinosa, quasi una coazione voyeuristica, per le ballerine: «Lì sì che ci sono belle donne! Oh! Oh! Una meraviglia! Che agilità! Che miracolo! Proprio al limite estremo dello spirito! La raffinatezza del corpo in maniera assoluta!». Ogni altro rilievo, ogni notizia concernente la letteratura, nel prosieguo di quella che ormai è una carriera, rimane desultorio o sullo sfondo, e infatti si pronuncia en passant anche su argomenti ideologici e politici (più che altro per compatirsi e autoassolversi) così sbadatamente accostati che il carteggio, ad esempio, con «N.» viene chiuso da una gaffe a dir poco criminale: nel febbraio del ’39, alla notizia della morte del marito di lei, un ebreo annientato nel campo di Dachau, il firmatario di Bagatelle non ha altro da addurre se non l’elenco delle persecuzioni di cui il medico Destousches sarebbe vittima (da parte di comunisti ebrei, o viceversa) nel dispensario di Clichy, concludendo la lettera con un ineffabile «Vede che anche gli ebrei sono dei persecutori… purtroppo! Qui siamo letteralmente invasi, sa, e per giunta ci esortano apertamente alla guerra».
Va detto per inciso che «N.» si chiamava in realtà Cillie Pam e che il suo nome è già svelato nella biografia Céline. Entre haines et passion di Philippe Alméras del ’94 edita in Italia da Corbaccio tre anni dopo. Qui il curatore Nettelbeck, nella introduzione come nelle note, è invece costretto al silenzio perché Cillie Pam, ancora viva, non intende comparire col suo nome nelle Lettres à des amies che escono da Gallimard («Cahiers Céline», n. 5, una collana di contributi documentari e specialistici) nell’ormai lontano 1979: fatto sta che oggi Adelphi ne propone testo e apparati pari pari ignorando decenni di filologia céliniana e, nel qual caso, il volume complessivo delle Lettres (1907–1961) edito nella Pléiade, 2009, a cura di Henri Godard con la collaborazione di Jean Paul Louis. Un simile e piuttosto discutibile anacronismo editoriale non toglie che Céline rimanga Céline specie se doppiato da un autore del rango di Nicola Muschitiello, appunto un Céline dell’eterno femminino, l’astuto cascamorto, il guardone, l’uomo della assoluta pesantezza che scruta e allucina nel corpo femminile, nella sua stilizzazione più compiuta, l’incarnazione della musica. O, meglio, di una utopia artistica finalmente libera dalla legge di gravità, dal peso delle cose e degli esseri in terza dimensione.
Poco dopo il Voyage, mettendo mano alla farsa grossa dal titolo L’Eglise, Céline vi aveva introdotto il passaggio, autoriferito, che vale una poetica e suona più o meno in questo modo: «Ah Ferdinand! finché vivrete, voi andrete tra le gambe delle donne a chiedere il segreto del mondo!

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