venerdì 12 febbraio 2016

Cardini sull'incontro di Bergoglio e Kyril a Cuba

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La rivoluzione cristiana a Cuba
Il Papa e il Patriarca. Il capo della Chiesa cattolica romana e quello della Chiesa ortodossa russa in uno storico incontro oggi all’Avana, luogo "neutro" scelto non certo a caso. Saranno loro due a salvare il mondo da fondamentalismi e turbocapitalismi?
di Franco Cardini il manifesto 12.2.16
Diciamola tutta: non è un annunzio di quelli che possono lasciare indifferenti. Nel novembre 2014, conversando con i giornalisti in aereo durante il viaggio di ritorno dalla Turchia, papa Francesco aveva risposto a un giornalista che gli aveva domandato qualcosa a proposito di un probabile incontro con il patriarca moscovita Kirill: «Gli ho detto: — Io vengo dove tu vuoi. Tu mi chiami e io vengo -; e anche lui ha la stessa volontà».
Ora, il capo della Chiesa cattolica romana e quello della Chiesa ortodossa russa stanno per incontrarsi, oggi 12 febbraio, molto lontano dalle loro rispettive sedi: all’aeroporto dell’Avana, in Cuba, un luogo che papa Bergoglio già conosce per esservi stato trionfalmente accolto pochissimo tempo fa; un’isola caraibica abitata da discendenti di coloni spagnoli e di schiavi africani, un popolo che parla il medesimo idioma della “sua” Argentina, nella “sua” diletta America latina. Una periferia tra le periferie, di quelle che secondo il pontefice sono particolarmente adatte a comprendere e a farci comprendere il mondo nel quale viviamo.
Cuba ha conosciuto mezzo millennio di dominazione spagnola e più di mezzo secolo di “libertà” dominata in modo quasi coloniale dagli Stati Uniti, un triste periodo di brutali dittature e di pesante corruzione che l’avevano trasformata nella bisca e nel bordello dei Caraibi; quindi, l’oltre mezzo secolo di austero e sotto molti aspetti eroico regime socialista insidiato da un embargo disumano che non lasciava passare nemmeno le merci destinate a scopi umanitari ma durante il quale – nonostante la limitazione di certe libertà, la religiosa inclusa – l’isola è riuscita a porsi ad avanguardia e ad esempio di sviluppo civile, culturale e sanitario.
Cuba è povera: ha le sue piantagioni di canna da zucchero e il suo pregiato rum, quelle di tabacco e i suoi celeberrimi sigari, un po’ di buon caffè e un po’ di rame; e vuole restare sobriamente povera, autolimita lo sviluppo industriale, ha espresso una saggissima legge che impedisce l’inquinamento dei suoi fiumi dove la navigazione a motore è vietata e che sono quindi dei veri e propri paradisi naturali. Ma produce una ricchezza straordinaria, che in questi decenni ha esportato in tutta l’America latina procurandosi in cambio il petrolio e altre merci indispensabili: le sue università, di eccellente livello (è uno dei paesi al mondo con la più forte densità di laureati) sfornano medici e insegnanti che poi lavorano, stimati e apprezzati, nell’intero continente. Un articolo di esportazione pregiatissimo.
Cuba è un paese di gente onesta e ordinata, dignitosissima anche nei suoi pur numerosi mendicanti che lo stato si sforza di reprimere con metodo e rigore, ma senza usare violenza.
La migliore cucina russa
D’altra parte, oltre mezzo secolo dopo la famosa crisi che per un pelo non fece scoppiare la terza guerra mondiale, i cubani non hanno dimenticato l’appoggio sovietico che per molto tempo ha consentito loro di far fronte all’embargo. Forse non rimpiangono il sogno sinistro della “cittadella” nucleare che avrebbe dovuto sorgere nell’estremo ovest dell’isola, e il profilo degli scheletri delle cui spettrali cupole abbandonate si nota ancora da lontano, circondato da un deserto di abitazioni in cemento armato degno della periferia staliniana di Mosca. Però ricordano con simpatìa, quasi con affetto, i loro vecchi alleati: non è raro incontrare gente di mezza età che parla ancora un discreto russo; e sul Malecón, il Lungomare che collega il centro della città alla fortezza spagnola dominante il porto e che ora comincia a rifiorire dopo il forzato abbandono di tanti begli edifici che l’embargo rendeva impossibile restaurare, una grande bandiera rossa con tanto di falce e martello svetta sul palazzo che ospita il «Restaurante sovietico» nel quale si servono ancora i tipici piatti della migliore cucina russa.
A Cuba, come in molte altre regioni latinoamericane, esiste una fiorente comunità russo-ortodossa (non crediate che cose del genere siano esclusive degli Stati Uniti, come abbiamo imparato dal Cacciatore di Michael Cimino): proprio nel centro della città, accanto a una celebre rivendita di rum, una chiesa ortodossa nuova di zecca con le mura immacolate di calce e la cupola dorata reca ben in vista, sul frontone, una lucente targa di rame nella quale si ringrazia il presidente Vladimir Putin per un generoso finanziamento. Si sa per certo che nel maggio scorso Raúl Castro, incontrando Putin e il patriarca Kirill a Mosca, aveva esternato a entrambi – su richiesta di papa Francesco – il desiderio del vescovo di Roma, cui egli deve tanto per il “disgelo” con gli Usa, d’incontrarsi con il capo degli ortodossi russi; e che in seguito, ospite del papa a Santa Marta, gliene aveva riferito.
Queste prospettive diplomatiche, mentre a Cuba nel rinnovato clima di collaborazione con il governo le autorità ecclesiastiche acquistano sempre più peso, appaiono di speciale importanza alla vigilia delle elezioni statunitensi del prossimo novembre.
Ted Cruz e Marco Rubio
Per quanto ne appaia poco importante la vittoria, si profila una qualche ipotesi che la Casa bianca – anziché dai due principali contendenti, Trump e la Clinton – possa venir occupata da un cattolico d’origine cubana figlio di rifugiati politici anticastristi. Se Ted Cruz o Marco Rubio diventassero presidenti, che cosa prevarrebbe in loro, l’affetto per la madrepatria d’origine oppure l’anticastrismo, probabilmente forsennato, succhiato con il latte materno?
Tutto ciò potrebbe influire in modo determinante sul carattere del “disgelo” tra Washington e L’Avana: un disgelo che a Cuba è atteso con speranza e apprensione poiché si teme che, insieme con l’acqua sporca del bagnetto, cioè quel che resta del regime monopartitico, il «ritorno della libertà» faccia sì, come accadde nell’Unione sovietica di un quarto di secolo fa, che si getti via anche il bambino delle garanzie sociali di base come l’istruzione e l’assistenza medica gratuite; e che si assista allo squallido spettacolo dell’assalto liberista e delle privatizzazioni selvagge con la conseguenza di un deciso ed esteso peggioramento delle condizioni della popolazione e dell’avvìo di un processo di crescente ingiustizia sociale.
Grazie a Dio, i «Chicago Boys» sono oggi solo un triste ricordo: e tuttavia…
L’isola di Castro e «della libertà»
È comunque significativo che un influente personaggio del patriarcato moscovita, il metropolita Hilarion Alfeyev, conversando con i giornalisti russi, abbia detto a proposito dell’incontro fra i due capi delle Chiese: «Abbiamo scelto l’isola della libertà». Una tale definizione, che qualcuno ha trovato scandalosa e qualcun altro straordinariamente significativa, ha un carattere fondamentale. Non è facile credere casuale la scelta del territorio cubano – per definizione “neutro” – come luogo dell’incontro. È vero: Kirill sarà già nell’isola per la sua visita ufficiale a quel paese, Francesco anticiperà di alcune ore la partenza per la sua visita pastorale in Messico e potrà quindi rivedere, pochi mesi dopo gli incontri di Roma e dell’Avana, il suo ormai «vecchio amico» Raúl Castro, il quale in queste ore è comprensibilmente al settimo cielo per l’accresciuto prestigio internazionale che l’evento gli sta procurando.
Ma Cuba non è ancora uscita dal socialismo e rischia di diventar terreno di razzìa per il turbocapitalismo. Questo è il punto. Il presente, lo conosciamo. E il futuro?
Di che cosa dunque, parleranno, Francesco e Kirill? Si è fortemente sottolineato che entrambi lanceranno un forte appello ai popoli e ai governi affinché venga arrestata l’onda delle persecuzioni e degli assassinii di cui sono vittime i membri delle comunità cristiane ospiti di molti paesi musulmani dell’Asia e dell’Africa.
Intanto, a Mosca si ripubblicano i testi di Soloviev e circola con insistenza la sua profezia: l’alleanza tra il papa di Roma e la santa Russia salverà il mondo. Da che cosa? Dal fondamentalismo islamico che brucia le chiese e uccide i cristiani, commentano alcuni. Dall’arroganza turbocapitalista che ha imposto quel sistema della «inequità» denunziato dall’enciclica Laudato si’, replicano altri.
Dopo l’Internazionale dei lavoratori di tutto il mondo uniti che non si è mia avverata e quella dei capitalisti delle lobbies che si è avverata fin troppo con aberranti e allarmanti risultati, quella dei cristiani uniti nel segno della giustizia e della misericordia potrebbe sul serio essere la Rivoluzione del XXI secolo.

Un abbraccio nella Storia per due miliardi di cristiani
Cuba. Dichiarazione congiunta contro la persecuzione nei confronti dei fedeli, bersaglio di attacchi da parte di estremisti musulmaniL’AVANA 12.2.2016, 23:59
In America latina lo avevano annunciato come «il vertice del millennio». Iperbole a parte, l’abbraccio di ieri, all’aeroporto internazionale dell’Avana, del papa Francesco e del patriarca di tutta la Russia Kirill ha un valore storico per i due miliardi di cristiani che popolano la terra. Dopo un millennio di separazione, dopo ben venti anni di trattative, i due massimi rappresentanti della Chiesa cattolica e di quella ortodossa si sono incontrati per segnare «un nuovo inizio» della civilizzazione cristiana.
L’incontro è avvenuto in un clima di grande emozione. Il patriarca Kirill, in visita ufficiale a Cuba, aveva passato la mattinata in cerimonie ufficiali e in un «incontro di cortesia» col presidente Raúl Castro.
Ma l’attenzione generale era polarizzata lontano dal centro dell’Avana, verso l’aeroporto José Martí, dove duecento giornalisti erano in attesa dell’aereo papale.
Che è giunto alle due del pomeriggio locali. Ad attenderlo,per il saluto ufficiale, il presidente Raúl e il vertice ecclesiale cubano guidato dal cadinale Jaime Ortega.
Caloroso il saluto tra il papa e il più giovane dei Castro, finalmente sotto un solo caraibico dopo settimane di tempo plumbeo. La cerimonia di benvenuto per il suo secondo viaggio a Cuba è stata però semplice, ridotta al minimo.
Poi il presidente cubano ha accompagnato il pontefice verso la sala dell’aeroporto dove lo attendeva il patriarca di tutta la Russia. I due massimi esponenti della cristianità hanno avuto un colloquio di un paio di ore. Seduti uno di fronte all’altro, prima sotto i riflettori delle tv di tutto il mondo e i flash dei reporter per le immagini destinate a rimanere nei libri di storia; poi isolati e protesi ad affrontare i temi che possano permettere alle due chiese, la cattolica occidentale e l’ortodossa orientale, di stabilire «un ponte» verso un futuro.
Nella notte di giovedì era stata messa a punto una dichiarazione congiunta che esprime punti di vista comuni sui problemi della lotta al terrorismo, sulla necessità di bloccare la persecuzione nei confronti dei cristiani che, in Medio oriente e in Africa del Nord, sono bersaglio di attacchi da parte di estremisti musulmani, militanti dello Stato islamico in primis.
La dichiarazione affronta anche temi etici e sociali, come la difesa della vita del matrimonio e un appello alla pace. Non veniva escluso che i due leader religiosi potessero modificare in qualche punto la dichiarazione , spingendo in avanti il terreno di discussione, in modo da dimostrare che l’incontro è stato veramente un «nuovo inizio»
In ogni modo, da entrambe le parti si è è sottolineato che sia l’incontro, sia la dichiarazione rappresentano «uno storico apporto alla causa ecumenica, al dialogo interreligioso in generale e alla pace nel mondo» e una grande e storica opportunità «perché centinaia di milioni di fedeli nel mondo lavorino assieme in favore di una convivenza civile e per la pace».
In seguito, il papa proseguirà per la sua importante visita in Messico, mentre Kirill resterà fino a domenica a Cuba e poi proseguirà nella sua prima missione in America latina, in Brasile, Cile e Paraguay.
Cuba ha espresso chiaramente l’orgoglio per essere stata scelta come sede dello storico evento. Si tratta per il vertice politico cubano di qualcosa di ben più importante che rappresentare «un terreno neutro», in ballo è il riconoscimento della «vocazione di pace e di dialogo» dell’isola, che già da anni ospita le trattative di pace tra governo colombiano e la guerriglia delle Farc e da più di un anno è protagonista di trattative per normalizzare i rapporti con gli Stati uniti. Il presidente Raùl Castro, è previsto partecipare nella foto che vedrà riuniti i due massimi leader della cristianità.
Immagine che gli conferisce lo status di politico internazionale, credibile e capace di mediazioni efficaci in difficili situazione di crisi.

Il Patriarca che ama lusso e YouTube e definisce Putin un “miracolo di Dio”
Ha sostenuto la crociata del Cremlino contro gay e Pussy Riot Il suo clero lo accusa di modernismo per l’apertura al Vaticano di Lucia Sgueglia La Stampa 13.2.16
Dalle Isole delle lacrime all’Isola della Libertà nei Caraibi, dall’Urss all’ecumenismo, passando per la Siria. È una biografia complessa e contraddittoria, quella di Vladimir Mikhailovich Gundyayev, 69 anni, nato nell’allora Leningrado come Vladimir Putin, ordinato monaco nel 1969, in pieno ateismo di Stato, dal 1989 capo del Dipartimento delle relazioni Esterne del Patriarcato, ex Metropolita di Smolensk e Kaliningrad, salito alla guida della Chiesa russa dal 2009.
Figlio e nipote di sacerdoti, il nonno soffrì 30 anni di Gulag sulle famigerate isole Solovki. Ultra conservatore e contrario alle riforme liturgiche e dottrinali, eppure alla sua nomina fu accusato di «modernismo» e «filo-cattolicesimo» dall’ala più intransigente del suo stesso clero. Appassionato internauta, abile comunicatore e diplomatico, allineato col Cremlino sui dossier politici più importanti (con l’eccezione dell’Ucraina, Paese fratello nella fede). Ma è proprio lui ad aprire la breccia in mille anni di divisione tra la prima e la terza Roma, compiendo lo storico passo che il suo predecessore Alessio II, colui che riportò la fede in Russia dopo 70 anni di Urss, sempre rifiutò.
Vicino, troppo vicino a Vladimir Putin secondo alcuni, fedeli inclusi, avrebbe quasi annullato la separazione Chiesa-Stato. Criticato per il suo presunto amore del lusso, dal costosissimo orologio svizzero Breguet che «sparisce» dalle foto ufficiali, a sospette ville sul Mar Nero o mega appartamenti di fronte al Cremlino. Accusato di contrabbando di sigarette, e persino di legami con il Kgb, per quella sua carriera liturgica precoce, che parte da lontano.
Al fianco di Putin anche nella crociata moralista lanciata in Russia col terzo mandato: dalle leggi anti-gay (con dichiarazioni omofobe, considerò «onesti» alcuni «terroristi» dell’Isis in fuga dal «radicalismo secolare» che celebra i Gay Pride), alla condanna alla galera delle «blasfeme» Pussy Riot (di cui è considerato ispiratore), agli attacchi contro l’opposizione liberale russa, nel 2012 definì le proteste di massa in piazza contro il Cremlino «grida perfora timpani», lodando Putin come «Miracolo di Dio». In barba alla misericordia.
Ma se il leader russo si vanta di non usare la posta elettronica, il Patriarca non adora navigare sul web, e pare se la prenda molto per le critiche online, tanto che avrebbe chiesto ai popi di astenersi da commenti «aggressivi» sul web. Ha una sua pagina Facebook, un canale YouTube dedicato ai giovani, fin dal 1994 è un volto noto della tv di stato col programma settimanale «La parola del Pastore».
L’Occidente «buono»
Una chiesa non pauperista come quella cercata da Francesco, la sua. Ma in Bergoglio, per gli esperti russi, Kirill vede un Papa «non europeo» e non allineato con gli Usa, quindi il rappresentante di un Occidente alternativo, «buono». Nel 2008 Fidel Castro, inaugurando la prima Chiesa ortodossa russa all’Avana, chiamò l’allora Metropolita «alleato contro l’imperialismo americano».
L’incontro di Cuba, assicurano i cremlinologi, non sarebbe avvenuto senza la benedizione del Cremlino. E darebbe una mano a Putin per rompere l’isolamento internazionale della Russia dovuto a sanzioni, Ucraina e Siria, presentando Mosca come ultimo difensore della cristianità contro brutali selvaggi a Oriente, e «pagani decadenti» a Occidente. Con un occhio alla politica religiosa: il primo Concilio pan-ortodosso si terrà a giugno a Creta dopo 12 secoli, e Kirill col Patriarcato di Mosca punterebbe a strappare, legittimato da Francesco, la supremazia morale al rivale Bartolomeo, Patriarca di Costantinopoli, «primus inter pares» tra le chiese ortodosse mondiali. Ma a Mosca, tutti riconoscono a Gundyayev l’inatteso coraggio di un passo impopolare all’interno della sua Chiesa: molti, i più conservatori, non approvano l’abbraccio col Vaticano, in cui vedono un tutt’uno con l’Occidente «nemico». E in questo senso, si può dire, il suo è un passo «progressista».

Mai più nulla sarà come prima
di Enzo Bianchi priore della comunità monastica di Bose Repubblica 13.2.16
 TUTTE le chiese erano certe che in un futuro imprecisato il papa di Roma avrebbe incontrato il patriarca di Mosca e di tutta la Russia, l’unico primate della chiesa ortodossa che aveva sempre dilazionato il faccia a faccia con il papa.
QUESTO nonostante cinquant’anni di incontri ecumenici e di viaggi in diverse nazioni. Tutti i patriarchi e i primati delle chiese ortodosse e di quelle orientali avevano scambiato l’abbraccio con il patriarca d’Occidente, ma il patriarca russo no.
Sono stati cinquant’anni di attesa, nei quali però c’era chi continuava silenziosamente ma caparbiamente a lavorare per questo incontro: organi vaticani, centri ecumenici, vescovi ortodossi non attendevano passivamente quest’ora che diventava anche urgente, per il sorgere del problema di cristiani cattolici, ortodossi e orientali perseguitati e spesso cacciati dal Medio Oriente e per l’ormai incontestabile bisogno di una voce unanime capace di levarsi con autorevolezza nella nuova situazione europea, segnata soprattutto da secolarizzazione e indifferentismo religioso. Ed ecco che ieri l’impossibile è avvenuto grazie alla santa risolutezza di papa Francesco, disposto a rinunciare a ogni precondizione e a lasciare che fosse il patriarca Kyril a stabilire i termini dell’incontro: «Io vengo. Tu mi chiami e io vengo, dove vuoi, quando vuoi!». Parole che resteranno indelebili, come segno di una profonda convinzione e di una capacità di umiltà che rinuncia ai riconoscimenti, al protocollo, a quella che si sarebbe detta la “verità cattolica” dell’autorità del papa.
E così l’incontro è avvenuto in modo inedito: nessuno dei protagonisti ha avuto accanto a sé il suo popolo ad applaudirlo, non c’è stato nessun mega-evento ecclesiale, nessuna liturgia né sfarzose cerimonie. È avvenuto l’essenziale: il faccia a faccia tra Francesco e Kyril, l’abbraccio tanto aspettato, il dialogo di quasi due ore tra fratelli che mai si erano incontrati ed erano divisi da quasi un millennio. I temi del dialogo non coincidono pienamente con quelli della dichiarazione congiunta finale, che è un’attestazione della preoccupazione dei due capi di chiesa. Certo, hanno parlato innanzitutto dell’ecumenismo del sangue che è testimonianza, martirio da parte delle loro rispettive chiese; hanno guardato al Medio Oriente attraversato da violenze, terrorismo e guerre che fanno fuggire i cristiani; hanno discusso della testimonianza comune in un mondo non-cristiano. Ma hanno parlato anche di altri temi: dell’urgente rappacificazione tra chiese in Ucraina, del rifiuto dell’uniatismo e del proselitismo, dell’accettazione del diritto dei greco-cattolici a esistere e vivere accanto agli ortodossi, dei rapporti tra la chiesa di Roma e l’ortodossia tutta, del dialogo teologico bilaterale che procede con difficoltà… La dichiarazione comune potrebbe anche sembrare deludente, ma è un approdo al quale mai era giunta la chiesa ortodossa russa. Ed è significativo che, accanto alla difesa delle esigenze di giustizia, si trovino temi ritenuti decisivi da entrambe le parti, come l’etica familiare e la difesa della vita.
In ogni caso, ciò che è decisivo è che l’incontro è avvenuto, e ormai nulla sarà più come prima tra le due chiese. Molti riducono questo evento a un fatto di politica ecclesiale e, quando ne scrivono, non riescono a leggerlo in profondità, perché sono solo esperti di diplomazia ecclesiastica; ma in verità — e credo di dirlo conoscendo bene la situazione e le parti in causa — ciò che ha determinato l’incontro e gli dà il significato decisivo è la volontà del ristabilimento della comunione. Questa passione e questa santa ossessione ormai la conosciamo bene in Francesco; ma chi conosce Kyril sa che anche lui è convinto di tale cammino, da autentico discepolo del metropolita Nikodim morto tra le braccia di Giovanni Paolo I in Vaticano nel 1978, mentre gli esponeva la reale situazione dei cristiani nell’Urss. Non si dimentichi che Nikodim venne più volte in Occidente, e anche a Bose, per una testimonianza comune sulla pace allora minacciata, e che Kyril, sempre a Bose, ha partecipato agli incontri tra cattolici e ortodossi, sostenendoli in modo risoluto.
Un lungo cammino quello che si è concluso ieri, del quale non riusciamo ancora a valutare l’importanza e le possibilità aperte per l’avvenire. Kyril ha mostrato di essere quello che conoscevamo di lui: un primate convinto della necessità della sua azione ecumenica per tutte le chiese ortodosse, dell’urgenza di una collaborazione con il patriarcato ecumenico di Costantinopoli e di una riconciliazione con la chiesa cattolica. Alcuni non possono leggere questo evento senza pensare a una regia politica di Putin e arrivano a contestare questo incontro, definendo ingenuo il papa. Ma Francesco è un visionario, non vuole che la chiesa viva di tattiche e di strategie, ma crede nella dinamica della storia e nella bontà dell’uomo su cui riposa sempre la chiamata di Dio. Perciò non teme, ma audacemente costruisce ponti anche dove profondo è l’abisso e largo il fiume che separa le due rive.

La «Chiesa in uscita» verso le periferie
L’occhio al Sud del mondo. Geopolitica di un Pontefice di Luigi Accattoli Corriere 13.2.16
C’è una geopolitica di papa Bergoglio? Che ci dicono le sue iniziative per il disgelo tra Cuba e gli Usa, per portare in Vaticano Peres e Abu Mazen, per il superamento del conflitto interno alla Colombia, per un accordo con la Cina, per il sorprendente incontro di ieri con Kirill a Cuba? Che idea caviamo dalla geografia dei suoi spostamenti sul pianeta?
Una prima approssimazione la potrebbe fornire l’insistenza dei suoi viaggi sull’Asia e sull’America Latina: ora è in Messico, ha toccato due volte Cuba, è stato in Brasile, in Ecuador, in Bolivia e in Paraguay. In Asia ha visto la Corea del Sud, lo Sri Lanka e le Filippine, ha detto che andrebbe «anche domani» in Cina e che all’Asia si deve dedicare con particolare impegno stante la minima presenza cristiana in quel continente.
Il Papa venuto dall’Argentina guarda alle periferie mondiali, al Sud del mondo in generale e — da gesuita — con prioritaria passione mira alla Cina. In altre parole: il Papa della «Chiesa in uscita» vorrebbe che l’uscita avesse a meta le popolazioni più vaste e più lontane rispetto al centro romano della cattolicità.
Con analoga approssimazione si potrebbe dire che Karol Wojtyla, Papa slavo, guardava in primis all’Europa centro-orientale, dov’è riuscito a visitare 9 volte la sua patria e dove — caduto l’impero sovietico — ha potuto vedere in ordine di tempo Cecoslovacchia, Albania, Lituania, Lettonia, Estonia, Croazia, Slovenia, Berlino, Bosnia, Romania, Georgia, Ucraina, Kazakistan, Armenia, Azerbaigian, Bulgaria.
Il cuore di Benedetto batteva invece per l’Europa centro-occidentale: nei suoi otto anni è tornato tre volte nella sua patria ed è riuscito a vedere — nell’ordine — Polonia, Spagna, Austria, Francia, Repubblica Ceca, Malta, Portogallo, Gran Bretagna, Croazia. Egli — che è stato definito provvisoriamente «l’ultimo Papa europeo» — era preoccupato per la crisi delle Chiese del Vecchio continente e si adoperava, come poteva, a risvegliarle.
Ma in questi primi tre anni del Pontificato di Francesco c’è di più degli spostamenti sul pianeta per cogliere qualcosa della strategia che lo muove. La sua idea della Chiesa in uscita è un’idea missionaria a tutto campo, che — nell’intenzione — non sottostà a nessuna regola politica o ideologica e mira anzi a sovvertirle, o eluderle, per ottenere l’obiettivo di avvicinamento a ogni umanità. Eccolo dunque che prende iniziative apparentemente impossibili, si muove con libertà, non pone condizioni formali o di prestigio. Si preoccupa — per usare il suo linguaggio — di «avviare processi» più che di acquisire «territori», cioè obiettivi. Stabilisce contatti, propone incontri. Si espone disarmato a ogni strumentalizzazione. È convinto che ostilità ed equivoci alla fine cadranno se il cammino avviato proseguirà. 

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