Un abbraccio nella Storia per due miliardi di cristiani
L’incontro è avvenuto in un clima di grande emozione. Il patriarca Kirill, in visita ufficiale a Cuba, aveva passato la mattinata in cerimonie ufficiali e in un «incontro di cortesia» col presidente Raúl Castro.
Ma l’attenzione generale era polarizzata lontano dal centro dell’Avana, verso l’aeroporto José Martí, dove duecento giornalisti erano in attesa dell’aereo papale.
Che è giunto alle due del pomeriggio locali. Ad attenderlo,per il saluto ufficiale, il presidente Raúl e il vertice ecclesiale cubano guidato dal cadinale Jaime Ortega.
Caloroso il saluto tra il papa e il più giovane dei Castro, finalmente sotto un solo caraibico dopo settimane di tempo plumbeo. La cerimonia di benvenuto per il suo secondo viaggio a Cuba è stata però semplice, ridotta al minimo.
Poi il presidente cubano ha accompagnato il pontefice verso la sala dell’aeroporto dove lo attendeva il patriarca di tutta la Russia. I due massimi esponenti della cristianità hanno avuto un colloquio di un paio di ore. Seduti uno di fronte all’altro, prima sotto i riflettori delle tv di tutto il mondo e i flash dei reporter per le immagini destinate a rimanere nei libri di storia; poi isolati e protesi ad affrontare i temi che possano permettere alle due chiese, la cattolica occidentale e l’ortodossa orientale, di stabilire «un ponte» verso un futuro.
Nella notte di giovedì era stata messa a punto una dichiarazione congiunta che esprime punti di vista comuni sui problemi della lotta al terrorismo, sulla necessità di bloccare la persecuzione nei confronti dei cristiani che, in Medio oriente e in Africa del Nord, sono bersaglio di attacchi da parte di estremisti musulmani, militanti dello Stato islamico in primis.
La dichiarazione affronta anche temi etici e sociali, come la difesa della vita del matrimonio e un appello alla pace. Non veniva escluso che i due leader religiosi potessero modificare in qualche punto la dichiarazione , spingendo in avanti il terreno di discussione, in modo da dimostrare che l’incontro è stato veramente un «nuovo inizio»
In ogni modo, da entrambe le parti si è è sottolineato che sia l’incontro, sia la dichiarazione rappresentano «uno storico apporto alla causa ecumenica, al dialogo interreligioso in generale e alla pace nel mondo» e una grande e storica opportunità «perché centinaia di milioni di fedeli nel mondo lavorino assieme in favore di una convivenza civile e per la pace».
In seguito, il papa proseguirà per la sua importante visita in Messico, mentre Kirill resterà fino a domenica a Cuba e poi proseguirà nella sua prima missione in America latina, in Brasile, Cile e Paraguay.
Cuba ha espresso chiaramente l’orgoglio per essere stata scelta come sede dello storico evento. Si tratta per il vertice politico cubano di qualcosa di ben più importante che rappresentare «un terreno neutro», in ballo è il riconoscimento della «vocazione di pace e di dialogo» dell’isola, che già da anni ospita le trattative di pace tra governo colombiano e la guerriglia delle Farc e da più di un anno è protagonista di trattative per normalizzare i rapporti con gli Stati uniti. Il presidente Raùl Castro, è previsto partecipare nella foto che vedrà riuniti i due massimi leader della cristianità.
Immagine che gli conferisce lo status di politico internazionale, credibile e capace di mediazioni efficaci in difficili situazione di crisi.
Il Patriarca che ama lusso e YouTube e definisce Putin un “miracolo di Dio”
Ha sostenuto la crociata del Cremlino contro gay e Pussy Riot Il suo clero lo accusa di modernismo per l’apertura al Vaticano di Lucia Sgueglia La Stampa 13.2.16
Dalle Isole delle lacrime all’Isola della Libertà nei Caraibi, dall’Urss all’ecumenismo, passando per la Siria. È una biografia complessa e contraddittoria, quella di Vladimir Mikhailovich Gundyayev, 69 anni, nato nell’allora Leningrado come Vladimir Putin, ordinato monaco nel 1969, in pieno ateismo di Stato, dal 1989 capo del Dipartimento delle relazioni Esterne del Patriarcato, ex Metropolita di Smolensk e Kaliningrad, salito alla guida della Chiesa russa dal 2009.
Figlio e nipote di sacerdoti, il nonno soffrì 30 anni di Gulag sulle famigerate isole Solovki. Ultra conservatore e contrario alle riforme liturgiche e dottrinali, eppure alla sua nomina fu accusato di «modernismo» e «filo-cattolicesimo» dall’ala più intransigente del suo stesso clero. Appassionato internauta, abile comunicatore e diplomatico, allineato col Cremlino sui dossier politici più importanti (con l’eccezione dell’Ucraina, Paese fratello nella fede). Ma è proprio lui ad aprire la breccia in mille anni di divisione tra la prima e la terza Roma, compiendo lo storico passo che il suo predecessore Alessio II, colui che riportò la fede in Russia dopo 70 anni di Urss, sempre rifiutò.
Vicino, troppo vicino a Vladimir Putin secondo alcuni, fedeli inclusi, avrebbe quasi annullato la separazione Chiesa-Stato. Criticato per il suo presunto amore del lusso, dal costosissimo orologio svizzero Breguet che «sparisce» dalle foto ufficiali, a sospette ville sul Mar Nero o mega appartamenti di fronte al Cremlino. Accusato di contrabbando di sigarette, e persino di legami con il Kgb, per quella sua carriera liturgica precoce, che parte da lontano.
Al fianco di Putin anche nella crociata moralista lanciata in Russia col terzo mandato: dalle leggi anti-gay (con dichiarazioni omofobe, considerò «onesti» alcuni «terroristi» dell’Isis in fuga dal «radicalismo secolare» che celebra i Gay Pride), alla condanna alla galera delle «blasfeme» Pussy Riot (di cui è considerato ispiratore), agli attacchi contro l’opposizione liberale russa, nel 2012 definì le proteste di massa in piazza contro il Cremlino «grida perfora timpani», lodando Putin come «Miracolo di Dio». In barba alla misericordia.
Ma se il leader russo si vanta di non usare la posta elettronica, il Patriarca non adora navigare sul web, e pare se la prenda molto per le critiche online, tanto che avrebbe chiesto ai popi di astenersi da commenti «aggressivi» sul web. Ha una sua pagina Facebook, un canale YouTube dedicato ai giovani, fin dal 1994 è un volto noto della tv di stato col programma settimanale «La parola del Pastore».
L’Occidente «buono»
Una chiesa non pauperista come quella cercata da Francesco, la sua. Ma in Bergoglio, per gli esperti russi, Kirill vede un Papa «non europeo» e non allineato con gli Usa, quindi il rappresentante di un Occidente alternativo, «buono». Nel 2008 Fidel Castro, inaugurando la prima Chiesa ortodossa russa all’Avana, chiamò l’allora Metropolita «alleato contro l’imperialismo americano».
L’incontro di Cuba, assicurano i cremlinologi, non sarebbe avvenuto senza la benedizione del Cremlino. E darebbe una mano a Putin per rompere l’isolamento internazionale della Russia dovuto a sanzioni, Ucraina e Siria, presentando Mosca come ultimo difensore della cristianità contro brutali selvaggi a Oriente, e «pagani decadenti» a Occidente. Con un occhio alla politica religiosa: il primo Concilio pan-ortodosso si terrà a giugno a Creta dopo 12 secoli, e Kirill col Patriarcato di Mosca punterebbe a strappare, legittimato da Francesco, la supremazia morale al rivale Bartolomeo, Patriarca di Costantinopoli, «primus inter pares» tra le chiese ortodosse mondiali. Ma a Mosca, tutti riconoscono a Gundyayev l’inatteso coraggio di un passo impopolare all’interno della sua Chiesa: molti, i più conservatori, non approvano l’abbraccio col Vaticano, in cui vedono un tutt’uno con l’Occidente «nemico». E in questo senso, si può dire, il suo è un passo «progressista».
Mai più nulla sarà come prima
di Enzo Bianchi priore della comunità monastica di Bose Repubblica 13.2.16
TUTTE le chiese erano certe che in un futuro imprecisato il papa di Roma avrebbe incontrato il patriarca di Mosca e di tutta la Russia, l’unico primate della chiesa ortodossa che aveva sempre dilazionato il faccia a faccia con il papa.
QUESTO nonostante cinquant’anni di incontri ecumenici e di viaggi in diverse nazioni. Tutti i patriarchi e i primati delle chiese ortodosse e di quelle orientali avevano scambiato l’abbraccio con il patriarca d’Occidente, ma il patriarca russo no.
Sono stati cinquant’anni di attesa, nei quali però c’era chi continuava silenziosamente ma caparbiamente a lavorare per questo incontro: organi vaticani, centri ecumenici, vescovi ortodossi non attendevano passivamente quest’ora che diventava anche urgente, per il sorgere del problema di cristiani cattolici, ortodossi e orientali perseguitati e spesso cacciati dal Medio Oriente e per l’ormai incontestabile bisogno di una voce unanime capace di levarsi con autorevolezza nella nuova situazione europea, segnata soprattutto da secolarizzazione e indifferentismo religioso. Ed ecco che ieri l’impossibile è avvenuto grazie alla santa risolutezza di papa Francesco, disposto a rinunciare a ogni precondizione e a lasciare che fosse il patriarca Kyril a stabilire i termini dell’incontro: «Io vengo. Tu mi chiami e io vengo, dove vuoi, quando vuoi!». Parole che resteranno indelebili, come segno di una profonda convinzione e di una capacità di umiltà che rinuncia ai riconoscimenti, al protocollo, a quella che si sarebbe detta la “verità cattolica” dell’autorità del papa.
E così l’incontro è avvenuto in modo inedito: nessuno dei protagonisti ha avuto accanto a sé il suo popolo ad applaudirlo, non c’è stato nessun mega-evento ecclesiale, nessuna liturgia né sfarzose cerimonie. È avvenuto l’essenziale: il faccia a faccia tra Francesco e Kyril, l’abbraccio tanto aspettato, il dialogo di quasi due ore tra fratelli che mai si erano incontrati ed erano divisi da quasi un millennio. I temi del dialogo non coincidono pienamente con quelli della dichiarazione congiunta finale, che è un’attestazione della preoccupazione dei due capi di chiesa. Certo, hanno parlato innanzitutto dell’ecumenismo del sangue che è testimonianza, martirio da parte delle loro rispettive chiese; hanno guardato al Medio Oriente attraversato da violenze, terrorismo e guerre che fanno fuggire i cristiani; hanno discusso della testimonianza comune in un mondo non-cristiano. Ma hanno parlato anche di altri temi: dell’urgente rappacificazione tra chiese in Ucraina, del rifiuto dell’uniatismo e del proselitismo, dell’accettazione del diritto dei greco-cattolici a esistere e vivere accanto agli ortodossi, dei rapporti tra la chiesa di Roma e l’ortodossia tutta, del dialogo teologico bilaterale che procede con difficoltà… La dichiarazione comune potrebbe anche sembrare deludente, ma è un approdo al quale mai era giunta la chiesa ortodossa russa. Ed è significativo che, accanto alla difesa delle esigenze di giustizia, si trovino temi ritenuti decisivi da entrambe le parti, come l’etica familiare e la difesa della vita.
In ogni caso, ciò che è decisivo è che l’incontro è avvenuto, e ormai nulla sarà più come prima tra le due chiese. Molti riducono questo evento a un fatto di politica ecclesiale e, quando ne scrivono, non riescono a leggerlo in profondità, perché sono solo esperti di diplomazia ecclesiastica; ma in verità — e credo di dirlo conoscendo bene la situazione e le parti in causa — ciò che ha determinato l’incontro e gli dà il significato decisivo è la volontà del ristabilimento della comunione. Questa passione e questa santa ossessione ormai la conosciamo bene in Francesco; ma chi conosce Kyril sa che anche lui è convinto di tale cammino, da autentico discepolo del metropolita Nikodim morto tra le braccia di Giovanni Paolo I in Vaticano nel 1978, mentre gli esponeva la reale situazione dei cristiani nell’Urss. Non si dimentichi che Nikodim venne più volte in Occidente, e anche a Bose, per una testimonianza comune sulla pace allora minacciata, e che Kyril, sempre a Bose, ha partecipato agli incontri tra cattolici e ortodossi, sostenendoli in modo risoluto.
Un lungo cammino quello che si è concluso ieri, del quale non riusciamo ancora a valutare l’importanza e le possibilità aperte per l’avvenire. Kyril ha mostrato di essere quello che conoscevamo di lui: un primate convinto della necessità della sua azione ecumenica per tutte le chiese ortodosse, dell’urgenza di una collaborazione con il patriarcato ecumenico di Costantinopoli e di una riconciliazione con la chiesa cattolica. Alcuni non possono leggere questo evento senza pensare a una regia politica di Putin e arrivano a contestare questo incontro, definendo ingenuo il papa. Ma Francesco è un visionario, non vuole che la chiesa viva di tattiche e di strategie, ma crede nella dinamica della storia e nella bontà dell’uomo su cui riposa sempre la chiamata di Dio. Perciò non teme, ma audacemente costruisce ponti anche dove profondo è l’abisso e largo il fiume che separa le due rive.
La «Chiesa in uscita» verso le periferie
L’occhio al Sud del mondo. Geopolitica di un Pontefice di Luigi Accattoli Corriere 13.2.16
C’è una geopolitica di papa Bergoglio? Che ci dicono le sue iniziative per il disgelo tra Cuba e gli Usa, per portare in Vaticano Peres e Abu Mazen, per il superamento del conflitto interno alla Colombia, per un accordo con la Cina, per il sorprendente incontro di ieri con Kirill a Cuba? Che idea caviamo dalla geografia dei suoi spostamenti sul pianeta?
Una prima approssimazione la potrebbe fornire l’insistenza dei suoi viaggi sull’Asia e sull’America Latina: ora è in Messico, ha toccato due volte Cuba, è stato in Brasile, in Ecuador, in Bolivia e in Paraguay. In Asia ha visto la Corea del Sud, lo Sri Lanka e le Filippine, ha detto che andrebbe «anche domani» in Cina e che all’Asia si deve dedicare con particolare impegno stante la minima presenza cristiana in quel continente.
Il Papa venuto dall’Argentina guarda alle periferie mondiali, al Sud del mondo in generale e — da gesuita — con prioritaria passione mira alla Cina. In altre parole: il Papa della «Chiesa in uscita» vorrebbe che l’uscita avesse a meta le popolazioni più vaste e più lontane rispetto al centro romano della cattolicità.
Con analoga approssimazione si potrebbe dire che Karol Wojtyla, Papa slavo, guardava in primis all’Europa centro-orientale, dov’è riuscito a visitare 9 volte la sua patria e dove — caduto l’impero sovietico — ha potuto vedere in ordine di tempo Cecoslovacchia, Albania, Lituania, Lettonia, Estonia, Croazia, Slovenia, Berlino, Bosnia, Romania, Georgia, Ucraina, Kazakistan, Armenia, Azerbaigian, Bulgaria.
Il cuore di Benedetto batteva invece per l’Europa centro-occidentale: nei suoi otto anni è tornato tre volte nella sua patria ed è riuscito a vedere — nell’ordine — Polonia, Spagna, Austria, Francia, Repubblica Ceca, Malta, Portogallo, Gran Bretagna, Croazia. Egli — che è stato definito provvisoriamente «l’ultimo Papa europeo» — era preoccupato per la crisi delle Chiese del Vecchio continente e si adoperava, come poteva, a risvegliarle.
Ma in questi primi tre anni del Pontificato di Francesco c’è di più degli spostamenti sul pianeta per cogliere qualcosa della strategia che lo muove. La sua idea della Chiesa in uscita è un’idea missionaria a tutto campo, che — nell’intenzione — non sottostà a nessuna regola politica o ideologica e mira anzi a sovvertirle, o eluderle, per ottenere l’obiettivo di avvicinamento a ogni umanità. Eccolo dunque che prende iniziative apparentemente impossibili, si muove con libertà, non pone condizioni formali o di prestigio. Si preoccupa — per usare il suo linguaggio — di «avviare processi» più che di acquisire «territori», cioè obiettivi. Stabilisce contatti, propone incontri. Si espone disarmato a ogni strumentalizzazione. È convinto che ostilità ed equivoci alla fine cadranno se il cammino avviato proseguirà.
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