giovedì 24 marzo 2016

Ancora su destra e sinistra oggi













E' necessario e urgente ripensare in maniera autonoma ma approfondita le categorie di destra e sinistra e il loro confine, prima che quel poco che della sinistra rimane venga assorbito o travolto.

Quando anche il Manifesto - sebbene il Manifesto degli epigoni dei giorni nostri - titola in questo modo esplicitamente rosso-bruno, o quando pubblica un resoconto su Karadzic come  introiettando la visione del mondo neocoloniale dominante e restituendola in forme addomesticate per i palati alter-europeisti e radical chic, è segno che i confini tra destra e sinistra vanno rapidamente ridefiniti atraverso un dibattito pubblico. Ed è anche chiaro che lo spazio che rimane a sinistra è veramente esiguo, perché ne vanno espunti gran parte dei nostri conoscenti, dei nostri ricordi e delle nostre abitudini.

E' un'operazione dolorosa ma indispensabile e non più rinviabile.

Se non la facciamo al più presto, infatti - cominciando con il dire una volta per tutte che a stabilire ciò che è di sinistra e di destra non è il sangue blu o l'autoattribuzione geografica o sociologica, ma la concreta proposta politica nel vivo delle contraddizioni in atto - lo faranno gli altri.
E sarà gioco facile a quel punto sostenere che le categorie storico-politiche di destra e sinistra sono ormai le due facce indistinguibili di una stessa mentalità eurocentrica. E che sono superate dal conflitto tra la globalizzazione capitalistica e le resistenze di tutti i tipi, o tra il comunitarismo eurasiatico e il cosmopolitismo liberale, oppure tra gli esclusi tout court e l'establishment.

Affrontare questo passaggio storico con il vocabolario del passato, che pensa di contrapporre l'egemonia in senso tradizionale alllo spauracchio del settarismo, significa non comprendere la natura della fase in corso, nella quale ogni margine di mediazione è escluso. Durante la ritirata strategica - una ritirata che è appena cominciata e che durerà decenni - solo lo stupido e il fondamentalista religioso applicano la stessa tattica degli anni in cui erano giovani e forti, pensando oltretutto di essere furbi.

P.S.
Dalla sinistra andrebbe ad esempio escluso tutto il filone del Comune o dei Beni Comuni. Non solo gli ambienti di stretta ascendenza negriera, il cui orizzonte ostile alla concezione moderna hegeliana e marxista del lavoro conduce a coniugare fancazzismo e cognitariato a manetta. Ma anche quelli meno rigorosi, che sono sì influenzati dal divertentismo negriero ma che, abitando prevalentemente a Roma e terrazze limitrofe, lasciano perdere anche il cognitariato e si limitano alla nostalgia populistica di un tempo bucolico mai esistito, come nell'esempio qui sotto [SGA].



L’Aja condanna Karadzic 
Corte Onu. 40 anni per crimini di guerra e genocidio ma «solo» per la strage di Srebrenica ’95 
Andrea Oskari Rossini Manifesto SARAJEVO 25.3.2016, 23:59 
Alla fine, il verdetto ha deluso sia le vittime che la difesa. Vasvija Kadić, dell’associazione Madri di Srebrenica, ha definito «vergognosa» e «offensiva» la condanna di Radovan Karadžić a 40 anni, e non all’ergastolo. Il presidente dell’associazione dei veterani della Republika Srpska, Milomir Savičić, ha invece definito «ingiusto» il verdetto, mentre gli avvocati della difesa annunciavano il ricorso. Sono passati troppi anni, venti, dalla fine della guerra, e in questi anni le diverse narrazioni sugli anni ’90 non hanno fatto che allontanarsi, in un paese in cui tutto, a partire dal sistema dell’educazione, è diviso. Era dunque prevedibile che ognuno si sarebbe sentito rafforzato nelle proprie opinioni dalle parole del giudice O-Gon Kwon, qualunque esse fossero state. Quelle parole, però, sono state sufficientemente chiare, indipendentemente dal computo della sentenza. L’ex leader dei serbo bosniaci è stato condannato per genocidio, persecuzione, sterminio, omicidio, deportazione, terrore, in un contesto che ha ricostruito gli anni ’92-’95 ricordando le decine di migliaia di persone rinchiuse nei campi di concentramento, uccise, allontanate dalle proprie case. 
È caduta, però, l’accusa di genocidio nelle altre zone della Bosnia Erzegovina, oltre a Srebrenica, in particolare nelle sette municipalità di Ključ, Sanski Most, Prijedor, Vlasenica, Foča, Zvornik e Bratunac. Secondo la versione del Tribunale, dunque, il genocidio è stato commesso solo nel luglio ’95, a Srebrenica, ma la leadership serbo bosniaca non aveva un piano genocidario nei confronti della popolazione bosniaco musulmana fin dall’inizio del conflitto. È questa la parte della sentenza che più è stata criticata dai sopravvissuti e dalle associazioni delle vittime. Munira Subašić, presidente delle «Madri delle enclave di Srebrenica e Žepa», ha dichiarato che non era importante la lunghezza della condanna, ma la ricostruzione precisa di quanto avvenuto, auspicando proprio che la Procura riesca in appello a presentare le prove dell’esistenza di quel piano genocidario sin dal ’92. Karadžić, che aveva chiesto per sé il proscioglimento, ha ascoltato impassibile la sentenza. Negli oltre cinque anni di processo, durante i quali hanno testimoniato quasi 600 persone, la sua versione dei fatti e quella del procuratore, Alan Tieger, sono rimaste inconciliabili. 
Nella lunga requisitoria finale, il procuratore lo ha definito «un bugiardo» per 40 volte. Impossibile ricostruire la parabola personale e politica di un uomo che, prima di vestire i panni del più acceso nazionalista, era considerato una persona mite dai propri concittadini, e che nel periodo jugoslavo era salito agli onori delle cronache solo per qualche piccola truffa. Molti hanno cercato di spiegare la trasformazione con la sindrome del ragazzo di campagna che, arrivato in città, sviluppa un risentimento patologico nei confronti della “gradska raja” di Sarajevo, dell’élite culturale urbana che non lo aveva sufficientemente apprezzato. 
Un altro ragazzo proveniente da uno sperduto villaggio del Montenegro, a pochi chilometri da quello in cui era nato Karadžić nello stesso anno, il 1945, Marko Vešović, ha avuto però una storia radicalmente opposta, scegliendo di restare nella città assediata e continuando a scrivere i suoi versi, tra i più belli della letteratura di questa regione. Un altro grande poeta sarajevese, Abdulah Sidran, ha parlato invece della propria generazione, la stessa di Karadžić, come di una generazione «il cui destino era nelle mani dei padri», costretti da un ineluttabile karma a seguire le impronte di chi li aveva preceduti. Tra i molti esempi che Sidran cita a sostegno della tesi c’è proprio Karadžić, figlio di un esponente del movimento cetnico, cioè monarchico, nazionalista e anticomunista durante la Seconda Guerra Mondiale. 
Quel che è certo è che l’ex psichiatra, a prescindere dalle motivazioni che lo hanno portato a vestire i panni del nazionalista estremo alla fine degli anni ’80, e che già prima della guerra minacciava il popolo musulmano di «estinzione», è riuscito nei propri intenti. Non nell’eliminazione degli altri popoli, ma nella distruzione di un’idea di Bosnia Erzegovina che esisteva prima della guerra, soprattutto nei grandi centri urbani, Sarajevo, Tuzla, Mostar, Zenica, Banja Luka. Nel cuore dei Balcani, la stratificazione di molteplici provenienze culturali, nazionali, religiose, di diversi grandi racconti, aveva contribuito alla formazione di una nuova identità, basata sulla somma di differenze. Una società incomprensibile per l’Europa odierna, che tutt’al più concepisce l’integrazione come adeguamento alla narrazione della maggioranza. La base della società bosniaca, in particolare nelle città, era costituita da famiglie che celebravano nello stesso focolare domestico sia il Natale che il Bajram, un’eresia per i nazionalisti. 
Il contesto era quello di rapporti sociali che «non ci permettevano di pensare che la guerra fosse possibile», come ha scritto il giornalista e diplomatico sarajevese Zlatko Dizdarević. Tutto questo, oggi, non c’è più. In gran parte grazie all’azione di Radovan Karadžić, la cui paranoia nazionalista, nel 1992, aveva un elemento in più rispetto a quella degli altri, cioè l’esercito di Slobodan Milošević. Che intervenne immediatamente, dalla primavera di quell’anno. Che sia stato un genocidio oppure no, quello del ’92, è questione per gli avvocati e i giuristi. Così come il fatto che anche altri abbiano seguito entusiasti quel percorso criminale, per distruggere l’utopia jugoslava. La sostanza è che l’iniziativa della leadership serbo bosniaca di quegli anni è riuscita a distruggere non solo una società, ma anche un’idea di Bosnia Erzegovina. Questo i giudici lo hanno confermato. Troppo tardi, però.

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