giovedì 24 marzo 2016

Ancora su pirateria e mercato degli schiavi nel Mediterraneo




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Quando i pirati del Mediterraneo si arricchivano con gli schiavi 

Musulmani e cristiani a caccia di uomini tra ’500 e ’700, prime vittime i siciliani. Un’attività lecita e soggetta a imposte 

Laura Anello Busiarda 24 3 2016
«Vui mi pare che aviti poco cura a li fatti mei, che haio mandato multi literi, e mai non fu inpissibuli reciviri da voi uno signo di litera». Non è un Camilleri arcaico, ma la lettera di uno schiavo siciliano che accusa la sorella di non rispondere ai suoi messaggi e la implora di darsi da fare per riscattarlo. È il 15 aprile 1596 e Giuseppe Sanciza, così lui si chiama, è uno degli sventurati cristiani rapiti dai corsari musulmani e trascinati in catene a Tunisi, a Biserta, ad Algeri. 
Tanti, tantissimi. Oltre un milione, secondo lo storico americano Robert C. Davis. Uomini donne e bambini, razziati in mare o in terra tra i primi decenni del 1500 e la fine del 1700. I numeri sono scivolosi. Ma di sicuro c’è che il fenomeno della schiavitù e della pirateria nel Mediterraneo, legato alla guerra tra mondo cristiano e islam, sta emergendo soltanto adesso in tutta la sua imponenza, in tempi di nuova jihad e di nuove crociate, a smentire «la leggenda aurea della sua insignificanza numerica rispetto alla schiavitù atlantica», per dirla con Giovanna Fiume, docente di Storia moderna all’Università di Palermo. 
Un mestiere autorizzato
Andare per mare a caccia di uomini, in tutto il mondo cristiano, per tre secoli, non è un’attività illecita, ma un mestiere autorizzato dai governi (che avevano il diritto a un quarto del bottino), soggetto a imposte doganali, sancito con un atto dal notaio che ratificava la costituzione delle «società per andare in corsa». I corsari erano quelli in regola, i pirati gli abusivi, predoni senza patente. 
Venduti sulle piazze dei mercati, spesso maltrattati e denutriti, gli schiavi siciliani scrivono alle famiglie implorando di pagare il riscatto: le loro lettere sono una straordinaria carrellata di testimonianze custodita negli archivi dell’Arciconfraternita per la Redenzione dei Captivi (cioè per il riscatto dei prigionieri), l’istituzione che si occupa di riportare a casa gli schiavi raccogliendo denaro tramite elemosine e donazioni, in un tourbillon di scambi finanziari che ingrassa mercanti, banchieri, intermediari. «Ora è tempo di mostrare il vostro vero amore et quanto mi amate come io amo vui», scrive il 6 dicembre 1597 alla moglie il palermitano Cristoforo Lodi, catturato dai corsari tunisini a Ustica nel traghetto proveniente da Napoli, «non lasciate cosa a vendere ne che fare con parenti e amici». E aggiunge, a convincerla: «La morte è fine di tutto, ma perdenza di roba con il tempo si travaglia et si torna a casa». Lavorando, i soldi si guadagnano di nuovo.
Dopo Lepanto
I siciliani, abitanti dell’ultimo lembo di cristianità, vengono predati da navi «barbaresche», gli islamici da imbarcazioni cristiane, con assoluta reciprocità: una pratica che dietro la cortina dello scontro di civiltà e di religioni diventa business, affare privato, soprattutto dopo la tregua seguita a Lepanto, la madre di tutte le battaglie che nel 1571 - con la vittoria della Lega Santa - traccia nuovi equilibri politici, pone fine alla guerra aperta ma apre la strada a un più sottile, quotidiano ed endemico conflitto. Fa venire i brividi attualizzare quel che successe allora, quando la crisi degli imperi e la fine del conflitto frontale, riconoscibile, ortodosso, aprì la strada alla guerriglia per mare e ai cani sciolti. Fa venire i brividi trasporre quella storia all’oggi, alla disgregazione della Libia e della Siria, ai fragili governi che sono arrivati dopo le primavere arabe, al terrorismo fondamentalista. 
Nel Cinquecento lo specchio di mare tra il Nord Africa e la Sicilia pullula di cacciatori e di prede: razziano i cristiani con patente e i cristiani abusivi, razziano gli islamici in regola e no, razziano gli schiavi musulmani autorizzati dal padrone a esercitare l’attività per pagarsi il riscatto e conquistare la libertà, razziano gli schiavi liberati che hanno appreso il know-how dell’andar per mare, tutti contro tutti, in un arraffa-arraffa di uomini e cose che incrocia destini e fortune.
Una proposta di scambio
C’è chi, dalla sua terra di schiavitù, si preoccupa che i familiari non subiscano la stessa sorte («Direti a mio niputi Filippo che apra li occhi quando va per lo mare e supra tutto si guardi di non andare a la larga», scrive il 9 agosto 1598 da Tunisi Salvo Garofano alla moglie) e pure chi più concretamente suggerisce soluzioni per uscire dall’impaccio, come organizzare uno scambio con un prigioniero musulmano: «Si potessiti comprare un turco e mandarlo di qua», scrive il 4 maggio 1592 Nocentio da Messina alla madre e al fratello. Già, se poteste.  BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

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