Corriere della Sera 9 Jun 2016 Di Mario Andrea Rigoni
E' stato Cesare Pavese stesso, nel risvolto di sovracoperta della prima edizione dei Dialoghi con Leucò (1947), a rivendicare contro i tanti che si ostinavano a considerarlo «un testardo narratore realista, specializzato in campagne e periferie americano-piemontesi», un’altra tendenza del suo temperamento: l’immersione nella sfera archetipica del mito, di cui era testimonianza appunto quell’opera, che egli considerava addirittura il suo «biglietto da visita presso i posteri». Nei Dialoghi, infatti, Pavese non manifesta soltanto la sua cultura mitologica e classica, ma cerca di dare intima voce narrativa, dall’interno di un ardito confronto tra uomini e dèi antichi ( Uomini e dèi suonava un primo titolo successivamente cancellato), agli angosciosi enigmi primordiali del destino umano.
Ma proprio questo aspetto determinò in tutti coloro che nel mito annusano una minaccia di «irrazionalismo» e, in casi ancora più stupidi, di «criptofascismo», sia la scarsa fortuna dell’opera in un’epoca divisa fra neoidealismo e marxismo sia, in generale, la persistente relegazione dell’autore in una zona d’ombra, ad onta della sua universale, ma generica, fama di scrittore.
Un prezioso quanto intelligente e brillante libretto del sociologo Franco Ferrarotti, che di Pavese fu anche amico, ristabilisce adesso la giusta prospettiva esegetica ( Al Santuario con Pavese. Storia di un’amicizia, con due lettere di Pavese a Ferrarotti, Edb). In polemica con l’ottuso e bigotto laicismo militante Ferrarotti mette in luce la vibrazione metafisica e religiosa insita nell’interesse verso il mito di un uomo che «era ovviamente un laico, ma non un laicista. Era un agnostico, forse, ma non indifferente». D’altra parte Ferrarotti denuncia la palese insufficienza delle interpretazioni di tipo psicologico e intimistico che riconducono il senso di tutta l’opera di Pavese, oltre che della sua vita, a un ingorgo amoroso e sentimentale.
In questa luce acquista allora diverso rilievo la pur riconosciuta importanza culturale del Pavese grande traduttore di classici americani (e di alcuni inglesi), come del fondatore, insieme con Ernesto De Martino, della collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici, la cosiddetta «collana viola», edita da Einaudi fra il 1948 e il 1956.
È molto meno noto, se non forse agli specialisti, che Pavese fra il 1924 e il 1927 tradusse un incredibile numero di autori dell’Illuminismo e del Romanticismo tedesco. L’interesse verso la cultura tedesca doveva riaccendersi negli anni Quaranta in concomitanza e anche per effetto dell’amicizia con Giaime Pintor, altra straordinaria figura della cultura italiana di quegli anni, ucciso da una mina nel 1943 a soli 24 anni mentre cercava di unirsi a una formazione combattente partigiana.
Per una felice combinazione editoriale, contemporaneamente al libretto di Ferrarotti, esce da Aragno (che conferma una volta di più la sua fama di editore che pubblica libri che nessun altro editore farebbe) la traduzione inedita che Pavese eseguì, fra il 1944 e il 1945, dei primi due libri della pseudo Volontà di potenza di Nietzsche, ossia i primi 270 aforismi, oltre alla prefazione, quale egli leggeva nel testo di Kröner pubblicato nel 1930, tenendo presente, ma in modo indipendente, la traduzione di Angelo Treves apparsa da Monanni tre anni prima.
Il merito specifico, in questo caso, è di una giovane e appassionata studiosa, Francesca Belviso, che ha dato del lavoro di Pavese un’edizione anche filologicamente accuratissima: essa è accompagnata da un pregevole saggio della curatrice, oltre che da un’introduzione dello storico Angelo d’Orsi (F. Belviso, Amor fati. Pavese all’ombra di Nietzsche, Aragno).
Opportunamente la Belviso ricorda che risale insieme a Pintor e a Pavese il riconoscimento di Nietzsche come filosofo in un’epoca in cui egli era piuttosto noto come poeta. Ma soprattutto la studiosa apre la questione del ruolo che la traduzione degli aforismi nietzschiani, insieme con la lettura della Nascita della tragedia, può avere avuto nella formazione della poetica di Pavese.
Pavese, verrà il Superuomo e avrà i tuoi occhi
La passione segreta di Pavese per NietzscheNegli anni della guerra civile lo scrittore piemontese, studioso autodidatta del tedesco e autentico germanofilo, si dedicò alla lettura del grande filosofo e ne tradusse l’esplosiva «Volontà di potenza»Libero 30 giu 2016 VITO PUNZI
Allontanatosi dalla Torino occupata dai tedeschi, dal settembre 1943 al 1945 Cesare Pavese, a differenza di suoi amici, che da quel momento si spesero per la lotta clandestina, si ritirò sulle colline di Serralunga per leggere e scrivere, ma anche per tradurre. Tra le riletture, quella di alcune opere di Friedrich Nietzsche, ma soprattutto, fatto fino a poco tempo fa praticamente ignoto, affrontò la traduzione di Volontà di potenza (l’originale del filosofo tedesco è una raccolta postuma di scritti edita a partire dal 1901 in almeno cinque diverse edizioni e Pavese lavorò su quella del 1930), senza che vi fosse alcun intento di pubblicarla.
Un duplice approccio che secondo Francesca Belviso, autrice del saggio Amor fati. Pavese all’ombra di Nietzsche (Aragno, pp. XXI-278, euro 25), coincide con una «svolta esistenziale e poetica». Il manoscritto pavesiano contenente la versione della prefazione e dei primi due libri (il secondo non per intero) conta 97 fogli sciolti.
Significativa è anche la storia di questo documento, poiché, sebbene ritrovato e inventariato già nel 1950, viene segnalato pubblicamente da Lancillotta solo nel 1998, ed è da quell’anno che la problematica Pavese-Nietzsche inizia a essere affrontata dalla critica. Belviso parla addirittura di «germanofilia» pavesiana, una passione emersa negli anni giovanili e «coltivata con rinnovato entusiasmo in età adulta». Negli anni che lo videro frequentare a Torino con grande interesse e profitto i corsi di letteratura tedesca di Arturo Farinelli (1926-30), Pavese affrontò lo studio della lingua da autodidatta e tuttavia ardito, tanto da misurarsi con molte traduzioni di testi da Goethe, Schiller, Herder, Heine ed Hölderlin. Una scoperta, questa sua passione per il tedesco e per la relativa cultura letteraria e filosofica sette-ottocentesca generatasi attraverso quella lingua, avvenuta anch’essa solo di recente, dopo la pubblicazione del suo Taccuino segreto, nel 1990. Una passione che lì emerge in tutto il suo significato, tutt’altro che marginale: «Perché nel ’40 ti sei messo a studiare il tedesco? Quella voglia che ti pareva soltanto commerciale, era l’impulso del subcosciente a entrare in una nuova realtà. Un destino. Amor fati».
In quell’anno Pavese s’immerse nella lettura di Nietzsche e incontrò Giaime Pintor, giovane studioso e traduttore dal tedesco. Anche qui, viene da dire, un destino, perché proprio Pintor avrebbe curato nel 1943 per Einaudi un’edizione delle nietzscheane Considerazioni sulla storia, criticando coloro che nel filosofo tedesco vedevano in pratica l’ispiratore di tutti gli irrazionalismi moderni, movimento fascista compreso.
Circa il metodo del tradurre, quello di Pavese è un metodo assolutamente conservativo, nel quale conta cioè anzitutto il maggior rispetto possibile verso la fonte, la ricerca della sua essenza. In una lettera del 1940 è lui stesso a sottolineare come, per tradurre bene, cioè perché non si tratti di «un lavoro meccanico che chiunque può fare», sia necessario «innamorarsi della materia verbale».
Una bella occasione, questo libro, per riaprire il «caso Pavese-Nietzsche», come lo chiama Angelo D’Orsi nel testo che lo introduce. Ma soprattutto per rileggere l’intera opera dello scrittore piemontese alla luce dei suoi interessi, che finalmente si è scoperto essere più complessi (per decenni sono stati sottolineati solo il suo amore e la sua curiosità per la letteratura americana, senza alcun accenno alla sua germanofilia).
Un’occasione anche per ricordare con un po’ di malinconia uno studioso eclettico e di confine, filosofo di formazione, ma poeta per vocazione, scomparso purtroppo troppo presto: Antonio Santori (1961-2007). Un marchigiano di cui oggi, quando finalmente emerge in tutta la sua ricchezza il «caso Pavese-Nietzsche» (a lui del tutto ignoto), si può dire avesse intravisto, senza saperlo e senza avere il tempo per evidenziarne la tessitura ordita dal destino, come i due abbiano in qualche modo dialogato, si siano incontrati. Sono due gli studi di poetica e filosofia pubblicati da Santori, prima di abbandonarsi alla poesia: Esperimento di lettura: i Dialoghi con Leuco di Cesare Pavese. La poetica dell'incontro (Antenore 1985), e Verso la meraviglia d’oro. Dono e incoscienza in Nietzsche (Il Lavoro Editoriale 1990, proprio l’anno dell’emergere del Taccuino segreto...). Pavese e Nietzsche, fatalmente le due stelle che hanno brillato nell’orizzonte creativo di Santori, autore di quattro poemi, proprio a partire da quel 1990.
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