martedì 29 marzo 2016

Cesare Pavese traduttore della "Volontà di potenza"

immagine scheda libroFrancesca Belviso: Amor fati, Pavese all’ombra di Nietzsche, a cura di introduzione di Angelo d’Orsi, pp. XXI-278, € 25

Risvolto
Lo studio di Francesca Belviso, contenente la traduzione parziale della pseudo Volontà di potenza di Nietzsche realizzata dallo scrittore nel ’44-’45 e arricchito da una puntuale Introduzione di uno specialista della storia culturale torinese quale Angelo d’Orsi, getta nuova luce sui precipui interessi culturali che alimentano la poetica di Pavese e invita a leggere l’ultima fase della produzione dello scrittore attraverso il prisma dell’appropriazione della filosofia estetica e politica di Nietzsche, delineando il profilo poco conosciuto di un Pavese traduttore dal tedesco che, impossessandosi della materia verbale del discepolo di Zarathustra, sembra fare una scelta, non solo letteraria, ma anche squisitamente ideologica.

Alla scoperta di un Pavese ineditoI testi usciti per Edb e Aragno Spirituale, metafisico e «nietzschiano» 
Corriere della Sera 9 Jun 2016 Di Mario Andrea Rigoni
E' stato Cesare Pavese stesso, nel risvolto di sovracoperta della prima edizione dei Dialoghi con Leucò (1947), a rivendicare contro i tanti che si ostinavano a considerarlo «un testardo narratore realista, specializzato in campagne e periferie americano-piemontesi», un’altra tendenza del suo temperamento: l’immersione nella sfera archetipica del mito, di cui era testimonianza appunto quell’opera, che egli considerava addirittura il suo «biglietto da visita presso i posteri». Nei Dialoghi, infatti, Pavese non manifesta soltanto la sua cultura mitologica e classica, ma cerca di dare intima voce narrativa, dall’interno di un ardito confronto tra uomini e dèi antichi ( Uomini e dèi suonava un primo titolo successivamente cancellato), agli angosciosi enigmi primordiali del destino umano.
Ma proprio questo aspetto determinò in tutti coloro che nel mito annusano una minaccia di «irrazionalismo» e, in casi ancora più stupidi, di «criptofascismo», sia la scarsa fortuna dell’opera in un’epoca divisa fra neoidealismo e marxismo sia, in generale, la persistente relegazione dell’autore in una zona d’ombra, ad onta della sua universale, ma generica, fama di scrittore.
Un prezioso quanto intelligente e brillante libretto del sociologo Franco Ferrarotti, che di Pavese fu anche amico, ristabilisce adesso la giusta prospettiva esegetica ( Al Santuario con Pavese. Storia di un’amicizia, con due lettere di Pavese a Ferrarotti, Edb). In polemica con l’ottuso e bigotto laicismo militante Ferrarotti mette in luce la vibrazione metafisica e religiosa insita nell’interesse verso il mito di un uomo che «era ovviamente un laico, ma non un laicista. Era un agnostico, forse, ma non indifferente». D’altra parte Ferrarotti denuncia la palese insufficienza delle interpretazioni di tipo psicologico e intimistico che riconducono il senso di tutta l’opera di Pavese, oltre che della sua vita, a un ingorgo amoroso e sentimentale.
In questa luce acquista allora diverso rilievo la pur riconosciuta importanza culturale del Pavese grande traduttore di classici americani (e di alcuni inglesi), come del fondatore, insieme con Ernesto De Martino, della collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici, la cosiddetta «collana viola», edita da Einaudi fra il 1948 e il 1956.
È molto meno noto, se non forse agli specialisti, che Pavese fra il 1924 e il 1927 tradusse un incredibile numero di autori dell’Illuminismo e del Romanticismo tedesco. L’interesse verso la cultura tedesca doveva riaccendersi negli anni Quaranta in concomitanza e anche per effetto dell’amicizia con Giaime Pintor, altra straordinaria figura della cultura italiana di quegli anni, ucciso da una mina nel 1943 a soli 24 anni mentre cercava di unirsi a una formazione combattente partigiana.
Per una felice combinazione editoriale, contemporaneamente al libretto di Ferrarotti, esce da Aragno (che conferma una volta di più la sua fama di editore che pubblica libri che nessun altro editore farebbe) la traduzione inedita che Pavese eseguì, fra il 1944 e il 1945, dei primi due libri della pseudo Volontà di potenza di Nietzsche, ossia i primi 270 aforismi, oltre alla prefazione, quale egli leggeva nel testo di Kröner pubblicato nel 1930, tenendo presente, ma in modo indipendente, la traduzione di Angelo Treves apparsa da Monanni tre anni prima.

Il merito specifico, in questo caso, è di una giovane e appassionata studiosa, Francesca Belviso, che ha dato del lavoro di Pavese un’edizione anche filologicamente accuratissima: essa è accompagnata da un pregevole saggio della curatrice, oltre che da un’introduzione dello storico Angelo d’Orsi (F. Belviso, Amor fati. Pavese all’ombra di Nietzsche, Aragno).

Opportunamente la Belviso ricorda che risale insieme a Pintor e a Pavese il riconoscimento di Nietzsche come filosofo in un’epoca in cui egli era piuttosto noto come poeta. Ma soprattutto la studiosa apre la questione del ruolo che la traduzione degli aforismi nietzschiani, insieme con la lettura della Nascita della tragedia, può avere avuto nella formazione della poetica di Pavese.

Pavese, verrà il Superuomo e avrà i tuoi occhi 

Pubblicata una traduzione dellaVolontà di potenzadi Nietzsche a cui lo scrittore lavorò tra il ’44 e il ’45: conferma l’interesse per il filosofo che gli ispirò lo sfondo mitico deiDialoghi con Leucò 

Lorenzo Mondo Busiarda 28 3 2016
L’editore Aragno ha messo a segno un buon colpo, pubblicando un insospettabile inedito di Cesare Pavese: la traduzione di due libri della nietzscheiana Volontà di potenza (compresa nel volume Amor fati, Pavese all’ombra di Nietzsche, a cura di Francesca Belviso, introduzione di Angelo d’Orsi, pp. XXI-278, € 25).
A chi non abbia una stretta familiarità con Pavese, può riuscire strano, eccentrico, che egli si cimenti con la lingua tedesca e, in secondo luogo, con quel pensatore. In verità, fin dagli anni giovanili si era esercitato a tradurre, da autodidatta, vari poeti tedeschi. Rammento che nella sua biblioteca conservava tra l’altro un Faust delle Universale Sonzogno fittamente annotato. Ma è soltanto nel 1940 che Cesare si mette a studiare con impegno la lingua di Goethe, e di Nietzsche. Anche a proposito di quest’ultimo sono testimoniate letture precoci, che però soltanto negli anni di guerra diventano determinanti. Allora legge e annota, in particolare, La nascita della tragedia, che avrà per lui una grande importanza sul piano creativo, ispirando lo sfondo mitico dei Dialoghi con Leucò. Cos’era accaduto perché l’accreditato studioso e traduttore della letteratura angloamericana mutasse il suo campo d’interesse? 
La germanofilia di Pintor
È decisivo a questo proposito l’incontro e il sodalizio che egli ebbe con Giaime Pintor. Quello che diventerà un’icona dell’antifascismo, non soltanto conosceva e praticava a fondo la lingua tedesca, ma professava una grande ammirazione per la Germania e la sua cultura, senza escludere quella collusa con il Terzo Reich: i filosofi che incarnano la «crisi della modernità» e i compagni di generazione, fatti oggetto di una spavalda, indifferenziata solidarietà. Tutto questo viene contrapposto alla esausta cultura idealistica e storicistica. Lo dimostra l’elenco degli autori proposti per la traduzione alla casa editrice Einaudi di cui Giaime è autorevole consulente. Autori, tra i quali primeggia Nietzsche, caldeggiati da Pavese. Nasce su ispirazione di Pintor la sua germanofilia, che durerà anche dopo la «conversione» e la morte dell’amico agli albori della Resistenza.
I segnali di un rinnovato interesse per il «filosofo-poeta» (così Pavese) si potevano già cogliere, vistosamente, nel «taccuino segreto» del 1942-1943, pubblicato proprio su questo giornale nel 1990. Dove Pavese ravvisa, nella decisione di studiare il tedesco, il segno di un destino, «l’impulso del subcosciente a entrare in una nuova realtà»: chiudendo quella notazione con un illuminante «Amor fati». Più avanti, irride agli affannosi tentativi del governo Badoglio di uscire dalla stretta della guerra: «La pace! la pace! come se quando il mondo è tutto in guerra si potesse vivere in pace. Meglio insistere come uomini sulla propria strada. Ma - dicono - noi non l’abbiamo voluta. Ach! quando mai si vuole il destino? Ci vuole l’amor fati di Nietzsche. La guerra è destino come l’amore». 
Pavese sta scrivendo tra le colline di Serralunga, dove si è rifugiato dopo l’8 Settembre, dibattendosi tra sensi di colpa e oscuri rancori nei confronti di amici che combattono nella Resistenza, fidando nella disciplina tedesca e nel fascismo purificato da Salò per risollevare le sorti del conflitto. È la storia già nota del breve, e inconfessato, smarrimento di Pavese nella catastrofe nazionale. E non bisogna, a rigore, attribuire la responsabilità delle sue confuse notazioni a Nietzsche. Che, d’altronde, lo stesso Pintor aveva sottoposto a un processo di denazificazione. 
Anni di «transigenza»
Comunque è proprio in quel torno di tempo, tra il ’44 e il ’45, che Cesare si applica alla traduzione della Volontà di potenza. Resa, come riferisce Francesca Belviso, «con una prosa sobria, quasi scarna», si presenta di agevole lettura, ma prende significato dai saggi che l’accompagnano. La curatrice, prima di arrivare a Pavese, ripercorre la ricezione critica di Nietzsche in Italia, in origine più estetica che filosofica, a partire dall’antesignano D’Annunzio. 
Angelo d’Orsi, forte di una collaudata frequentazione del momento storico, indaga su quella che egli ama definire «transigenza» culturale, anche da parte di sicuri antifascisti, nei confronti del mondo tedesco. A proposito di Pavese, l’impolitico per definizione, si sorprende che abbia tradotto un’opera di Nietzsche «tra le più esposte sul piano ideologico». E sembrano davvero ininfluenti, a fare chiarezza, le reprimende di Augusto Monti, l’antico maestro, che imputava a Pavese atteggiamenti superomistici. Contano di più le affinità di poetica segnalate dalla Belviso. Anche se risulta forse eccessivo accomunare La volontà di potenza alla Nascita della tragedia come anelli fondamentali nella definizione di una poetica «che non è mimesi né ricerca di una “sensualità verbale”, bensì puro ritmo, musica, ovvero sensazione pura che vuol essere simbolo». 
«Battitore libero»
Resta, su questa impresa pavesiana, un denso velo di ambiguità, accentuato dal fatto che egli abbia lasciato interrotta e non rifinita la sua traduzione. Mi piace concludere allora con Angelo d’Orsi, che non ama il Pavese narratore, ma gli rende l’onore delle armi come «battitore libero», come inquieto, inesausto ricercatore. Proprio le sue debolezze, la stessa deprecata riluttanza all’impegno politico, consentono «di guardare ai temi, alle forme, alle rappresentazioni di Pavese, compresa quella del “suo” Nietzsche, in modo nuovo, meno vincolato a schemi; e, in definitiva, più creativo». 
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Sotto il pensatore «nazista», il critico della modernità 

Gianni Vattimo 
Che cosa avrebbe pensato Pavese di Nietzsche se si fosse trovato tra le mani, invece che La volontà di potenza nella sua edizione canonica del 1906, i manoscritti editi in ordine rigorosamente cronologico da Colli e Montinari, nella edizione di cui disponiamo oggi (Adelphi)? 
Non possiamo evidentemente saperlo, ma possiamo azzardare l’ipotesi che, almeno quanto ai testi, non avrebbe avuto una impressione molto diversa da quella di allora. Forse solo una certa maggiore confusione, come accade oggi a chi, invece di leggere la vecchia edizione canonica della Volontà di potenza, affronta la lettura degli inediti nel loro stato «autentico». E forse è stata opportuna l’idea di Maurizio Ferraris di ripubblicare (qualche anno fa, presso Bompiani) proprio quella vecchia edizione, mettendola a disposizione sia di chi vuole studiare documentatamente «il caso Nietzsche», sia di chi vuole accostare per la prima volta i testi dell’«ultimo» Nietzsche, quello degli anni che lo condussero alla follia esplosa a Torino nel 1889. 
L’edizione che ebbe in mano Pavese era quella messa insieme dalla sorella Elizabeth e dal discepolo Peter Gast, uscita per la prima volta, in questa forma, nel 1906. Sembrava un libro di aforismi, analogo a quelli che Nietzsche aveva pubblicato in vita, come i più famosi Umano troppo umano, Aurora, La gaia scienza, e fu a lungo considerato così; ma era invece un brogliaccio di appunti, abbozzi, annotazioni, che l’autore aveva raccolto e arricchito per anni progettando di riunire e sistemare il tutto in uno Hauptwerk, un opus magnum che doveva contenere in forma sistematica tutti i temi del suo pensiero. Tra gli appunti c’erano anche vari progetti di schema per l’opera, e uno di questi fu scelto dagli editori per costruire La volontà di potenza.
Nietzsche abbandonò poi l’idea dell’opus magnum; ma tutto sommato La volontà di potenza nella edizione canonica ha ancora una sua possibile funzione. Elizabeth e Gast, oltre a mettere in ordine i materiali, operarono anche scelte e tagli, non «neutrali», ma ispirati soprattutto da Elizabeth, che era una specie di nazista ante litteram: fu lei a ricevere solennemente Hitler all’Archivio Nietzsche di Weimar negli Anni Trenta, facendogli dono del bastone da passeggio del fratello. Elizabeth accentuò gli aspetti «razzisti» o in generale biologistici che pure si trovavano negli appunti. Il Nietzsche che Pavese si provò a tradurre era dunque, in tutto e per tutto il Nietzsche ufficiale, quello del nazismo. Solo molto più tardi si cominciò a leggerlo come un critico dell’Occidente e della modernità; può darsi che il nostro scrittore ne avesse avuto una profetica intuizione.
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La passione segreta di Pavese per NietzscheNegli anni della guerra civile lo scrittore piemontese, studioso autodidatta del tedesco e autentico germanofilo, si dedicò alla lettura del grande filosofo e ne tradusse l’esplosiva «Volontà di potenza»Libero 30 giu 2016 VITO PUNZI
Allontanatosi dalla Torino occupata dai tedeschi, dal settembre 1943 al 1945 Cesare Pavese, a differenza di suoi amici, che da quel momento si spesero per la lotta clandestina, si ritirò sulle colline di Serralunga per leggere e scrivere, ma anche per tradurre. Tra le riletture, quella di alcune opere di Friedrich Nietzsche, ma soprattutto, fatto fino a poco tempo fa praticamente ignoto, affrontò la traduzione di Volontà di potenza (l’originale del filosofo tedesco è una raccolta postuma di scritti edita a partire dal 1901 in almeno cinque diverse edizioni e Pavese lavorò su quella del 1930), senza che vi fosse alcun intento di pubblicarla.
Un duplice approccio che secondo Francesca Belviso, autrice del saggio Amor fati. Pavese all’ombra di Nietzsche (Aragno, pp. XXI-278, euro 25), coincide con una «svolta esistenziale e poetica». Il manoscritto pavesiano contenente la versione della prefazione e dei primi due libri (il secondo non per intero) conta 97 fogli sciolti.
Significativa è anche la storia di questo documento, poiché, sebbene ritrovato e inventariato già nel 1950, viene segnalato pubblicamente da Lancillotta solo nel 1998, ed è da quell’anno che la problematica Pavese-Nietzsche inizia a essere affrontata dalla critica. Belviso parla addirittura di «germanofilia» pavesiana, una passione emersa negli anni giovanili e «coltivata con rinnovato entusiasmo in età adulta». Negli anni che lo videro frequentare a Torino con grande interesse e profitto i corsi di letteratura tedesca di Arturo Farinelli (1926-30), Pavese affrontò lo studio della lingua da autodidatta e tuttavia ardito, tanto da misurarsi con molte traduzioni di testi da Goethe, Schiller, Herder, Heine ed Hölderlin. Una scoperta, questa sua passione per il tedesco e per la relativa cultura letteraria e filosofica sette-ottocentesca generatasi attraverso quella lingua, avvenuta anch’essa solo di recente, dopo la pubblicazione del suo Taccuino segreto, nel 1990. Una passione che lì emerge in tutto il suo significato, tutt’altro che marginale: «Perché nel ’40 ti sei messo a studiare il tedesco? Quella voglia che ti pareva soltanto commerciale, era l’impulso del subcosciente a entrare in una nuova realtà. Un destino. Amor fati».
In quell’anno Pavese s’immerse nella lettura di Nietzsche e incontrò Giaime Pintor, giovane studioso e traduttore dal tedesco. Anche qui, viene da dire, un destino, perché proprio Pintor avrebbe curato nel 1943 per Einaudi un’edizione delle nietzscheane Considerazioni sulla storia, criticando coloro che nel filosofo tedesco vedevano in pratica l’ispiratore di tutti gli irrazionalismi moderni, movimento fascista compreso.
Circa il metodo del tradurre, quello di Pavese è un metodo assolutamente conservativo, nel quale conta cioè anzitutto il maggior rispetto possibile verso la fonte, la ricerca della sua essenza. In una lettera del 1940 è lui stesso a sottolineare come, per tradurre bene, cioè perché non si tratti di «un lavoro meccanico che chiunque può fare», sia necessario «innamorarsi della materia verbale».
Una bella occasione, questo libro, per riaprire il «caso Pavese-Nietzsche», come lo chiama Angelo D’Orsi nel testo che lo introduce. Ma soprattutto per rileggere l’intera opera dello scrittore piemontese alla luce dei suoi interessi, che finalmente si è scoperto essere più complessi (per decenni sono stati sottolineati solo il suo amore e la sua curiosità per la letteratura americana, senza alcun accenno alla sua germanofilia).
Un’occasione anche per ricordare con un po’ di malinconia uno studioso eclettico e di confine, filosofo di formazione, ma poeta per vocazione, scomparso purtroppo troppo presto: Antonio Santori (1961-2007). Un marchigiano di cui oggi, quando finalmente emerge in tutta la sua ricchezza il «caso Pavese-Nietzsche» (a lui del tutto ignoto), si può dire avesse intravisto, senza saperlo e senza avere il tempo per evidenziarne la tessitura ordita dal destino, come i due abbiano in qualche modo dialogato, si siano incontrati. Sono due gli studi di poetica e filosofia pubblicati da Santori, prima di abbandonarsi alla poesia: Esperimento di lettura: i Dialoghi con Leuco di Cesare Pavese. La poetica dell'incontro (Antenore 1985), e Verso la meraviglia d’oro. Dono e incoscienza in Nietzsche (Il Lavoro Editoriale 1990, proprio l’anno dell’emergere del Taccuino segreto...). Pavese e Nietzsche, fatalmente le due stelle che hanno brillato nell’orizzonte creativo di Santori, autore di quattro poemi, proprio a partire da quel 1990.

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