giovedì 31 marzo 2016

Da destra e da sinistra è attacco concentrico all'intervento pubblico e ad ogni funzione produttiva e redistributiva dello Stato

Scegliere i vincitori, salvare i perdenti
Debenedetti è notoriamente per socializzare le perdite e privatizzare i profitti, come nella prassi delle privatizzazioni in Italia come dappertutto. Ma anche a sinistra, con l'idea di Comune che non è né pubblico né privato, non scherzano affatto  [SGA].

Franco Debenedetti: Scegliere i vincitori, salvare i perdenti della competizione economica, Marsilio

Risvolto
Un secolo di vita economica, percorso con la competenza dell’imprenditore, la passione del politico, la verve del polemista.
Protezionismo, autarchia, keynesismo, programmazione, strategie, italianità: tante variazioni su uno stesso tema, l’idea che lo Stato, per governare l’economia, debba intervenire e sappia farlo con le scelte giuste. È la politica industriale: lo Stato si sostituisce al mercato e sceglie i vincitori della gara concorrenziale. Salvo poi, quando l’«insana idea» non ha successo, dover correre ai ripari salvando i perdenti. Ma la politica industriale influenza e condiziona anche «l’altra metà del cielo», quella dell’industria privata, delle grandi famiglie e non solo. Si allarga alla politica finanziaria, si espande a quelle culturali e giudiziarie. Cade sulle sue contraddizioni, risorge, sopravvive ai vincoli dall’Unione europea. Quasi coetaneo dell’Iri, che in Italia della politica industriale è stato l’eponimo, Franco Debenedetti, per il suo percorso e per i ruoli che ha ricoperto, vi ha convissuto per molto tempo: prima da manager, lavorando nell’«altra metà del cielo», poi da politico e da saggista, mirando a smontare le strutture dell’intervento pubblico e l’ideologia su cui si reggono.  Dalla Grande Depressione alla Grande Recessione, dagli altiforni alla banda larga, dall’Italietta di Giovanni Giolitti all’Unione europea di Angela Merkel, gli assi di lettura di questo libro - storico, politico, personale - si incrociano in un punto: la politica industriale e le ragioni per cui è un’«insana idea».
Politica industriale, l'insana idea dello Stato padrone
Nicola Porro Giornale - Dom, 24/04/2016

Fare industria con i soldi di tutti 

Teoria, prassi e sperperi dello Stato imprenditore in un’analisi critica di Franco Debenedetti Origini storiche Fu Mussolini a fondare l’Iri dopo la Grande Crisi del 1929 Nel dopoguerra la Dc scelse di proseguire su quella strada Luoghi comuni «Non c’è quasi discussione nella quale il modello Bbc non sia evocato come platonica idea di servizio pubblico» 

31 mar 2016  Corriere della Sera Di Antonio Polito © RIPRODUZIONE RISERVATA 
«A nche nelle maggiori ristrettezze, i denari del pubblico si trovano sempre, per impiegarli a sproposito». Alessandro Manzoni conosceva così bene il nostro carattere nazionale (tendiamo facilmente a dimenticare che il denaro pubblico è nostro), da meritarsi la citazione d’apertura nel nuovo libro di Franco Debenedetti, vera e propria biografia di un’idea (anzi, di «un’insana idea», come è definita nel sottotitolo). L’idea è quella della «politica industriale», e cioè di una «politica in cui l’attività industriale è svolta più o meno direttamente dal potere pubblico», che ha percorso la storia d’Italia da Giolitti a Renzi, e che ancora oggi resta popolare sia nel senso comune di molti italiani sia nella prassi di tanti politici. La convinzione insomma che tocchi allo Stato Scegliere i vincitori, salvare i perdenti della competizione economica (come nel titolo del volume in libreria da oggi per Marsilio).
Ma un’idea, finché resta un’idea, è soltanto un’astrazione. Lo sapeva bene Giorgio Gaber, che aggiungeva: «Se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione». E in effetti l’idea è di sinistra, ma in Italia l’hanno mangiata altri, e ci hanno davvero costruito su una rivoluzione. Prima Mussolini, che diede vita all’Iri credendola temporanea per rispondere alla Grande Crisi del 1929. E poi, nello snodo cruciale del dopoguerra, quando si trattò di decidere se sciogliere l’Iri o confermarla, toccò alla Dc appropriarsi dell’idea fin dal Codice di Camaldoli del 1943, che si ispirava insieme alla dottrina sociale della Chiesa e al New Deal rooseveltiano. Mentre la sinistra del tempo, il Pci, fu almeno all’inizio contraria: ostile a una programmazione di stampo sovietico, ma anche a un riformismo socialdemocratico, «non trovava altra soluzione che una ricaduta totale nel liberismo, nel lasciar fare», come ha notato Vittorio Foa. 
«In quegli anni si affermò», scrive Debenedetti, «la convinzione tutta ideologica che l’attività diretta dello Stato in economia possa rimediare ai mali — disoccupazione, arretratezze, iniquità — e portare il bene — crescita, protezione, innovazione — che, se può, deve, e se deve, che ottenerlo sia un diritto». La politica si comportò insomma come il gran cancelliere di Milano nei Promessi Sposi: «Costui vide, e chi non l’avrebbe veduto, che l’essere il pane a un prezzo giusto, è per sé una cosa molto desiderabile; e pensò, e qui fu lo sbaglio, che un suo ordine potesse bastare a produrla». 
La prassi della politica industriale, almeno nella senescenza della Prima Repubblica, più che una politica per l’industria produsse industrie per la politica (ci fu un tempo in cui l’Iri era della Dc, l’Eni del Psi e l’Efim del Psdi). Ma l’idea ha avuto una sua grandezza e megalomania, anche in campi lontani dall’industria. Pensate per esempio alla cultura. «Ancora oggi non c’è praticamente discussione nella quale il modello Bbc non venga evocato come platonica idea di servizio pubblico». Oppure pensate alla giustizia. «Non mi vengono in mente», scrive l’autore, e devo convenire che non vengono in mente neanche a me, «casi in cui l’intervento della magistratura non vada nella direzione di aumentare il controllo da parte dello Stato e di restringere la libertà dei cittadini come imprenditori e consumatori. E non ne ricordo nessuno in cui l’intervento vada invece nella direzione di eliminare ostacoli all’iniziativa economica privata... L’articolo 41 della Costituzione è specchio di questo pregiudizio: dichiara l’iniziativa economica ‘”libera’ ma fintantoché “non in contrasto con l’utilità sociale”». 
D’altra parte, oltre che la biografia di un’idea questo libro è anche una autobiografia. Perché la politica industriale e l’autore hanno la stessa età (l’Iri e Debenedetti sono nati entrambi nel 1933); perché l’autore ha un lungo passato di dirigente d’industria che ha militato in entrambe «le metà del cielo», come lui chiama l’industria pubblica e quella privata, e dunque ha osservato da vicino le conseguenze negative che la politica industriale ha avuto anche sull’impresa privata (rivelate per esempio dalle inchieste di Tangentopoli); e anche perché l’autore ha un fratello, Carlo De Benedetti, che in molte delle vicende narrate nel libro si è mosso da protagonista, vincendo o perdendo, e dunque il racconto di Franco va letto con un grano di sale perché inevitabilmente, e spesso dichiaratamente, partigiano. 
La fine della politica industriale è stata segnata dall’accordo AndreattaVan Miert del 1993 che diede il via alla grande stagione di privatizzazioni, ma dura ancora lo strascico di polemiche che si è lasciata alle spalle. Per esempio da parte di chi la rimpiange come un’occasione ormai perduta di avere grandi industrie e campioni nazionali. Debenedetti risponde con puntiglio alla teoria dei «fallimenti di mercato», ripercorrendo le travagliate vicende di Olivetti e Telecom. E contrattacca ciò che resta oggi, al tempo di Renzi, del dirigismo: «Il posto dell’ideologia è stato preso da una sorta di pragmatismo, e proprio perché nessuno sembra potergli attribuire propositi sistemici di politica industriale, Renzi si ritiene libero di fare interventi che però ne hanno gli stessi presupposti e conseguenze». Residuati bellici di una guerra ormai finita, come il caso Ilva, il piano «banda larga», le ottomila aziende municipali, le regolamentazioni inutili per tentare di fermare la sharing economy. In definitiva, l’immarcescibile e pericolosa voglia di chiunque entri nella stanza dei bottoni, di schiacciare qualche bottone.

Tra luci e ombre c’era una volta la politica industriale Il nuovo saggio di Franco Debenedetti indaga sul capitalismo difficile del nostro Paese stretto fra troppo Stato e imprese private deboliMARCO PANARA Restampa 24 5 2016
In qualche modo l’Italia è ancora una potenza industriale e, se ci si guarda indietro, c’è da esserne un po’ stupiti scorrendo la lista interminabile degli errori e dei difetti, degli opportunismi e degli ideologismi. La storia dell’industria italiana nell’ultimo secolo è una matassa ingarbugliata che si può in qualche modo dipanare scegliendo uno dei tanti fili. Franco Debenedetti, ingegnere per formazione, manager per professione, liberale e uomo di sinistra, ha scelto la politica industriale. Una chiave potente. La sua posizione dichiarata nel saggio Scegliere i vincitori, salvare i perdenti (Marsilio) è che la politica industriale è una “insana idea”, non deve essere lo Stato a scegliere i vincitori e i perdenti, quello è un compito del mercato, e tanto meno lo Stato deve farsi imprenditore. Ma Debenedetti, che definisce l’industria pubblica «una metà del cielo» non risparmia neanche l’altra metà, quella privata: «Nostra peculiarità è l’inclinazione per incroci e intrecci tra i diversi potentati economici, la riluttanza ad adottare le forme di governance prevalenti altrove», scrive. Debenedetti non risparmia nessuno, ma un dubbio lo accompagna, se con uno Stato diverso anche il privato non avrebbe potuto essere diverso. Dietro la sua lettura più che un’ideologia c’è, figlia della sua formazione e della sua professione, una convinzione: che il motore dello sviluppo sia l’innovazione.
E l’innovazione, che non può essere predeterminata, non è pane per la politica industriale, che è basata sull’idea che si possa definire in anticipo quale strada l’innovazione prenderà. L’innovazione è figlia dell’intuizione e della propensione al rischio, e fiorisce in un ambiente ad essa favorevole. Ecco, lo Stato dovrebbe occuparsi di questo, di favorire un ambiente in cui l’innovazione possa fiorire, la propensione al rischio resti elevata, gli ostacoli alla trasformazione di una idea in un prodotto, in una industria, in lavoro e benessere, siano rimossi. Lo Stato italiano questo non lo ha fatto, ha preso un’altra strada, quella di farsi imprenditore e padrone, con l’idea che impiantare e gestire industrie fosse il modo migliore per fare andare il Paese.
In alcuni settori, a cominciare dalle ferrovie, l’idea dello Stato costruttore e gestore è antica, ma il vero punto di partenza in realtà non è una scelta, ma una necessità, quella di salvare, tra il 1929 e il 1933, le banche che venivano travolte dalla crisi delle imprese di cui esse erano proprietarie. L’Iri nasce, si direbbe oggi, “per default”. La necessità diventa però una scelta dopo la Seconda guerra mondiale (con qualche sintomo premonitore alla fine degli anni Trenta), e quella scelta segnerà l’evoluzione dell’economia italiana per cinquant’anni almeno. Ci restano, di quella scelta, cose importanti, dall’Autostrada del Sole alla (per quanto ancora?) siderurgia, ad una presenza non marginale nell’industria della difesa, dell’aeronautica e dello spazio, nella cantieristica, nelle materie prime energetiche (l’Eni, l’Enel altro colosso ancora semi pubblico è figlia di una nazionalizzazione). C’è stata una industria di Stato creativa, durata pochi anni, e poi c’è stata una industria di Stato per accumulazione, cresciuta a dismisura per salvataggi di imprese private decotte e solo in pochi casi risollevate dalla mano pubblica. Se quella fase creativa ha portato dei vantaggi al Paese, il prezzo pagato è stato altissimo, in termini di risorse non allocate in maniera ottimale, di corruzione del sistema, a cominciare dalla politica. Ma forse soprattutto in termini di mancato sviluppo di un mercato finanziario adeguato, della presenza di investitori istituzionali, di una cultura d’impresa (privata) meno opportunista e più propensa all’innovazione. C’è una simmetria tra l’invadenza dell’industria pubblica e l’asfissia di quella privata, culturale e finanziaria, di un capitalismo non tanto senza capitali quanto con capitali all’estero e comunque non supportato, stimolato e sorvegliato da un mercato dei capitali vitale e trasparente.
Il filo che utilizza Franco Debenedetti gli consente di arrivare al presente, all’Europa, alle banche, al ruolo della Cdp e alle politiche di Renzi, fino al confronto con la Germania, che dopo la guerra ha scelto un’altra strada e ne ha fatta più di noi, e ai paradigmi della nuova economia, quella che ha reso giganti aziende nate in qualche laboratorio o in qualche garage solo dieci anni fa e che hanno messo definitivamente fuori mercato l’idea dello Stato padrone. Ci sono molte storie in questa storia, come capitoli di un romanzo, se anche non si è d’accordo su tutto, aiuta a capire e a non fermarsi. Se siamo qui dopo tanti errori, per fare ancora strada basterà farne un po’ meno.
Il volume sarà presentato oggi alle 17.30 a Roma alla Sala Igea dell’Istituto dell’enciclopedia italiana con Giuliano Amato, Giuliano Ferrara e Gianfelice Rocca ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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